26 dicembre 2023

I Timoria e le visioni dal futuro

Dare alle stampe un disco perfetto è una benedizione e al contempo un rischio. Una benedizione se l'artista decide di ritirarsi dalle scene, come un pugile vittorioso che verrà ricordato solo per lo straordinario finale di carriera. Tuttavia, a sfornare un capolavoro si rischia anche di creare enormi aspettative per il futuro; e non di rado pubblico e critica rimarranno delusi. Mi viene in mente la parabola della prima fase della carriera di Alan Sorrenti. Nel 1972 esordì con l'epocale Aria, così perfetto da essere irraggiungibile; Sorrenti provò inutilmente a eguagliarlo con i due successivi 33 giri, sempre di genere progressive, prima della decisa virata verso il pop.
Nel 1995 i Timoria si trovavano esattamente in questa situazione. Due anni prima era uscito il loro capolavoro, quel Viaggio senza vento che a mio avviso si colloca tra i migliori dischi di rock cantato in italiano di sempre. Ripetersi era un'impresa ardua, se non impossibile. Tante erano dunque le aspettative che accolsero 2020 SpeedBall, uscito nel marzo del 1995. Quinta fatica in studio della band, è un disco ottimo che tuttavia sconta il confronto col precedente, rispetto al quale si colloca un gradino sotto. Ciononostante, rimane una delle proposte più interessanti di quell'anno per il rock nostrano, fermo restando che nel 1995 videro la luce, tra gli altri, Germi degli Afterhours e Acidi e basi dei Bluvertigo.
Sulla rete si leggono pareri di ogni tipo su 2020 SpeedBall e in generale sui Timoria. La maggior parte sono commenti favorevoli, oltre a qualche critica motivata. Alcuni sono invece davvero ingenerosi, come purtroppo accade sempre quando si parla di rock nostrano, il cui triste destino è di non essere apprezzato dagli italiani. Snobismo intellettuale, sterile esterofilia, o forse semplicemente l'incapacità di comprendere che la scena tricolore non può e non deve essere paragonata a quelle inglese e americana. A giudizio di molti presunti esperti, si salverebbero solo i mostri sacri degli anni Settanta (Area & co.), oltre ai C.S.I. Il resto è spesso impietosamente contestato: critiche ai Litfiba da El diablo in poi, ai Diaframma senza Miro Sassolini, ai Negrita, ai Marlene Kuntz da Che cosa vedi in avanti. E ciò accade anche ai Timoria, con toni che spesso tradiscono un immotivato pregiudizio.
Tornando al disco, nel 2020 è stato ristampato in occasione del venticinquennale. Oltre all'album, la confezione comprende la registrazione live del concerto tenuto al Rolling Stone di Milano il 18 dicembre del 1995. La ristampa è molto accurata, impreziosita da un ricco libretto con fotografie inedite, i testi e un lungo resoconto di Omar Pedrini sulla genesi del lavoro.
«Eravamo però a un bivio: fare un disco rock-pop, per cercare di soddisfare le radio, per allargare il nostro pubblico e il consenso, o registrare il disco nella maniera più istintiva possibile, autoproducendolo? Ci guardammo tra di noi e in un attimo eravamo tutti d'accordo!»
A differenza dell'illustre predecessore, 2020 SpeedBall non è un concept album, sebbene le canzoni siano legate da un concetto di base: viene immaginato un possibile futuro, una distopia non troppo lontana, a dirla tutta, da quanto si è effettivamente verificato. Un pianeta inquinato in cui si organizzano fughe verso altri mondi (Europa 3), "santi virtuali" che predicano da uno schermo (Guru), relazioni a distanza vissute per mezzo di un computer (2020), giovani senza valori (Week-end), macchine in grado di influenzare il pensiero (Brain machine). Pedrini si preoccupava per il figlio, che avrebbe compiuto ventisette anni nel 2020, la medesima età del padre nel 1995. Ed è incredibile come il futuro immaginato sia vicino al nostro presente, caratterizzato da pandemie, influencer, relazioni virtuali, disastri ambientali.
La formazione è quella storica, con Renga come cantante, Pedrini alla voce e chitarre, Illorca al basso, le tastiere di Ghedi e Galeri dietro le pelli. Quanto al suono, interessanti le rivelazioni di Pedrini nel libretto della ristampa in cd: «ascoltavamo molto prog, tanto rock americano (erano i tempi di Seattle e del grunge) e moltissima musica inglese […]; in questo album anche le influenze metal uscirono poderose». E in effetti il suono è vario e decisamente più "duro" rispetto ai precedenti lavori. Fare l'analisi traccia per traccia ha poco senso, però qualche breve osservazione è d'uopo. I brani in totale sono diciassette, ma cinque sono semplici intermezzi di un minuto o poco più che legano le varie parti del disco. Tali intermezzi sono trascurabili, a parte la funkeggiante No money, no love e la granitica Brain machine, quest'ultima riproposta anche dal vivo. Venendo alle canzoni, ci sono almeno due ballate che potremmo definire radiofoniche: Senza far rumore e Via Padana Superiore. La prima è una classica rock ballad elettrica che mette in evidenza le doti vocali di Renga; è un pezzo emozionante, anche se classico nell'incedere e nella struttura. Via Padana Superiore è invece cantata da Pedrini, che ne è anche l'autore. Inizia con chitarra acustica e voce arrochita, per poi esplodere in un crescendo elettrico che ne fa uno dei migliori pezzi del quintetto bresciano. Il muro chitarristico costruito da Pedrini e la poderosa sezione ritmica di Illorca/Galeri dominano nell'introduttiva 2020, nella stratosferica Sudamerica e nella breve ma decisa Week-end. Sono canzoni d'impatto, a vocazione hard. Bisogna riconoscere che i Timoria abbiano avuto coraggio a percorrere una strada più ostica rispetto alla ballata radiofonica che sicuramente avrebbe portato maggiori consensi. Il manifesto del disco è proprio la title track, con quei versi di portata generazionale divenuti un marchio di fabbrica.
«Vivere, morire in fretta, datemi la via d'uscita.»
Boccadoro è invece l'esempio perfetto del connubio di stili cui accennavo prima. Per stessa ammissione di Pedrini è un pezzo prog, o forse sarebbe meglio dire che si tratta di un brano che richiama atmosfere del rock nostrano degli anni Settanta, tra Le Orme e il Banco del Mutuo Soccorso. Come da tradizione progressive, sono le tastiere di Ghedi a tenere la scena, così come il testo che ricorda alcune cose del Banco. Da segnalare, anche se un gradino sotto alle citate, la soffusa Fino in fondo e l'onirica Europa 3, caratterizzata da un improvviso cambio di ritmo nella seconda parte. Decisamente da rivedere sono invece Mi manca l'aria e Dancin' queen, pezzo sperimentale che dà l'idea di essere un mero riempitivo.
In conclusione, un disco vario e ispirato, forse non immediato ma che sa imporsi alla distanza. A mio avviso non può mancare in una collezione di rock italiano che si rispetti. Se invece non conoscete nulla dei Timoria, suggerisco di partire da Viaggio senza vento.
La copertina e la band in una foto del libretto interno

