28 dicembre 2019

"Maledetto Sud" di Vito Teti: guardarsi dentro per vincere il pregiudizio

«Ecco / io e te, Meridione, / dobbiamo parlarci una volta, / ragionare davvero con calma, / da soli, / senza raccontarci fantasie / sulle nostre contrade. / Noi dobbiamo deciderci / con questo cuore troppo cantastorie». Così scriveva il poeta calabrese Franco Costabile, e non è un caso che Vito Teti abbia utilizzato le sue parole in chiusura dell'interessante saggio Maledetto Sud, edito nel 2013 per Einaudi. Si potrebbe sostenere che la lirica di Costabile riassuma magistralmente la tesi portata avanti dal professor Teti: i meridionali non potranno mai affrancarsi dai pregiudizi fin quando non abbandoneranno l'atteggiamento ambivalente e ondivago di contemporaneo autocompiacimento e autocommiserazione. Bisogna dunque sedersi e saper guardare in faccia la realtà, andare oltre le immagini edulcorate di un Meridione mitico, che forse non è mai esistito, saper ragionare, per l'appunto, togliendosi la maschera.
«Per sfoltire, sfrondare, attenuare, annullare, rovesciare le immagini negative costruite contro i meridionali è necessario andare dentro di noi. È necessario guardare nelle nostre profondità. Non possiamo tollerare pregiudizi e stereotipi, ma non possiamo sopportare gli imbrogli, le menzogne, gli inganni perpetrati in nome di un “noi” nel quale non vogliamo riconoscerci.»
Maledetto Sud è un saggio breve, di agevole lettura, che si propone di affrontare con obiettività, e magari smontare, tutti i pregiudizi antimeridionali che si sono sedimentati nei secoli. Oziosi, lenti, sudici, maledetti, pittoreschi, briganti, mafiosi, camorristi sono solo alcune delle espressioni ingiuriose, a cui l'Autore dedica capitoli specifici. Oppure ancora l'onnipresente melanconia, un misto di dolore, rassegnazione e rimpianto che assume valenza quasi patologica nei giudizi impietosi di “nordici” e stranieri. La validità culturale e scientifica dell'opera sta nel tono complessivo: Teti si guarda bene dall'assumere l'atteggiamento tra il piagnucoloso e il revanscista che caratterizza gran parte della letteratura neomeridionalistica degli ultimi anni, da lui biasimata e liquidata con poche righe sibilline. Il professor Teti dimostra di essere un profondo conoscitore della materia, circostanza che gli consente di non indulgere nel pietismo; è proprio questa visione partecipe e al contempo distaccata ad offrire una difesa adeguata e a rendere giustizia al Meridione.
Si pensi al meraviglioso capitolo in cui viene affrontato uno dei più antichi pregiudizi, secondo cui i meridionali sarebbero “oziosi e lenti”. L'Autore dimostra che la verità è un'altra; la civiltà contadina era una realtà in perpetuo movimento, fatta di gente dinamica e operosa, che usciva di casa all'alba e tornava al crepuscolo, portando con sé soltanto un tozzo di pane nero, magari condito con grasso di maiale, ché l'olio era roba da ricchi. «Davvero era tutta una corsa quella che vivevano le figure di un universo errante», scrive Teti, riassumendo in modo esemplare il discorso. La stessa parola “terrone”, pur avendo un senso spregiativo, rivela un attaccamento industrioso ad una terra dura, amara, resa fertile dalle lacrime e dal sudore della fronte.
Oppure, si leggano le pagine dedicate al tentativo post-risorgimentale di costruire, accanto ad «un Sud criminale e maledetto», l'immagine opposta «di un Sud pittoresco da inserire in una cornice nazionale». Anche qui l'Autore calabrese oppone una visione critica, ricordando come l'idea del Mezzogiorno quale luogo magico, naturale e selvaggio, opposto al Nord industrializzato e razionale, abbia di fatto aperto la strada ad una “etnicizzazione del folclore”. Ciò ha fatto prevalere nell'immaginario collettivo gli elementi essenzialmente pittoreschi di un territorio in realtà molto più complesso, fatto di particolarismi culturali, storici e geografici, ricco di città, rovine, castelli, monumenti, arricchito da un rapporto sempre fecondo con il mare.
Il merito del professore calabrese sta nella capacità di rovesciare molti stereotipi, senza tuttavia diffondersi in elogi o retoriche celebrative, guardandosi bene dall'esaltare un presunto passato mitico o dal cavalcare la vulgata neoborbonica. Se dovessi individuare il maggiore pregio del libro, direi che è la lucidità dell'analisi; Teti scruta la materia con lo sguardo obiettivo dello scienziato, indaga le ragioni profonde di ogni stereotipo, evidenziando ciò che è veritiero e quanto è tendenzioso. Dove può, oppone le buone pratiche e gli esempi contrari, ma non nega mai i problemi reali. È per l'appunto il sapersi guardare dentro, di cui ragionava il poeta Franco Costabile. Un suggerimento prezioso e ancora attuale, che Vito Teti ha saputo cogliere perfettamente.