14 dicembre 2023

Roma da (ri)scoprire n. 8: il sacrario degli uomini liberi

È stata la lettura dell'importante romanzo di Guglielmo Petroni, Il mondo è una prigione, a instillarmi la curiosità di visitare il Museo storico della Liberazione. Nel libro Petroni racconta i duri giorni trascorsi a Roma nel 1944, arrestato dai tedeschi per la sua attività di antifascista e recluso in quattro luoghi: la casermetta dei militi forestali, il commissariato di via Flaminia, l'atroce carcere di via Tasso e, infine, il terzo braccio di Regina Coeli, gestito dagli occupanti tedeschi. Il museo è sito in via Tasso al numero civico 145, proprio nei locali adibiti a prigione dalle SS fino al 4 giugno 1944. L'edificio in origine ospitava gli uffici culturali dell'ambasciata tedesca, ma dopo l'otto settembre del 1943 fu convertito a sede del servizio e della polizia di sicurezza, entrambi gestiti direttamente dalle SS e comandati dal tenente colonnello Kappler. In questo luogo, durante il periodo dell'occupazione, circa duemila tra uomini e donne, militari e civili, accusati di essere partigiani o loro fiancheggiatori, furono segregati, picchiati, torturati, interrogati e detenuti. Trattandosi di un edificio convertito approssimativamente in luogo di detenzione, la permanenza era temporanea e poteva durare da un solo giorno a qualche mese. Successivamente i prigionieri, salvo casi rarissimi in cui furono liberati, venivano destinati al carcere cittadino di Regina Coeli, oppure spediti di fronte al Tribunale di guerra tedesco per essere condannati alla fucilazione, all'internamento in Germania o in un lager. Molti figurano anche tra i martiri delle Fosse Ardeatine. A via Tasso è inoltre attestata la morte di almeno due prigionieri nel corso degli interrogatori.
Il museo si sviluppa su quattro piani e in pratica è composto da tre appartamenti identici e non comunicanti tra loro. Entrando in ciascuno di essi si percepisce immediatamente che si tratta di una civile abitazione convertita in fretta e furia in carcere. Ogni stanza, a eccezione del bagno, venne infatti trasformata in cella dalle SS. Gli appartamenti erano composti da quattro celle, corrispondenti in origine alla cucina, al salone e a due camere da letto. Sui muri sono presenti ancora le carte da parati dell'epoca, mentre nella stanza che doveva essere la cucina ci sono la cappa di aspirazione e il lavello. Vi è poi un ambiente stretto e lungo, originariamente uno sgabuzzino, utilizzato dalle SS come cella di isolamento. Tutte le finestre sono murate, a eccezione di piccole aperture situate in alto per consentire il passaggio di aria. Non è difficile immaginare le terribili condizioni a cui furono costretti i patrioti ivi rinchiusi; anzi, la cosa che più mi ha colpito è proprio lo stridente contrasto tra l'apparenza della civile abitazione, emblema del calore familiare, e la realtà di luogo di tortura, ingiustizia e dolore.
Le stanze adibite a cella
Le sale del museo contengono una grande mole di documenti di ogni genere. Sono esposti ritagli della stampa periodica clandestina delle formazioni partigiane, corrispondenza e pagine di diario dei prigionieri, documenti ufficiali del registro matricola del carcere, sentenze e provvedimenti del Tribunale militare, oltre a decine di giornali, manifesti, avvisi murali e fotografie. Negli espositori sono inoltre contenute medaglie, onorificenze, vestiti e altri piccoli oggetti appartenuti ai prigionieri, a rimarcare che questo è un museo incentrato sull'uomo e non sugli eventi storici. 
Molto toccanti sono le celle di isolamento, lunghe, buie e strettissime perché ricavate negli sgabuzzini. Trattandosi dell'unica parte degli appartamenti che non era rivestita da carta da parati o mattonelle, i prigionieri hanno potuto incidere sulle bianche pareti una serie di pensieri, preghiere, riflessioni e ultime volontà. Fermarsi a leggerle, oltre che commovente, è una tappa obbligatoria per il rispetto che si deve a questi patrioti. C'è poi una grande sala dedicata ai martiri delle Fosse Ardeatine che contiene ritratti, brevi biografie e piccoli cimeli. In tutte le stanze sono presenti cartelli esplicativi in italiano e inglese sulla storia di Roma dall'avvento del fascismo fino alla liberazione.
Uscito dal museo, mi è venuto da pensare che è in luoghi come questo che si è fatta l'Italia libera e democratica in cui abbiamo avuto la fortuna di nascere. Tradizionalmente quando si parla di Resistenza vengono in mente le montagne oppure le strade cittadine in cui si è combattuto; eppure anche nei pochi metri quadrati degli appartamenti di via Tasso è stata tracciata la strada verso la libertà. E colpiscono soprattutto le parole lasciate sui muri delle celle di isolamento dai prigionieri, parole da cui emerge una grande fiducia verso il futuro del Paese.
«Ama l'Italia più di te stesso, più del mondo dei tuoi affetti, più della vita tua e dei tuoi cari, senza limitazione alcuna, con fede incrollabile nel suo destino. Solo così potrai morire per Lei serenamente e senza rimpianti come i Martiri che ti hanno preceduto. A.P.»
Questa la traccia lasciata dal partigiano firmatosi A.P. Sono parole profondamente sentite che non hanno nulla di vuoto e retorico, e anzi invitano tutti noi a una scelta di campo e a un'assunzione di responsabilità.
Un luogo che merita una visita, tanto più che l'ingresso è libero e sono anche disponibili gratuitamente le audioguide.
L'ingresso della Sala delle Fosse Ardeatine
La disposizione delle celle negli appartamenti

3 dicembre 2023

"Il campo 29" di Sergio Antonielli: la dignità dei vinti

Sergio Antonielli è uno dei tanti scrittori dimenticati del nostro Novecento letterario. Nato a Roma nel 1920 e morto prematuramente a Milano nel 1982, fu anche critico e professore universitario, professione quest'ultima particolarmente amata perché permette «il supremo lusso di un po' di libertà», come ebbe a dire. È ricordato per alcuni saggi di letteratura, tra cui una monografia sul Parini, nonché per un pugno di romanzi quali La tigre viziosa (1954), Oppure, niente (1971) e L'elefante solitario (1979). La sua più memorabile prova di narrativa è tuttavia il romanzo d'esordio, intitolato semplicemente Il campo 29. Fu scritto nel 1947 e pubblicato due anni dopo in sole mille copie per le Edizioni Europee; la seconda edizione, sempre in mille esemplari, uscì nel 1952. Dimenticato per oltre mezzo secolo, è stato ristampato nel 2009 dalle Isbn Edizioni, nella meritoria collana "Novecento italiano", ideata per «rileggere alla luce dell'oggi opere della letteratura del secolo scorso […] dimenticate dagli editori e dagli studiosi e che perciò restano sconosciute o poco note all'ultima generazione di lettori».
Il romanzo racconta una vicenda reale ma ignorata dall'opinione pubblica: l'internamento di diecimila soldati e ufficiali italiani in India, prigionieri degli inglesi dal 1941 al 1946. I nostri militari vennero condotti in una zona remota, ai piedi della catena dell'Himalaya. I campi che ospitavano i prigionieri erano quattro, numerati dal 25 al 28; il numero 29 in realtà non esisteva, ma nel gergo dei prigionieri indicava l'aldilà. Quando uno di loro moriva, si diceva avesse raggiunto il campo 29. Nel voler lasciare questa testimonianza, Antonielli si trovò davanti a un bivio, ossia la scelta tra il racconto d'invenzione e il memoir autobiografico. Alla fine optò per una soluzione intermedia, come lui stesso ebbe a dire in uno scritto del 1975 riportato come prefazione all'edizione del 2009: «non riproduzione diaristica, o documento puro e semplice, o romanzo in senso tradizionale, bensì qualcosa d'intermedio: una sorta di traduzione della realtà». E tuttavia, l'aver privilegiato la soluzione del romanzo dev'essere stato intimamente sofferto, in quanto, secondo le sue stesse parole, sarebbe «dovuto andare più a fondo nel senso del documento».
Il campo 29 è un caleidoscopio di personaggi, ciascuno con le proprie ossessioni, idee, simpatie, idiosincrasie. Il protagonista, in cui forse è possibile ritrovare qualcosa dell'autore, è il sottotenente Venturi. All'apparenza cinico e scontroso, in realtà coltiva la solitudine come strumento di difesa contro i rischi della prigionia. I suoi amici sono Bersezio e Diego, il primo ossessionato da una conflittuale religiosità e il secondo che cerca di astrarsi dalle miserie del presente rifugiandosi nella poesia. La prigionia è fame, malattie e privazione della libertà, per quanto gli italiani in India abbiano beneficiato di condizioni decisamente migliori rispetto agli internati in Russia. I principali nemici dei prigionieri di Antonielli non sono dunque la violenza o l'oppressione dei carcerieri, ma il tedio e l'abbrutimento. Nel romanzo è descritta nei minimi dettagli la loro giornata, dalla sveglia fino alle lunghe notti insonni. Giornate tutte uguali scandite dalle medesime, noiose incombenze: la conta mattutina, le perquisizioni, le passeggiate, il tè pomeridiano nel circolo improvvisato, le visite reciproche nelle baracche, la lettura di qualche romanzetto, i ricordi d'Italia che mordono il cuore, piccole meschinità e grandi gesti d'altruismo. Antonielli si sofferma minutamente su quella vita, descrive con dovizia di particolari le baracche, i vestiti dei prigionieri e persino il cibo, offrendo un doloroso spaccato di vita vissuta. Tutti i personaggi sono ben scolpiti e definiti, tutti diversi eppure accomunati da due ossessioni: il desiderio del rimpatrio e la paura di impazzire, che supera persino quella di morire in India.
«Nel deserto delle giornate tutte uguali prendevano a spuntare le idee fisse, germogli della pazzia. L'idea fissa per eccellenza era la donna.»
Molte pagine sono proprio dedicate alla mancanza dell'affettività. Più ancora della fame e delle privazioni materiali, Antonielli descrive l'inappagabile bisogno dei prigionieri di calore umano, di affetto o anche semplicemente di un corpo di donna. Mancanze che conducono molti al suicidio, a disturbi mentali e finanche a perversioni sessuali. 
I soldati italiani prigionieri durante la Seconda guerra mondiale sono stati spesso negletti dalla politica e ignorati dai libri di scuola, pur essendo da sempre oggetto di interesse da parte degli storici. E neppure tutti sono stati trattati allo stesso modo; se infatti si è parlato molto dei prigionieri della campagna di Russia, solo da qualche anno è stato squarciato il velo di colpevole silenzio che circondava i cosiddetti I.M.I., coloro che per ostilità al fascismo furono internati nei campi tedeschi dopo l'otto settembre del 1943. La vicenda dei soldati italiani in India è tuttora ignorata dai più, sebbene sia pregna della stessa sofferenza. Antonielli, testimone diretto, si è fatto carico di raccontare con questo romanzo una storia che, pur collocandosi ai margini dei grandi avvenimenti del secondo conflitto mondiale, meritava di essere narrata per non essere dimenticata. È la storia dei vinti, di un'umanità dolente e lacera che tuttavia conserva un fondo insopprimibile e inalienabile di dignità.
«Ora sapeva che, posto il muro, gli uomini stanno dalla parte di qua: dei vinti. Avrebbe potuto dire agli inglesi: in questo gioco ho perso, ma è il vostro, un gioco volgare. Al mio ho vinto. Chi sei tu che mi tieni qua chiuso, che pubblichi sui giornali, della mia terra, solo le notizie che la infamano; che dici alla radio, della mia terra, della mia gente, solo quanto serve ad umiliarle? Tu sei uno che, perché altri della tua gente, vestiti come te, m'hanno abbattuto con le armi, mi vieni vicino col passo fermo e col volto del padrone. Ma sai che in me qualcosa vive che non è entrato in lotta, che non hai neanche sfidato: il mio nome e cognome; l'anima mia, i sogni per gli anni a venire, l'affetto per la donna che ho lasciata là, per mia madre che muore, forse, mentre ti parlo, lontana da me tutti questi chilometri che m'hai fatto percorrere tra le baionette. E in questo lo sai che non puoi vincermi a quel tuo gioco di botti e rombi e razzi e carri armati. Se qui mi sfidassi potresti perdere. E ti senti a disagio. E mentre a parole mi offendi, non mi guardi negli occhi.»

21 novembre 2023

"La velocità della luce" di Javier Cercas: una geografia del dolore

Chi è nato in Europa negli anni successivi al 1945 ha avuto la fortuna di non conoscere gli orrori della guerra. La democrazia, il welfare state e l'Unione europea non sono esenti da difetti, eppure sono le istituzioni che ci hanno consentito di raggiungere un grado invidiabile di sviluppo e benessere. I conflitti ci sono apparsi quali eventi lontani e quindi inoffensivi, poco più che notizie di telegiornale cui abbiamo prestato un'attenzione distratta. Quel che sta accadendo in Ucraina e Israele ha modificato la percezione, facendo definitivamente cadere l'illusione che la guerra sia un'entità astratta ed esotica che non ci riguarda. I mezzi di comunicazione si limitano però a riportare i fatti, ossia gli effetti materiali del conflitto, senza addentrarsi nel terreno altrettanto minato degli effetti psicologici. Di ciò devono occuparsi i libri.
È il caso de La velocità della luce, romanzo dello spagnolo Javier Cercas edito nel 2003. Racconta la storia di un'amicizia particolare, quella tra l'io narrante e un reduce del Vietnam di nome Rodney Falk. Il primo è uno squattrinato aspirante scrittore spagnolo che alla fine degli anni Ottanta, grazie all'intercessione di un accademico, accetta l'incarico di assistente alla cattedra di letteratura spagnola all'università di Urbana, nell'Illinois. Qui ha modo di conoscere il secondo, un quarantenne tormentato dai fantasmi della guerra combattuta per quasi due anni nel Paese asiatico. Rodney è considerato un disadattato, un outsider incapace di coltivare legami con i suoi simili. Eppure tra i due nasce inaspettatamente una profonda amicizia, finché l'americano carica la sua auto di bagagli e sparisce nel nulla, facendo perdere ogni traccia. Anche lo spagnolo lascia Urbana una volta terminato l'incarico all'università. Torna a Barcellona, portando con sé tre faldoni donatigli dal padre di Rodney: sono le lettere dolorose e allucinate che l'amico inviava dal Vietnam alla famiglia. Ed è proprio questo flebile ma corporeo legame che lo spingerà a tentare di dipanare il mistero che avvolge l'esistenza del reduce.
La velocità della luce è un libro duro e sconcertante, un impietoso atto d'accusa contro la politica statunitense in Vietnam e, più in generale, una feroce critica all'assurda convinzione secondo cui sia possibile risolvere i contrasti internazionali con la guerra. Come ho accennato sopra, Cercas indaga gli effetti psicologici prodotti sui soldati dall'esposizione alla violenza e dalla commissione di atti brutali. Non a caso il cuore del romanzo è nelle lettere che Rodney scrive ai familiari dal fronte; è in queste missive che viene delineata la geografia del dolore che solo chi ha vissuto gli orrori di un conflitto può comprendere fino in fondo. Inoltre, come avrà modo di capire chi lo leggerà, La velocità della luce è anche un'analisi impietosa dell'ipocrisia di una certa classe intellettuale che si fa abbagliare dalle lusinghe del successo, fino a perdere il contatto con i valori essenziali dell'esistenza.
Nonostante l'indubbia potenza della storia, conclusa la lettura mi sono interrogato su quali siano i punti deboli del romanzo. C'è nella trama qualche passaggio un po' forzato, però devo riconoscere che la storia nel complesso è credibile e scritta bene. Rodney Falk è una figura delineata perfettamente, destinata a rimanere a lungo nella mente del lettore. Cercas è stato abile e meticoloso a entrare nella mente del suo personaggio, descrivendo con dovizia di particolari tutti i fantasmi che l'affollano. La figura di Rodney è certamente il punto di forza del libro e la sua elaborazione un atto di coraggio da parte dello scrittore spagnolo. Cercas è riuscito a non trasformare il veterano nella macchietta del reduce, equivoco in cui si rischia di cadere quando si parla di Vietnam; in parole povere, Rodney non è un Rambo, ma un intellettuale sconvolto e segnato dalle drammatiche esperienze del conflitto. Viceversa, non mi è risultato particolarmente simpatico l'io narrante; forse la mia è una considerazione sciocca, ma non riesco a esprimerla diversamente. Lo scrittore protagonista della vicenda è infatti un personaggio con cui è difficile empatizzare: la sua trasformazione da aspirante artista ad arrivista senza scrupoli è troppo repentina per essere credibile. Sembra quasi che si tratti di una persona diversa rispetto a quella che racconta la prima parte della vicenda. Insomma, tanto è granitica la figura di Rodney, quanto debole quella dell'io narrante. Si tratta ovviamente di una considerazione personale che non intacca il valore di un'opera che merita di essere letta, per farci capire ancora (se mai ce ne fosse bisogno) quali orrori la guerra porti inevitabilmente con sé.

9 novembre 2023

Il Cilento della millenaria devozione: il Santuario della Madonna del Granato

Sono sette i santuari mariani che costellano il territorio del Cilento, dalla marina all'entroterra. Di solito sono collocati su alture, come nel caso della chiesa della Madonna del Sacro Monte di Novi Velia, posta sulla cima del Gelbison a 1705 metri sul livello del mare. La tradizione popolare, per meri fini didascalici e senza voler contraddire l'unicità della Vergine, tramanda che le sette Madonne fossero sorelle. Per questo si parla convenzionalmente delle "sette sorelle del Cilento". Un elemento in comune a questi luoghi è che le immagini che ivi si venerano hanno le medesime caratteristiche iconografiche bizantine; comuni sono anche i riti, le tradizioni e persino i canti.
La Madonna del Granato è una di queste "sorelle". Parlare del santuario dedicatole non significa semplicemente risalire alle origini della devozione popolare, ma ricostruire una parte essenziale della storia locale, nonché vicende che hanno contribuito a definire la storia dell'intero Mezzogiorno. L'edificio si trova appollaiato su un versante del monte Calpazio, poco più in basso rispetto ai ruderi del castello di Capaccio Vecchio, teatro di una celebre congiura. Come ho scritto altrove, nel 1246 alcuni tra i principali notabili del Regno ordirono una cospirazione per uccidere l'imperatore Federico II di Svevia e suo figlio Enzo. Grazie ad alcuni fedelissimi, il sovrano scoprì il complotto e i rivoltosi furono costretti a rifugiarsi nel castello di Capaccio, ritenuto inespugnabile. La fortezza fu cinta d'assedio per tre lunghi mesi dalle truppe di Federico II, fin quando capitolò nel luglio del 1246 per mancanza di approvvigionamenti. Per punizione venne rasa al suolo e tuttora è ridotta a rudere.
Il Santuario della Madonna del Granato a Capaccio (SA)