18 dicembre 2019

Il satanismo di maniera dei Black Widow

Ci sono opere sempre attuali, in ogni luogo ed epoca, e altre contingenti, strettamente legate al tempo in cui furono prodotte. Così è per l'arte, la letteratura, la musica, e più in generale per ogni creazione umana. E se possiamo certamente affermare che Revolver dei Beatles o Forever changes dei Love siano figli del loro tempo, ciò nonostante sarebbe sacrilego definirli "vecchi", o peggio ancora "sorpassati". Viceversa, un disco come Sacrifice (1970) degli albionici Black Widow, pur restando a detta di molti una pietra miliare, a mio avviso risente del tempo passato.
I Black Widow nacquero dalle ceneri dei Pesky Gee, gruppo blues-rock di discreto successo; cambiato nome, il sestetto inglese decise di scatenare un piccolo terremoto nella scena musicale dell'epoca, pubblicando Sacrifice. La sinistra copertina e i disegni interni richiamavano atmosfere luciferine, come pure i testi, densi di riferimenti all'esoterismo, all'occultismo e al satanismo. In un'epoca in cui il genere rock era ancora identificato con le divagazioni psichedeliche del beat, i Black Widow apparivano innovativi e scandalosi; se a ciò si aggiungono alcune leggende metropolitane, come i presunti sacrifici animali sul palco, il piatto è servito. Assieme a Coven e Black Sabbath furono i pionieri di un genere destinato a fare proseliti, anche se, a differenza delle due band citate, si muovevano principalmente nei terreni del progressive.
Sbaglia chi appoggia la puntina sul vinile aspettandosi qualcosa di duro: Sacrifice è un LP folk-rock dalle venature prog, in cui a farla da padrone sono i fiati di Clive Jones e l'organo di Zoot Taylor, mentre le chitarre suonate da Jim Gannon non sono mai invasive. La formazione era completata dalla precisa sezione ritmica di Clive Box alle percussioni e Bob Bond al basso, mentre a cantare ci pensava Kip Trever. Come ho già detto, il confronto inevitabile è con i Black Sabbath, che nello stesso anno pubblicavano il loro primo, maestoso e omonimo album; ed è proprio quest'ultimo a vincere su tutta la linea in un ipotetico confronto con Sacrifice. Si pensi ai solchi iniziali: mentre i Black Widow accolgono l'ascoltatore con un organo sinistro ma comunque legato alla vulgata beat, Ozzy & co. lo terrorizzano con gli scrosci di un temporale e il lugubre incedere di una campana a morto.
Sia pure con alcuni passaggi interessanti – su tutte, l'iniziale In ancient days –, il lato A scorre senza particolari sussulti. Quel che manca, a mio avviso, è la costruzione di un'atmosfera realmente gotica o nera. I Black Widow si affidano a testi persino più audaci ed espliciti di quelli dei Black Sabbath, eppure appaiono un po' incerti e manieristici. Si ascolti in proposito la celebre Come to the sabbat, in cui l'invocazione corale al demonio assume, per uno strano paradosso, un carattere del tutto innocuo, quasi parodistico.
Decisamente superiore il lato B, impreziosito dalla lunga title-track, una cavalcata progressiva di oltre sette minuti, che resta la parte più convincente del lavoro. Qui i Black Widow si cimentano in lunghe improvvisazioni strumentali, con i fiati e l'organo che si inseguono sul tappeto martellante delle percussioni, a dare l'idea di una messa nera.
Dopo ripetuti ascolti, sono giunto alla conclusione che Sacrifice è un disco innovativo nelle intenzioni, se non altro per le tematiche trattate, eppure ingenuo negli esiti. Fulminante la recensione contenuta nel volume Progressive dell'Atlante musicale Giunti, in cui si parla di «un suono che non ha retto il peso degli anni, privo forse di quelle sincere connotazioni dark tipiche di altri gruppi», caratterizzato da «un po' di occulto, accenti moderatamente ossessivi e satanismo quanto basta». Dispiace avere bistrattato un disco che molti considerano seminale per tutta la scena a seguire, ma ritengo che risenta particolarmente il peso degli anni. In conclusione: è un LP rivoluzionario per l'epoca in cui fu concepito, ma esagera chi lo eleva a capostipite di un genere.

7 dicembre 2019

"Quel che resta del giorno" di Kazuo Ishiguro: l'arte di servire con dignità

I concetti di “dovere” e “dignità” costituiscono il fulcro del celebre romanzo di Ishiguro, pubblicato nel 1989 e trasposto sul grande schermo nel 1993. Il primo rappresenta la strada maestra di ogni maggiordomo, l'unico imperativo da seguire. La seconda è invece la somma qualità che un maggiordomo che si rispetti deve possedere, secondo i dettami della massima autorità in materia, la Hayes Society.
Le due qualità sono impersonate da Stevens, l'impeccabile maggiordomo di Darlington Hall, una grande magione nell'Oxfordshire, tra le più antiche e rinomate d'Inghilterra. Stevens, figlio d'arte, ha trascorso tutta la vita al servizio del controverso Lord Darlington, attraversando specialmente gli anni Venti e Trenta del Novecento, quando la casa di quest'ultimo era uno dei centri ufficiosi della politica internazionale. Dopo la guerra, morto il vecchio padrone, Stevens viene di fatto “acquistato assieme alla casa” da un ricco americano, presso cui presta servizio cercando di far rivivere i fasti del passato, nonostante l'ovvio ridimensionamento dovuto ai tempi.
Il romanzo, pur avvalendosi frequentemente dell'analessi, è ambientato nel luglio del 1956, quando una proposta apparentemente banale stravolge la metodica esistenza di Stevens. Il nuovo datore di lavoro si assenta per un periodo e concede al maggiordomo una settimana di ferie, lasciandogli persino la sua automobile e invitandolo a trascorrere una piacevole vacanza. Stevens, poco propenso ad un viaggio di pura evasione, decide di approfittare dei giorni di libertà per rivedere miss Kenton, la vecchia governante di Darlington Hall, che aveva lasciato la casa vent'anni prima per sposarsi. Stevens si convince ad intraprendere il viaggio solo dopo averlo mascherato con ragioni professionali, nella speranza di far tornare a Darlington Hall l'antica governante.
Anche se può sembrare una considerazione ovvia, Quel che resta del giorno è il tipico esempio in cui il viaggio, inteso come spostamento fisico da un luogo all'altro, è solo la metafora di un itinerario ben più lungo e accidentato, quello dentro di sé. Durante la settimana di libertà, Stevens fa un bilancio della propria esistenza, spesa nell'adempimento del dovere, sacrificata per la realizzazione di due fini: la soddisfazione dei desideri del padrone e il raggiungimento della “dignità”. Si leggano in proposito le pagine in cui rievoca la morte del padre, quale supremo esempio di attaccamento ai propri doveri e tentativo di raggiungere la tanto celebrata dignità. Eppure, per quanto egli tenti di sacrificare ogni emozione sull'altare del senso del dovere, i sentimenti tornano prepotentemente a fargli visita in occasione del viaggio, che diventa un'occasione per ripensare alla propria vita. Si apre così una crepa, che porta a galla la verità: il dovere è stata una gabbia, Darlington Hall una dorata prigione, la dignità una chimera che si può sfiorare ma non afferrare. Viene allora in mente il celebre Jacob von Gunten dello svizzero Walser, in cui si narra di una scuola per perfetti servitori, l'Istituto Benjamenta. C'è però una differenza di fondo: mentre nel romanzo dello scrittore elvetico l'obiettivo che la scuola si propone è quello di ridimensionare i propri allievi, fino a renderli “zeri, rotondi come un palla”, nel racconto di Ishiguro il saper servire è invece una strada per l'elevazione e la sublimazione di sé.
Concludo con una breve notazione sullo stile. Il romanzo è scritto in prima persona, sotto forma di un lungo monologo che prende vita sull'onda dei ricordi; a parlare è Stevens e pertanto il linguaggio è professionale, chirurgico, di un'aristocratica asciuttezza. Consiglio vivamente la lettura di questo classico moderno, scritto da un autore di origini giapponesi, eppure inglese fin nel midollo per tematiche, stile e ambientazione.
«La dignità in un maggiordomo ha a che fare, fondamentalmente, con la capacità di non abbandonare il professionista nel quale si incarna. […] I grandi maggiordomi sono grandi proprio per la capacità che hanno di vivere all'interno del loro ruolo professionale e di viverci fino in fondo; sono individui che non si fanno sconvolgere da eventi esterni, per quanto sorprendenti, allarmanti o irritanti questi possano essere.» 