L'attuale chiesa era un tempo la cattedrale della diocesi di Paestum, soppressa nel corso dell'Ottocento con spostamento della sede vescovile a Vallo della Lucania. La sua origine dovrebbe risalire alla fine del IX secolo d.C., quando i pestani abbandonarono la pianura per sfuggire alle incursioni dei saraceni, rifugiandosi sui primi contrafforti delle alture retrostanti. Nel corso del X secolo anche la sede vescovile fu spostata sul monte Calpazio, come testimonia il Codex diplomaticus cavensis che riferisce dell'esistenza nel 989 di una chiesa dedicata alla Vergine situata in prossimità del castello di Capaccio Vecchio. Secondo una leggenda tramandata oralmente, l'immobile fu costruito dalle medesime maestranze che operarono sul duomo di Salerno. Tracce di un incendio hanno fatto pensare alla distruzione dell'edificio originario, forse di origine basiliana. L'attuale chiesa fu innalzata in posizione più arretrata e servì da alloggio per le truppe assedianti il castello di Capaccio durante il citato episodio. Il titolo di Santa Maria del Granato compare per la prima volta nel 1630; la venerabile statua è invece attestata a partire dalla prima metà del XVIII secolo, quando l'immagine non era permanentemente esposta a causa delle precarie condizioni del luogo. Nel corso del XIX secolo venne costruita una prima casa per accogliere i pellegrini, finché nel 1851 con la soppressione della diocesi di Paestum la chiesa fu elevata a santuario.
L'interno della chiesa
Lo splendido soffitto

Il complesso in origine era costituito da un edificio a tre navate e da una torre campanaria, cui a metà Ottocento è stato aggiunto un corpo di fabbrica a tre piani destinato a canonica. L'interno della chiesa è imponente, anche per effetto del pavimento in leggera salita che amplifica la sensazione di ascensione e accresce gli spazi. Una esauriente descrizione si trova sul sito del Catalogo Generale dei Beni Culturali.
«Le tre navate terminano in un transetto triabsidato, posto ad una quota maggiore di circa 0,56 m rispetto alla parte terminale delle navate, che a loro volta hanno il pavimento in forte pendenza (1,28 m di dislivello). Le navate laterali sono coperte da una serie di voltine a crociera sorrette da colonne mentre la navata centrale conserva la copertura a capriata più volte rifatta. Sul lato destro del transetto, superato un piccolo vano, si accede ad un ambiente absidato, a pianta quadrata, coperto da una pseudocupola impostata su pennacchi generati da una crociera; si tratta di una cappella del XIII secolo, con una copertura a timpani estradossati e un'alta cupola a pan di zucchero, che ha subito notevoli trasformazioni. La torre campanaria, di imponenti proporzioni, è posta sul lato sinistro del transetto; ha un basamento a scarpa e barbacani laterali.»
In fondo alla navata di destra c'è la statua della Vergine che sorregge la melagrana, una raffigurazione di origine greca. Alla foce del Sele, a poca distanza dal santuario, è infatti presente l'Heraion, un tempio dedicato alla dea Hera Argiva; qui è stata trovata una statua in marmo raffigurante la dea seduta in trono con una melagrana in mano. Sembrerebbe che il culto di Hera sia sopravvissuto in età cristiana, trasfigurato nella Madonna del Granato. Tornando alla statua, nel 1918 l'originale medioevale fu distrutta da un incendio, per cui nel 1921 venne collocata quella che è possibile ammirare oggi. L'opera d'arte più pregevole è invece il pulpito di epoca romanica a metà della navata centrale; è sorretto da tre esili colonnine ed è decorato con dischi e lastre marmoree policrome. La bassa volta è affrescata con motivi geometrici e scene di santi.
La statua
Il pulpito romanico
Particolare degli affreschi del pulpito

Da menzionare, infine, lo splendido panorama che si ammira dalla terrazza antistante il santuario. Le fotografie non rendono l'idea; basti dire che la vista spazia su tutta la piana del Sele, con la marina da Agropoli alla Costiera amalfitana, il monte Stella e il Cilento Antico, punta Licosa e i templi di Paestum.
Le fotografie sono liberamente riproducibili, purché ne venga indicata la provenienza da questo blog.
Il panorama dalla terrazza del santuario

31 ottobre 2023

"Parole e musica" di Annalisa Balestrieri: l'effetto del testo nella canzone

Pensieri e parole è il titolo di un celeberrimo singolo di Lucio Battisti del 1971. Un titolo semplice che tuttavia racchiude il senso stesso dello scrivere canzoni; d'altronde, cos'è un testo se non un insieme di pensieri tradotti in parole? Il tema è al centro di Parole e musica: l'effetto del testo nella canzone, saggio di Annalisa Balestrieri di recentissima pubblicazione, che segue di qualche anno La mente in musica, già recensito su questo blog. Se col precedente saggio l'autrice ha voluto analizzare i processi mentali ed emotivi che si mettono in moto con la musica, il nuovo lavoro si occupa di indagare il rapporto tra tali processi e i testi delle canzoni. Un'analisi originale e si potrebbe dire persino necessaria, dato l'esiguo numero di pubblicazioni in materia.
Le tematiche affrontate nel libro sono di sicuro interesse per gli studiosi di psicologia, ma la Balestrieri è abile nel tradurle in concetti alla portata di tutti. Un'opera che non è dunque destinata soltanto agli addetti ai lavori, ma può essere agevolmente compresa e apprezzata anche da chi è semplicemente un appassionato di musica. Saper esporre concetti complessi attraverso un linguaggio comprensibile è il principale pregio dei saggi che si propongono un fine divulgativo, come in questo caso. Si consideri in proposito un estratto.
«Fate un esperimento: chiedete a un amico di ripetere una parola e di continuare a pronunciarla per un paio di minuti. Mentre lo starete ascoltando vi accorgerete che a poco a poco vi troverete a separare i suoni dal loro significato. Questo effetto si chiama sazietà semantica (un fenomeno che a causa della ripetizione ininterrotta di una parola, provoca la sensazione che quest'ultima abbia perso del tutto il suo significato) ed è stato documentato più di cento anni fa. Mano a mano che il significato della parola si perde, certi aspetti del suono (un tipo di pronuncia, una certa lettera), diventano stranamente importanti. La ripetizione consente di sperimentare un nuovo tipo di ascolto che conferisce una maggiore qualità sensoriale alle parole. Quando un suono viene ripetuto più volte la sensazione che ne deriva è che sia legato a quello successivo. Appena sentiamo “Yesterday” ci viene in mente “all my troubles seemed so far away”».
Apprezzabile è inoltre la soluzione di inserire una serie di brevi interviste ad autori e musicisti come Mico Argirò e Massimo Priviero, che raccontano il loro professionale punto di vista sul rapporto tra testo e musica. È un racconto a più voci, in cui le parole della studiosa si alternano a quelle degli artisti. Il libro segue pertanto un approccio multidisciplinare: si occupa di poesia, musica, psicologia, fisiologia, analisi del comportamento. Al tempo stesso le varie materie sono poste in connessione tra loro, per cui si può parlare più correttamente di un'attitudine interdisciplinare. A tal proposito è molto interessante la parte in cui l'autrice si occupa del rapporto tra testi "aggressivi" e apprendimento di condotte devianti e finanche violente. Ne riporto un breve estratto.
«Alcune ricerche si sono concentrate su come il testo di una canzone possa indurre specifici comportamenti, come il consumo di alcolici. Diffondendo nei bar musica con testi che facessero esplicito riferimento all'alcol, a distanza di alcune settimane si è notato un duplice effetto sui clienti: un maggior consumo di alcolici e una permanenza più prolungata nel locale (che a sua volta ha incrementato i consumi). Allo stesso modo in cui il testo di una canzone può indurre comportamenti legati all'aggressività o all'uso di alcolici, così può funzionare in senso opposto, favorendo comportamenti positivi.»
Di particolare rilievo è l'ultimo capitolo, in cui l'autrice chiarisce con esempi pratici quanto esposto in via teorica. Si avvale a tal proposito degli assiomi della psicologia positiva, un approccio scientifico allo studio dei pensieri, dei sentimenti e del comportamento umano che si focalizza sui punti di forza anziché sulle debolezze, ponendosi come obiettivo quello di costruire il bene e non semplicemente di riparare il male. Sulla base degli assunti della psicologia positiva, e in particolare del cosiddetto modello P.E.R.M.A., l'autrice analizza alcuni testi del celebre cantautore Massimo Priviero.
In conclusione, si tratta di un saggio breve ma denso di informazioni e intuizioni, dedicato soprattutto a quanti ancora oggi percepiscono la musica come una delle ragioni per cui vale la pena vivere. In calce al volume è riportata un'ampia sitografia per chi volesse risalire alle fonti e saperne di più sull'argomento.

21 ottobre 2023

Due carogne, una cassaforte e un tradimento

Quando una nave militare li riporta a Marsiglia, Dino Barran e Franz Propp hanno obiettivi opposti. Il primo, interpretato da Alain Delon, è un ombroso medico che vuole lasciarsi alle spalle gli orrori della guerra d'Algeria e riprendere una tranquilla e agiata vita borghese. Charles Bronson veste i panni del secondo, un mercenario americano che invece non sa rinunciare al brivido del combattimento e vuole partire per il Congo infiammato dalla guerra civile. Il francese detesta l'americano e non perde occasione per dimostrarglielo; ciononostante, quest'ultimo tenta egualmente ma senza successo di convincerlo a tornare in Africa. I loro destini sembrano dividersi, fin quando Dino viene assunto come sanitario in una multinazionale parigina, grazie all'intercessione dell'intrigante Isabelle. La donna racconta al medico di aver sottratto dalla cassaforte dell'azienda alcuni importanti documenti, che intende restituire prima di essere scoperta. Chiede così a Dino di aiutarla nell'operazione, dato che lo studio del medico è nella stanza adiacente al caveau. La rischiosa operazione è programmata per Natale, quando la ditta rimane chiusa per tre giorni. Sennonché, a sorpresa, nella cassaforte altrimenti vuota viene depositata un'ingente somma di denaro per la tredicesima dei dipendenti. Il mercenario Franz, che teneva d'occhio Dino dallo sbarco a Marsiglia, viene a sapere del piano e si intrufola di nascosto nel palazzo della multinazionale per appropriarsi del denaro. Quando la ditta viene chiusa per le vacanze natalizie, i due ex commilitoni si incontreranno proprio lì dentro.
Questa la trama di Due sporche carogne – Tecnica di una rapina, film francese del 1968 diretto da Jean Herman. Apparentemente le due "carogne" del titolo sono la coppia di protagonisti, ma nel colpo di scena finale si scoprirà che non è così, perché i due saranno vittime e pedine di un gioco perverso orchestrato a loro insaputa. Si tratta di un film a tratti claustrofobico, girato quasi integralmente in interno. I protagonisti sono tre: Delon, Bronson e la cassaforte, chiusi per tre giorni in un grattacielo di trenta piani protetto da sofisticati e avveniristici (per l'epoca) sistemi di allarme. Ogni dodici ore l'isolamento e la solitudine sono interrotti dal passaggio di un gruppo di silenziose guardie giurate. Nessun effetto speciale, nessuna violenza di troppo, nessuna esplosione o inseguimenti spericolati: al regista non sono servite forzature per rendere la pellicola memorabile.
Intendiamoci, Due sporche carogne non è un capolavoro; eppure, ci insegna cosa significhi saper scegliere gli attori giusti per interpretare una pellicola. Bronson e Delon sono assoluti mattatori e si percepisce una rivalità che probabilmente non era solo di scena. Questa rivalità, o forse sarebbe meglio definirla tensione, contribuisce in buona parte alla riuscita del film. Anzi, ritengo che l'evoluzione del rapporto tra i protagonisti, da ostili a complici e quasi amici, non sia per nulla forzata. Come noto, quando in un'opera ci sono due personaggi principali che nascono nemici, far evolvere o persino rivoluzionare il loro rapporto non è semplice, perché si rischia di cadere nella forzatura o addirittura nel ridicolo. Di questo lungometraggio mi ha invece colpito la naturalezza con cui Herman ha saputo raccontare il cambiamento, rendendolo credibile. La rivalità tra i due è palpabile sin dalle prime scene, così come il disprezzo che il dottor Barran nutre verso Propp, da lui considerato solo un violento mercenario. Eppure, il fatto di essersi cacciati nel medesimo guaio e di dover trovare un modo per uscirne li unisce, portandoli persino a confidenze intime. In proposito è memorabile la scena in cui Dino racconta a Franz un episodio della guerra d'Algeria che l'ha segnato profondamente.
Molte produzioni thriller contemporanee cercano di impressionare lo spettatore con infiniti colpi di scena e l'uso di effetti speciali esagerati, fini a se stessi, persino poco funzionali alla trama. Gli sceneggiatori di oggi dovrebbero invece imparare da pellicole come questa, per comprendere che a volte per intrattenere il pubblico è sufficiente chiudere due uomini e una cassaforte dentro una stanza. Purché si tratti di due attori di razza.
La locandina italiana

8 ottobre 2023

"Due Sicilie" di Alexander Lernet-Holenia: il mondo è un garbuglio

Sgombero subito il campo da qualsiasi possibile equivoco: il romanzo non ha nulla a che vedere con lo Stato preunitario. Il "Re delle Due Sicilie" è infatti il nome che Lernet-Holenia dà all'immaginario ottavo reggimento ulani dell'esercito dell'Impero austro-ungarico, i cui reduci sono i protagonisti della vicenda. Era infatti usanza degli antichi eserciti quella di omaggiare i sovrani stranieri attribuendo il loro nome a intere unità militari.
Secondo la trama, il reggimento Due Sicilie è stato sciolto alla fine della Prima guerra mondiale, dopo aver valorosamente combattuto nelle trincee fangose del fronte orientale. Tra morti, dispersi e altri che hanno fatto perdere le tracce, sono rimasti solo in sette: il colonnello Rochonville e altri sei tra ufficiali e sottufficiali. Un reggimento svanito nel nulla, dissoltosi nelle nebbie del tempo come il glorioso Impero che rappresentava. I sette superstiti oramai conducono una tranquilla e neppure troppo agiata esistenza borghese, sebbene qualcuno cerchi di preservare l'antica, marziale dignità di un tempo. Hanno mantenuto un flebile legame: ogni tanto si incontrano in qualche ricevimento, rammentando con nostalgia la vita del reggimento. Durante una di queste occasioni mondane, l'ex ulano Engelshausen viene ucciso misteriosamente, ritrovato con il collo spezzato come se fosse stato aggredito da un mostro dalla forza sovrumana. Uno alla volta anche gli altri superstiti del reggimento sono vittime di incidenti, malattie e inspiegabili sparizioni. Eventi apparentemente slegati tra loro, eppure uniti da un vincolo inestricabile.
Chi si aspetti di leggere un giallo puro, rimarrà deluso. Nei gialli prevale la razionalità, la logica quasi matematica dell'intreccio; ogni elemento è al suo posto e il mistero si dipana pagina dopo pagina, fino alla soluzione finale. In Due Sicilie non c'è nulla di tutto questo: Lernet-Holenia ha costruito una labirintica vicenda di scambi di persona, morti apparenti, identità in continuo cambiamento. Lo scrittore austriaco sembra volerci dire che nulla è come sembra e ciò che appare non è che un'illusione destinata a naufragare alla prova dei fatti.
Due Sicilie è un romanzo che non può essere inquadrato in un genere. Gli omicidi e l'indagine che ne segue sono un mero pretesto, utilizzato da Lernet-Holenia per raccontare il tramonto di un mondo e di un'epoca, vero e proprio nucleo della narrazione. I commilitoni del disciolto reggimento sono uomini ancora vivi, eppure già morti, mesti spettri illusi di contare ancora qualcosa, in verità irrisoluti viandanti alla ricerca di una tomba in cui seppellirsi. Il crollo dell'Impero austro-ungarico, emblema della fine di un'epoca aurea, è una sorta di ossessione per gli scrittori viennesi, come ben sa chi ha letto Joseph Roth oppure Arthur Schnitzler. Anche la Vienna del 1925 di Lernet-Holenia è una città depressa, l'ombra della metropoli multiculturale di un tempo, un luogo decadente che vive di ricordi e pettegolezzi.
Le parti più riuscite sono indubbiamente quelle in cui lo scrittore austriaco si diffonde in lunghe riflessioni che toccano i temi più vivi e sentiti dell'esperienza. L'intreccio invece mi è stato di difficile comprensione. Non so se ciò sia dipeso da una lettura superficiale, oppure se sia intenzionale. Come ho già scritto, Lernet-Holenia voleva farsi portavoce di una corrente di pensiero secondo cui la realtà è indecifrabile, poco chiara persino a chi la vive. I continui colpi di teatro, gli scambi di identità e le morti vere o presunte sono così tanti che è facile perdere il filo della narrazione. L'autore sembra volerci avvisare che il mondo è imperfetto e non ha senso cercarvi un ordine. Resta comunque (o forse proprio per questo) una grande prova letteraria, pagine dense di immagini e suggestioni in cui ogni singola parola ha un suo peso specifico.