26 novembre 2019

Guardare senza essere visti: l'osservatorio privilegiato di Palazzo Bonaparte

Nel punto di intersezione tra Piazza Venezia e Via del Corso sorge un palazzo seicentesco rimasto chiuso per decenni, da poco riaperto alla collettività. È chiamato Palazzo Bonaparte, perché dal 1818 al 1836 vi dimorò Maria Letizia Ramolino, madre di Napoleone. Si narra che la nobildonna trascorse la prima parte del soggiorno romano tentando con ogni mezzo diplomatico la liberazione del figlio, in esilio a Sant'Elena, interpellando persino il Pontefice. Gli ultimi anni, invece, scivolarono via nel silenzio della preghiera e della rassegnazione, fino ad un definitivo allontanamento dalle cose del mondo, aggravato dalla rottura del femore che le impedì di lasciare la casa.
Accompagnata dal padre spirituale, o più di frequente da una dama di compagnia, amava trascorrere i lunghi pomeriggi romani in un balconcino coperto ad angolo, chiamato anche “bussolotto”. Qui poteva osservare il passaggio di Piazza Venezia e Via del Corso, ammirare con un unico colpo d'occhio la vita brulicante dei luoghi nevralgici della città, il tutto senza essere vista. Le imposte spioventi del caratteristico balconcino, infatti, celano chi si affaccia agli occhi dei passanti. È la sensazione del “guardare senza essere visti”, che donna Letizia e le sue dame di compagnia provavano nelle interminabili giornate di un esilio autoimposto.
Oggi un'intera ala di Palazzo Bonaparte è aperta ai visitatori, ed è un altro spazio espositivo che si aggiunge all'offerta culturale della città. Nove stanze complessivamente, corrispondenti all'appartamento della Ramolino, tutte riccamente decorate con stucchi, affreschi allegorici e meravigliosi caminetti. Non resta nulla degli arredi originari, a parte una copia in gesso della statua raffigurante Napoleone, commissionata dallo stesso Imperatore a Canova. Meravigliosi anche i pavimenti dell'epoca, protetti ma visibili grazie a pannelli di plexiglass. Il percorso si conclude nella stanza da letto della Ramolino, passando per il vestibolo d'ingresso, la splendida sala dei ricevimenti e il già menzionato “bussolotto”. Anche il visitatore moderno può così riposare un momento sui sedili in legno, magari proprio nel punto in cui la madre di Napoleone trascorreva le sue giornate romane, osservando la vita di centinaia di persone senza essere vista.
Tutte le foto sono state scattate da me; chiedo cortesemente, a chiunque volesse utilizzarle, di citare la fonte.
La copia in gesso della statua di Napoleone, opera di Canova
Il soffitto affrescato del salone dei ricevimenti
Il celebre balconcino ad angolo, o "bussolotto"
Particolari delle decorazioni del balconcino

Il Palazzo da solo vale una visita, ma un'occasione in più è data dagli eventi che periodicamente ospita. Attualmente – e fino al prossimo otto marzo – è in programma l’interessante mostra Impressionisti segreti, che espone cinquanta opere di importanti pittori impressionisti, “segrete” perché provenienti da collezioni private, normalmente celate al grande pubblico. Sono rappresentati i grandi autori francesi come Monet, Manet, Gauguin, Caillebotte, Renoir, Seurat, Laugé, nonché alcuni provenienti da altre nazioni, come l'italiano Zandomeneghi. La mostra è ben curata, gli spazi sono ampi e ogni opera è corredata da un'esaustiva didascalia esplicativa.
G. Caillebotte, Una strada a Napoli 
P.A. Renoir, Ritratto di Madame Josse
A. Laugè, Dinanzi alla finestra
C. Pissarro, Sulla sponda della Senna
G. Caillebotte, Un balcone, Boulevard Haussmann

12 novembre 2019

"Rituals": le radiazioni di una luce fredda

Nel pantheon ideale della new wave italiana, i Neon occupano un posto di rilievo. Appartenenti alla scena fiorentina come Litfiba, Diaframma e Moda, scelsero in controtendenza di esprimersi in lingua inglese, per dare respiro internazionale al proprio lavoro. A distanza di trentaquattro anni dal primo e unico LP, sono ancora attivi sulla scena indipendente; proprio l'anno scorso ho avuto la fortuna di vederli dal vivo a Roma, in forma smagliante.
Rituals venne pubblicato nell'autunno del 1985, dopo Siberia dei Diaframma (1984) e Desaparecido dei Litfiba, uscito a gennaio dello stesso anno. Le differenze tra i tre dischi sono di palmare evidenza. Siberia, pur riprendendo il suono d'oltremanica, lo mediava attraverso una vena "cantautoriale" e poetica tipicamente italica; Desaparecido guardava al Mediterraneo, all'Oriente, all'America Latina. Rituals è invece un LP che avrebbe ben potuto essere stampato in terra d'Albione, sia pure in ritardo rispetto a quanto avevano già fatto New Order, Bauhaus, Cure, OMD e Depeche Mode, anche se i più immediati punti di riferimento rimangono i tedeschi Faust e Kraftwerk.
Pur con gli ovvi limiti, dovuti principalmente ad una registrazione non eccelsa, Rituals resta un punto di riferimento per la darkwave nostrana, se non addirittura l'apice dell'intero movimento. La fanno da padroni tastiere e sintetizzatori suonati da Piero Balleggi e dal cantante Marcello Michelotti; le chitarre sono invece affidate a Ranieri Cerelli, mentre Roberto Federighi suona batteria e percussioni. I Neon dimostrano anche alla lunga distanza le caratteristiche che li avevano resi celebri nel circuito underground: toni cupi, ritmiche ossessive, sonorità che strizzano l'occhio al synthpop più raffinato. Il risultato è chiaramente figlio dei tempi, ma resta godibile anche a distanza di trent'anni, soprattutto per la scelta meditata di mantenersi fuori dal commerciale, senza tuttavia abbracciare gli eccessi criptici del genere industriale, che pure aveva seguito e degni interpreti in Italia.
L'iniziale Runnin' è uno dei brani più celebri dei Neon, molto efficace dal vivo: un drumming martellante che sostiene il preciso incedere delle chitarre elettriche, su cui si staglia la profonda voce di Michelotti. Last chance è un altro gran pezzo, che ricorda i migliori New Order di Power, corruption & lies di un paio d'anni prima. La successiva Isolation all'epoca venne promossa anche con un video, disponibile ancora su YouTube. Predominano i sintetizzatori e gli effetti, ma stupisce la sezione ritmica, precisa e ossessiva, che fa molto Joy Division. Michelotti esalta le sue doti vocali con un testo che non avrebbe sfigurato nel repertorio di Ian Curtis: «Every night I'd like to kill my fantasy, / everytime I fight but cannot win. / Maybe I felt your sound in ancient memories, / what I need is out of reality. […] For my crime of passion I've got no safety, / no one will relieve my agony. / Turn, turn off the light, / your ecstasy does make me stay».
Il lato B si apre con il punto più alto del disco, a mio modesto avviso: la maestosa Dark age, con un titolo che è già una dichiarazione d'intenti. È un delizioso gioiello synthpop, in cui tutto si mantiene magicamente in equilibrio: la voce distorta dagli effetti, la batteria precisa e incalzante, la chitarra che disegna la melodia principale, il sottofondo quasi progressivo delle tastiere. Potrebbero averla scritta benissimo gli Ultravox o i Kraftwerk, tanto alto è il livello raggiunto. L'eclettismo e le capacità del gruppo sono poi dimostrate dalla cover di Burning of the midnight lamp, rilettura in chiave wave di un classico hendrixiano. Le tracce sono otto, per quaranta minuti abbondanti di una musica fredda, che illumina la notte dell'anima ma non riscalda, proprio come un neon.
Nel 2010 la Spittle Records ne ha curato una splendida ristampa in vinile, che riprende la grafica originaria; io l'ho trovata ad un prezzo davvero conveniente, 12 euro. Unica pecca la mancanza dei testi, che è comunque possibile scaricare dal sito ufficiale della band.
La copertina dell'album 
La band, foto della busta interna del vinile