26 settembre 2023

Salvare gli edifici storici dalla speculazione: un possibile compromesso

Se pensate che per un vecchio maniero non ci sia fine peggiore del divenire un rudere, è perché non avete riflettuto sul fatto che potrebbe essere trasformato in una location. Uso volutamente questo termine oggi tanto in voga, perché rende bene l’idea di un luogo ridotto a scenario, sfondo e palcoscenico.
Castelli, palazzi nobiliari e torri punteggiano da nord a sud il territorio italiano: qualcuno è ancora dimora di antiche famiglie, altri sono stati convertiti in musei o spazi pubblici, moltissimi sono in rovina. Poi ci sono quelli su cui gli speculatori hanno allungato le mani, trasformandoli in "resort di lusso", "ideali location per i vostri eventi esclusivi", "dehors chic per matrimoni indimenticabili", "cocktail bar in uno scenario da sogno" e altri orrori del genere. Ecco, per questi edifici provo una gran pena; anzi, sono convinto che loro stessi si vergognerebbero della brutta fine che hanno fatto, se mai potessero esprimersi.
Lo scrittore austriaco Alexander Lernet-Holenia, nel suo romanzo Due Sicilie – che, per inciso, nulla ha a che vedere con lo Stato preunitario –, fa dire a un personaggio che «un soldato non caduto in battaglia non ha condotto a compimento ciò cui si era votato». Contestualizzando questa frase in un ragionamento più complesso sull’onore militare, ciò che il personaggio voleva significare è che un soldato resta tale anche dopo il congedo, per cui non si può pensare di dargli un’identità diversa. Se ciò vale per gli uomini, non vedo perché non debba valere anche per gli edifici.
Fortezze e manieri hanno assolto nei secoli a molteplici funzioni, venendo in continuazione riadattati, modificati, ampliati, destinati a nuovi scopi. Solo la nostra epoca, però, è stata capace di violentarli, trasformandoli in un palcoscenico per esibizionisti. Chi difende questa scelta, parla di fruibilità degli spazi. Eppure, a mio avviso, è lo stesso concetto di fruibilità che viene frainteso. Possibile che un posto diventi fruibile solo se è possibile mangiare, bere e scattare inutili fotografie da pubblicare sui social? E per quale ragione bisogna utilizzare palazzi storici che sarebbe meglio preservare per altri fini? Ci sarebbe da chiedersi quanti, fra quelli che postano scatti su Instagram col calice in mano, avrebbero visitato quel luogo se fosse stato un museo, una biblioteca o un semplice spazio aperto alla collettività. Pochi, di sicuro una sparuta minoranza. Quando un edificio storico diventa location viene snaturato, da protagonista si trasforma in comprimario, mero sfondo al servizio dei narcisisti del selfie.
Sia ben chiaro, il mio articolo non vuole essere una provocazione, né una sterile polemica. Io sono semplicemente dell’idea che un edificio storico andrebbe preservato o al più convertito in uno spazio davvero pubblico, rispettandone storia e architettura. Dovrebbe essere il protagonista del territorio e non un comprimario per matrimoni, compleanni e battesimi. Castelli e palazzi non sono costruzioni come le altre; sono i testimoni della storia locale e hanno un’identità da difendere. Darli in mano ad affaristi attenti solo al profitto significa votarli a morte certa, una morte forse diversa dalla rovina, eppure altrettanto definitiva.
Chi difende a spada tratta siffatte operazioni commerciali, si trincera dietro un presunto stato di necessità. Se non l’avessimo trasformato in ristorante, dicono, in capo a qualche anno sarebbe crollato. Poco male, mi sento di rispondere. Fermo restando che nessuno è in grado di predire il futuro, la rovina è nel ciclo naturale delle cose. Pretendere di salvare questi edifici trasformandoli nel non plus ultra della cafonaggine e della pacchianeria è invece un’innaturale forzatura e una meschina ipocrisia. Meglio ammettere che li si vuole sfruttare per profitto, sarebbe più onesto.
Se proprio non si può fare di meglio, lasciateli morire in pace. Tuttavia, senza arrivare a esiti così estremi, a mio avviso ci sarebbe una soluzione ragionevole: imporre l’apertura di uno spazio museale unitamente all’attività ricettiva. Chi vuole riadattare un palazzo storico a ristorante o albergo dovrebbe essere vincolato a destinare una parte della struttura all’allestimento di un museo o una biblioteca dedicati alla storia locale. Potrebbe essere un buon compromesso, un modo per salvare i ricordi del passato senza rinunciare alle esigenze del presente.
A. Pinto - Paesaggio abruzzese - 1977 (collezione privata)

13 settembre 2023

"Mille gru" di Yasunari Kawabata: il peso della tradizione

Se c'è un'opera che più delle altre ha contribuito a trasmettere all'Occidente l'immagine di un Giappone pittoresco e forse un po' stereotipato, questa è sicuramente Mille gru. Il romanzo ruota intorno a uno dei riti più antichi del Paese del Sol Levante: la chanoyu, ossia la cerimonia del tè. Considerata come una vera e propria arte, fu introdotta dai monaci cinesi nel corso del XIII secolo dopo Cristo; negli anni successivi alcuni esteti ne codificarono le modalità e le regole, da allora continuamente perfezionate e rispettate pedissequamente dai cerimonieri. Il rito si svolge in una stanza chiamata "padiglione del tè", cui si accede da una porta strettissima e bassa che vuole metaforicamente simboleggiare il lasciarsi alle spalle gli affanni e le sofferenze della realtà esterna. La ricerca della pace e della serenità, anche se illusoria e momentanea, ne è dunque l'essenza. Nulla è lasciato al caso e particolare cura è dedicata alla scelta del bricco, delle tazze e del vasellame.
Il romanzo si apre nel bel mezzo di una cerimonia del tè, quella organizzata dalla maestra Chikako Kurimoto in onore del giovane Kikuji Mitani, rimasto solo dopo la morte di entrambi i genitori. Chikako è stata per un periodo una delle amanti del padre di Kikuji, ma non la preferita; per questo motivo, per una forma di civetteria o più verosimilmente per dimostrare di contare ancora qualcosa, decide di fare da intermediaria per trovare una moglie al ragazzo. Senza preoccuparsi di ottenere il suo consenso, trasforma il rito del tè in un omiai, un incontro a scopo di matrimonio, invitando la bella e virtuosa Yukiko. Durante uno di questi incontri è tuttavia presente anche la signora Ota, un'altra amante del defunto Mitani, la preferita e l'unica amata per davvero dal vecchio. Anche la Ota è ossessionata dal passato e seduce il giovane Kikuji, forse per ritrovare in lui l'amante perduto. Le due donne, ciascuna a modo suo, vogliono influenzare il ragazzo: si viene così a creare una situazione incresciosa e immorale che darà il via a una sequela di eventi drammatici.
Mille gru è un romanzo di contrasti dirompenti, celati dietro l'apparente quiete della cerimonia del tè. Tutti i personaggi sono turbati nel profondo da eventi drammatici: Kikuji deve fare i conti con l'ingombrante fantasma del padre, Chikako è incattivita dal suo destino di nubile, la signora Ota non riesce a contenere la sua esuberante sensualità ed è torturata dal rimorso. È un coacervo di tormenti e di inestricabili conflitti: amore e morte, sensualità e pudicizia, tradizione e modernità, incesto e rispetto dei valori familiari. Da questo punto di vista, il romanzo non è solo il nostalgico rimpianto di una società arcaica che cedeva all'avanzare del capitalismo, ma contiene una velata critica a quella morale chiusa e bigotta che non tollerava la vergogna e spingeva i peccatori al suicidio e i censori alla reprimenda.
Kawabata (1899-1972) confermò con questo romanzo di essere un maestro della scrittura, qualità che gli valse il Premio Nobel per la letteratura nel 1968. Il suo stile è essenziale eppure intenso, poche rapide pennellate in grado di ricostruire tutto un mondo; una scrittura che non indulge in lunghe descrizioni, né cerca di imporsi sul lettore. Per quanto possa apparire un'osservazione scontata, leggendo il libro ho avuto più volte l'impressione di essere seduto assieme a Chikako e Kikuji a sorbire una tazza di tè fumante. La lettura di Mille gru è un'esperienza immersiva, qualità sempre più rara e forse persino impensabile per la letteratura contemporanea.
Consiglio la lettura del libro a quanti desiderano approfondire aspetti della società giapponese tradizionale. È un romanzo breve, composto da cinque capitoli che in origine furono pubblicati in riviste e tempi diversi, dal maggio 1949 all'ottobre del 1951. Nel 1952 la casa editrice Chikuma shobō li raccolse in un unico volume, più volte rimaneggiato da Kawabata. Ne sono state ricavate due riduzioni teatrali e un film per la regia di Yoshimura Kōzaburō.
Dello stesso Autore, suggerisco anche La casa delle belle addormentate.
La suggestiva copertina dell'ultima edizione Mondadori

31 agosto 2023

"Il rappresentante" di Joseph O'Connor: cos'è la Giustizia?

Il rappresentante che dà il titolo al romanzo è Billy Sweeney, ex alcolizzato di quarantanove anni, occupato nel settore delle antenne paraboliche. Una triste sera del 1994 l'amata figlia Maeve viene rapinata da tre balordi; i rapinatori, tutti tossicodipendenti, non hanno pietà e la colpiscono ripetutamente alla testa, riducendola in fin di vita. Maeve finisce in coma in terapia intensiva; nessun medico sa dire con certezza se e quando si risveglierà. I tre vengono arrestati e condotti in prigione, ma uno di loro, Donal Quinn, fugge durante un'udienza e si dà alla macchia. Devastato dal dolore, Billy comincia a perlustrare palmo a palmo la città durante lunghe notti insonni: inizialmente il suo obiettivo è quello di catturare Quinn, poi si decide a ucciderlo con le proprie mani. Non ripone fiducia nei tribunali e nella magistratura: vuole farsi giustizia da sé.
Il romanzo è il cupo racconto di un'ossessione divorante, un lento scivolare nella follia, dagli esiti imprevedibili e drammatici. Billy racconta in prima persona la vicenda, compilando tutte le notti un taccuino segreto su cui riversa i ricordi del passato e le ansie del presente. Scrive per la figlia, sperando che un giorno Maeve si risvegli e possa leggerlo. La scrittura autobiografica diventa occasione per un'amara riflessione sui propri errori e al contempo un insperato tentativo di perdonarsi. Le vicende del presente si intrecciano con i ricordi del passato e vengono da questi mediate e compensate.
Il rappresentante è un'opera quanto mai attuale, più di quando venne pubblicata venticinque anni fa. Il farsi giustizia da sé è una tendenza innata nell'animo umano, ma negli ultimi anni, a causa della diffusione dei social network, si sta assistendo a un pericoloso ritorno di questa tentazione. Per rendersene conto basta leggere i commenti pubblicati dagli utenti sotto le notizie di cronaca: protetti dall'anonimato, vomitano addosso al mostro di turno una dose di violenza persino sproporzionata rispetto all'entità della vicenda commentata. Pena di morte e tortura sono i cavalli di battaglia di questi vendicatori del ventunesimo secolo. Ma cosa significa davvero farsi giustizia da sé? Catturare, punire, uccidere chi ci ha fatto del male, è davvero fonte di soddisfazione? Oppure rispondere al male con un altro male ci rende peggiori? Queste e altre sono le domande che O'Connor pone al lettore, lasciando che ciascuno elabori da sé la risposta.
Oggi l'Irlanda è considerata un'isola felice. Il Paese descritto da O'Connor è invece lontano da quest'immagine da cartolina: sciovinista, violento e avvelenato dall'odio verso inglesi e protestanti. L'azione si svolge in una Dublino proletaria e misera, nelle periferie devastate dall'eroina in cui centinaia di giovani sopravvivono con i sussidi statali o commettendo piccoli reati. O'Connor non inventa nulla, si limita a raccontare la città cupa che conosce bene, talvolta illuminata da sprazzi di pura umanità, di cui pure Billy si dimostra capace.
Alcuni recensori hanno parlato di thriller per descrivere questo romanzo, definizione che non mi trova d'accordo. Il rappresentante è un romanzo profondo che nulla ha a che vedere con gli stilemi del thriller. È vero che c'è una tensione strisciante dall'inizio alla fine, così come prevalgono atmosfere plumbee e notturne. Tuttavia, l'ossessiva ricerca dell'aggressore della figlia da parte di Billy non è il cuore del romanzo, ma solo l'occasione per una riflessione. O'Connor chiede al lettore di mettersi nei panni del protagonista e di prendere posizione su una drammatica domanda: la vendetta è una forma di giustizia o un intollerabile abuso?

19 agosto 2023

"Che ne è stato di te, Buzz Aldrin?" di Johan Harstad: una magnifica desolazione

Quando i tecnici della NASA domandarono al secondo uomo sceso sulla Luna, Buzz Aldrin, quali fossero le sue impressioni sul luogo in cui si trovava, l'astronauta pronunciò tre semplici parole, destinate a entrare nella storia per la loro forza descrittiva: «desolazione, una magnifica desolazione». Aldrin è il rappresentante del popolo dei secondi, delle medaglie d'argento, di quelli che arrivano dopo il primo e sono destinati a essere dimenticati dai più. Come i gregari nel ciclismo: gambe d'acciaio che preparano la volata ai velocisti e si defilano dopo aver pedalato in avanscoperta per decine di chilometri.
Aldrin è l'idolo di Mattias, protagonista del romanzo d'esordio di questo scrittore norvegese, edito nel 2005 e pubblicato in Italia da Iperborea. Mattias vive a Stavanger, città industriale tra le più grandi della Norvegia. In pochi giorni la sua vita capitola: prima viene lasciato dalla storica fidanzata dopo tredici anni di relazione e successivamente perde l'amato lavoro da vivaista. Egli non comprende subito che i ripetuti fallimenti dipendono dalla sua scelta di isolarsi piano piano, di abbandonare il palcoscenico della vita per essere un semplice ingranaggio del sistema, un gregario alla Aldrin che porta avanti il suo compito senza essere visto. Il suo atteggiamento è il "vivere nascostamente" di Epicuro, cui ha disatteso un'unica volta nella vita, quando ha cantato alla festa del liceo, cogliendo persino un successo inaspettato. Rimasto solo e senza lavoro, Mattias accetta l'invito di un amico musicista che lo vuole come tecnico del suono della sua band in tour nelle Isole Faroe. Sia pur riluttante, si imbarca per le remote isole e, a causa di una serie di vicende che non anticipo, si ritrova a soggiornare a tempo indeterminato in una casa famiglia per malati psichiatrici. Qui ha inizio la seconda stagione della sua vita, inaspettata e sorprendente.
In parte romanzo di formazione e in parte amaro resoconto di una catastrofe, il racconto assesta più di un pugno allo stomaco del lettore. Inizia come un'ordinaria storia dei nostri tempi, per poi affrontare tematiche complesse come la salute mentale, il fallimento del modello scandinavo del welfare State, la solitudine, l'emarginazione, la profonda crisi dell'uomo contemporaneo. Il punto di svolta è l'arrivo alle Isole Faroe, una terra meravigliosa, verdissima ma senza alberi, la trasposizione terrena della magnifica desolazione di cui parlava Aldrin allunato nel Mare della Tranquillità. Il libro diventa così l'occasione per conoscere un Paese a noi quasi ignoto, ricordato dai più per la rappresentativa calcistica che ogni tanto ha incontrato la nostra nazionale.
Harstad costruisce un magnifico paradosso: il suo Mattias, convintosi a rimanere alle Faroe per essere finalmente invisibile, si rende invece importante agli occhi degli altri proprio in quella terra desolata. Il messaggio del romanzo sembra dunque essere questo: si può tentare di fuggire, allontanarsi da tutto e da tutti e vivere come eremiti, eppure ci sarà sempre qualcuno ad attenderci, qualcuno per cui siamo importanti e che non accetterà di perderci per sempre. Mattias ritrova se stesso quando si riappropria del senso di appartenenza alla comunità umana, che aveva perduto nella natia Stavanger. Egli si scopre dunque malato, affetto da un male dell'anima che aveva sempre confuso per inclinazione caratteriale. La cura è nell'uscire allo scoperto e condividere un progetto con altre persone, per quanto si tratti di un progetto folle, come avrà modo di capire chi leggerà il volume.
Harstad aveva soltanto ventisei anni quando pubblicò Che ne è stato di te, Buzz Aldrin?. Eppure, leggendo il volume si direbbe che sia stato scritto da un autore più maturo: Harstad sa dosare i registri drammatico e comico, rifugge dal consolante lieto fine e approfondisce adeguatamente alcune tematiche scomode. Neppure si rinvengono quelle ingenuità nello stile e nei contenuti che di solito caratterizzano le opere prime. Il finale in tal senso è esemplare: onirico e utopistico, ha la consistenza dei sogni eppure è perfettamente credibile.