31 ottobre 2019

La Storia passa per Vienna: il nuovo albo di Martin Mystère

Nel numero di agosto/settembre, nello spazio dedicato alle anticipazioni, Alfredo Castelli aveva risposto con la consueta ironia agli uccelli del malaugurio che da anni puntualmente annunciano – o forse addirittura auspicano – la chiusura della serie. Il creatore di Martin Mystère ha rivelato che senza dubbio la serie chiuderà, ma solo perché, come tutte le creazioni umane, ha avuto un inizio e avrà una fine. Nessuna chiusura imminente, dunque, a beneficio degli appassionati. Soprattutto, si spera che le parole di Castelli mettano a tacere una volta per tutte le malelingue.
Il numero 365 (ottobre/novembre 2019) attualmente in edicola, intitolato La grande epidemia, è in qualche misura il segno della vitalità della testata, sebbene sia fisiologico un calo di ispirazione dopo trentasette anni di presenza costante nelle edicole italiane. Ho parlato di vitalità del personaggio perché Martin sembra vivere una seconda giovinezza: è atletico, poco propenso a dilungarsi in lunghi monologhi, pronto invece a fare a botte e persino a calarsi da un condotto di aerazione grazie ad una tecnica appresa ad Agarthi. Al tempo stesso, però, si ravvisa un calo d'ispirazione per l'utilizzo di alcuni espedienti narrativi ormai abusati, un ritornello sentito troppe volte. Parlo dell'irruzione dell'ennesima setta segreta non meglio identificata, oppure dell'esplosione finale che risolve tutti i problemi, soluzione forse catartica ma fin troppo sbrigativa. Al di là dei limiti, se si legge l'albo senza preoccuparsi della continuity pretesa dagli appassionati di lungo corso, si riscontrano almeno tre punti di forza. Il primo è nei disegni di Romanini, che si mantiene fedele al personaggio e al contempo ci regala una molteplicità di figure di sfondo e contorno, ivi compresa una manciata di belle ragazze. Mi è poi piaciuta la maggiore propensione all'azione rispetto ad alcuni albi del recente passato, in cui predominavano i toni eruditi e gli immancabili “spiegoni”. La grande epidemia è invece un'avventura incentrata sul presente, che possiede il serrato andamento di una storia di spionaggio e sorprende con diversi colpi di scena. Inoltre, viene affrontato un tema quanto mai attuale, ossia il cambiamento climatico e le strategie da attuare al più presto per salvare il pianeta.
La vicenda, sceneggiata da Belli con i disegni di Romanini, è interamente ambientata a Vienna, dove il Buon Vecchio Zio Marty è invitato a presentare l'edizione austriaca in versione economica dei suoi libri. Nella città asburgica, tanto per cambiare, si sta verificando un evento senza precedenti, una vera e propria epidemia di suicidi che colpisce inspiegabilmente persone che non hanno una ragione per togliersi la vita. Partendo da questa “grande epidemia”, la storia prende una piega imprevista, che porterà il Detective dell'impossibile a venire a contatto con un oggetto antichissimo dalle proprietà esoteriche, che i cattivi di turno vogliono utilizzare per indirizzare le sorti del mondo e conformare l'umanità sotto un pensiero unico monolitico.
È un'avventura vissuta quasi interamente in solitaria, mancando i soliti comprimari; Martin ha così modo di esaltare le proprie doti, su tutte l'intuito, l'altruismo e la totale libertà di pensiero. Il nostro eroe viene messo di fronte ad un quesito: è giusto barattare la libertà per la salvezza? O meglio, è giusto salvare l'umanità e la Terra pagando il prezzo di un pensiero unico, della sottomissione e dell'annullamento di ogni individualità? Martin non ha dubbi e risponde di no, perché per lui la libertà viene prima di ogni cosa e la salvezza dell'umanità non può essere imposta, ma deve essere il risultato di scelte ponderate e condivise. Il punto più interessante dell'albo è proprio questo: i cattivi sono paradossalmente quelli che vorrebbero salvare il pianeta, sia pure attraverso un progetto aberrante. Martin Mystère, invece, si oppone al loro piano, perché sa vedere le cose da un profilo morale più elevato.
Sperando di non aver svelato troppo della trama, consiglio la lettura di questo numero 365, che peraltro ci rinfresca la memoria su uno degli eventi decisivi della storia europea e della nostra cultura, ossia l'assedio di Vienna del 1638 da parte degli Ottomani. Unico neo, come già detto, il finale troppo frettoloso. Spero che in futuro vengano adottate soluzione diverse, per garantire ancora longevità e successo alla serie.
Martin Mystère n. 365 - La grande epidemia - Ott/Nov 2019