8 agosto 2023

Le vecchie estati

«Fui giovane e felice un'estate, nel cinquantuno. Né prima né dopo: quell'estate.»
Così scriveva Gesualdo Bufalino, condensando in poche e semplici battute il senso di un'intera stagione di vita.
«Summer's gone, a summer song,
you've wasted every day, every day.
Summer's gone, can't wipe it off my hands,
write it in the sand, in the sand.»
Così cantavano i Buffalo Tom in Summer, la canzone che più di tutte racchiude il senso di quei giorni felici e malinconici dei lontani anni Novanta.
Trascorro ogni estate alla ricerca di qualcosa che ricordi le vecchie estati: immagini, profumi, volti, percezioni. Frammenti del passato, scampoli di vita vissuta, rimembranze di giornate lunghissime e spensierate mi vengono a trovare quando ripercorro a piedi, in auto o in bicicletta, le stesse vecchie strade di quindici o vent'anni fa. C'è qualche buca in più, altrove l'asfalto è stato rifatto, lunghe cicatrici segnano la posa di nuovi cavi, eppure mi sembra che tutto sia immobile. Strade da muli, deserte di gente e di macchine. Ogni tanto una curva, un albero o un ponte ridestano un ricordo di giorni lontani. Pomeriggi di sole infiniti, senza ansie o preoccupazioni, quando settembre era una minaccia lontana e le vacanze si srotolavano lente e serene.
L'estate perduta è un topos nella poesia, musica e letteratura. Gli artisti spesso rievocano le estati della prima adolescenza: una perduta età dell'oro, stagione dei giochi ma anche delle prime brucianti delusioni e sofferenze. Mi vengono in mente Agostino di Moravia, Estate al lago di Vigevani, nonché un meraviglioso romanzo per ragazzi, Quell'estate al castello della Solinas Donghi. Ci dev'essere un motivo se tanti scrittori hanno voluto rammentare i giorni delle ferie estive, un motivo che va al di là delle mere ragioni narrative. L'estate richiama con ogni evidenza l'età verde della vita, l'idea che tutto si incastri perfettamente e che nulla possa inceppare il meccanismo. Anche le nuvole e le piogge sono passeggere. Non a caso, in alcuni dialetti meridionali l'estate è chiamata genericamente "la stagione", a volerle riconoscere un primato ontologico sulle altre.
C'è un momento nella vita in cui matura l'amara consapevolezza che tutte le estati che verranno non avranno più la poesia del passato. Alla "vacanza", che dà l'idea del vuoto, succedono le "ferie", un'effimera parentesi nell'infinito scorrere dei doveri. Subentra una vaga nostalgia, saudade la definirebbero i lusofoni. Eppure, per quanto si possano tendere le mani, ciò che è andato non potrà mai essere nuovamente afferrato.
E allora, rimangono i ricordi spensierati delle estati che furono: le porte con le chiavi attaccate; i libri del Battello a vapore; i muri scrostati; le case abbandonate; gli speciali della Bonelli; i Grandi Classici Disney; i gelati Gis; i gelati Eldorado; quelli che non ci sono più; quanti sono partiti e non sono tornati; chi mi aspettava davanti alla porta; i gonfiabili a forma di coccodrillo; l'Alfa 33 col motore boxer; la Fiat 131 arancione; le automobili senza aria condizionata; la Laverda Lesmo; la Cagiva Mito; lo stereo Aiwa; le telefonate dalla cabina; la mountain bike blu; le tasche senza telefonini; cinquemila lire in tasca; gli anziani seduti sulle panchine; gli anziani seduti davanti casa; le "piazzette" la sera; la Teneré della Yamaha; gli 883; Radio Monte Gelbison; gli Oasis e gli Smashing Pumpkins; i vecchi cilentani; le vecchie nel lutto sempiterno; l'acqua che mancava per giorni; i treni coi finestrini abbassati; gli intercity con gli scompartimenti a sei; gli acquazzoni pomeridiani; i flipper; i cabinati da bar; la cedrata Tassoni; le lucertole al sole; le Olimpiadi in televisione; le passeggiate nei boschi; giocare a Forza 4; le spiagge deserte; i ricordi svaniti; tutto quello che c'è ancora, ma allora aveva un altro sapore.

26 luglio 2023

"Too close to the fire", l'album italiano di Lee Fardon

Nella fiera delle banalità non può mancare l'affermazione tranchant secondo cui nella vita conta più la fortuna che il talento, oppure che l'intraprendenza e la faccia tosta fanno più del genio. Amenità che andrebbero evitate, eppure quando si parla di artisti come Lee Fardon è impossibile sfuggirne. Di Lee ho già scritto tanti anni fa e l'ho anche contattato per una bella e sincera intervista. L'acquisto di Too close to the fire, il suo quarto disco pubblicato nel 1992, è l'occasione per parlarne di nuovo.
Chitarrista e cantante londinese, nel 1980 diede alle stampe Stories of adventure assieme ai fidi Legionaries, album dal sapore marcatamente rock, cui seguì l'ottimo The God given right, dalle tinte wave. Il successivo The savage art of love (1985), stampato anche in Italia dalla Ricordi, chiuse la sua prima stagione con un pop-rock d'autore. Da quel momento di Fardon si persero un po' le tracce: il grande successo non era arrivato, nonostante le buone recensioni sulle riviste di settore e un discreto seguito anche fuori dalla Gran Bretagna, Italia in testa. Vicissitudini varie e periodi trascorsi all'estero lo tennero lontano dalle sale di registrazione, mentre nel frattempo gli anni Ottanta finivano seppelliti dallo shoegaze, dal grunge, dal britpop.
Quando nel 1992 varcò le soglie del "Room with a view Studio", Lee aveva quasi quarant'anni e una manciata di ottime canzoni in tasca. Le incise con un gruppo di fedelissimi musicisti: Mick Cox alle chitarre, Chris Childs (oggi coi Thunder) al basso, Steve Smith alle tastiere e Paul Beavis alla batteria. Completavano la band un pugno di brave coriste, tra cui Jo Garrett che per qualche tempo è stata parte del Lee Fardon Trio assieme al chitarrista Cox. A dare fiducia al nuovo progetto dopo sette anni di silenzio discografico, fu una piccola etichetta nostrana, la Musique Records di Courmayeur. Un progetto tutto italiano coordinato da Aldo Pedron, come dimostra la foto sul retro scattata in Valle d'Aosta e il missaggio presso il BMS Studio di Castelfranco Emilia. La prova tangibile che il bravo musicista inglese era ancora amato e stimato nel nostro Paese.
Too close to the fire è un disco vario e ispirato, tra il pop d'autore e il soft rock. Le dodici tracce raccontano di amori lontani, desolazioni del presente e nostalgiche rimembranze del passato. Una soffusa malinconia aleggia su tutti i brani, specie quando Fardon racconta il dolore di una donna costretta a prostituirsi (Saturday night) o la poesia di un amore perduto (New State 51). I testi sono semplici eppure suggestivi, scarni ed essenziali come frammenti di vita vissuta.
Il brano di apertura, Someone like you, è un gioiellino pop di pregevole fattura, arricchito da un dialogo continuo tra pianoforte e organo. Deliziose sono poi le soluzioni ritmiche di Heaven can wait, di Strangeland e della title track. Il disco non conosce cali di ispirazione e si mantiene sullo stesso buon livello dall'inizio alla fine. Sono canzoni curate negli arrangiamenti, scritte e suonate bene, segno di una stagione particolarmente ispirata. Non si grida al capolavoro, eppure si percepisce lo spessore di un musicista che avrebbe meritato di più. La voce di Lee è l'assoluta protagonista: calda, avvolgente, lievemente arrochita, mai sopra le righe, assistita dall'ottima corista Jo Garrett (solista in Don't tie me down). Lee non è il classico cantautore voce e chitarra; nelle sue canzoni sa dare spazio agli altri musicisti, curando in particolare la sezione ritmica e le parti di chitarra.
È un album che conquista alla distanza. Dopo qualche ascolto "di rodaggio", le canzoni entrano in testa e si nota che, dietro l'apparenza dimessa, c'è la sostanza di un songwriter di razza: nessuna traccia dà l'idea di essere stata messa per riempitivo, come spesso fanno persino musicisti più celebri. 
Per chi volesse acquistare il disco, inutile girarci intorno: è di difficile reperibilità, perché l'unica stampa è la prima in cd e LP del 1992 (numeri di catalogo mrcd1191 e mr1191). Paradossalmente, gli album precedenti in vinile sono più facili da trovare, specialmente The God given right e The savage art of love. Too close to the fire uscì invece per una intraprendente ma piccola etichetta italiana, per cui bisogna cercare bene, ovviamente in un vero negozio di dischi e non nella grande distribuzione.
«But we were wrong, we are forever,
wherever two walls meet between two rooms,
wherever a father is crying
and soldiers are burning the homes.
Wherever the pressure makes a leader a liar,
wherever a child reaches out too close to the fire.»