18 ottobre 2019

"Secondhand Daylight", l'anello di congiunzione tra punk e new wave

A differenza di altri gruppi guidati da un leader carismatico, quando si parla dei Magazine ne viene esaltato il lavoro di squadra. In effetti il cantato insinuante e velenoso di Howard Devoto non sortirebbe il medesimo effetto straniante sull'ascoltatore senza le bordate della chitarra elettrica di John McGeoch e gli ipnotici tappeti su cui viaggiano le tastiere di Dave Formula. La formazione, completata da Barry Adamson al basso e da John Doyle alla batteria, nacque nel 1977, quando Devoto, lasciati i Buzzcocks e il loro primordiale pop-punk, decise di virare verso un suono più complesso, fondando un gruppo pronto a sperimentare idee innovative.
Secondhand Daylight (1979) è il secondo LP dei Magazine; ad ascoltarlo sembra proprio che il punk sia morto e sepolto da un pezzo, sebbene fossero passati quattro anni o poco più dalla sua esplosione. Il suono dei Magazine è ruvido ma elaborato, con canzoni dilatate oltre i quattro minuti, fino a giungere ai sette di Back to nature. C'è chi parla di post-punk, chi li celebra come i veri pionieri della new wave, chi li colloca nell'art-punk per l'attitudine sperimentale, quasi d'avanguardia. Tutti hanno ragione, in un modo o nell'altro; volendo, si può riassumere il discorso affermando che la band di Manchester ha socchiuso, neppure tanto timidamente, una porta che altri e più energicamente avrebbero spalancato. L'album vive principalmente degli intrecci di chitarre e tastiere dei due virtuosi Formula e McGeoch, quest'ultimo definito da molte riviste specializzate come il chitarrista tecnicamente più dotato della stagione punk.
Il trittico iniziale è maestoso. Si apre con la sontuosa Feed the enemy, che cala l'ascoltatore nelle visioni conturbanti della mente di Howard Devoto, con gli esemplari versi «it's always raining over the border / there's been a plane crash out there in the wheatfields; / they're picking up the pieces, / we could go and look and stare». La successiva Rhytm of cruelty è l'esempio della naturale evoluzione del rock dei tardi Settanta, l'emblema del post-punk; non a caso le musiche sono scritte da McGeoch e Adamson. Con Cut-out shapes si ritorna ad atmosfere cupe e visionarie, scandite da un ritmo più compassato. Chiudono la facciata la trascurabile Talk to the body e l'energica I wanted your heart  
Il lato B si apre con The thin air, uno strumentale per sole tastiere, impreziosito nel finale dal sassofono suonato da McGeoch. Il brano funge essenzialmente da apripista a Back to nature, la traccia più matura e complessa del disco. Sono sette minuti di fuga sperimentale e continui cambi di ritmo, in cui Devoto – pur non essendo particolarmente dotato dal punto di vista vocale – dà il meglio di sé, alternando sussurri e improvvisi slanci acuti. Ancora una volta, però, sono McGeoch e Formula il vero motore della band. Il disco si conclude con la dimenticabile Believe that I understand e il funebre incedere di Permafrost, una delle composizioni più celebri di Devoto, che ci regala una perla sadica come «as the day stops dead / at the place where we're lost / I will drug and fuck you / on the permafrost».
Cristallino il talento, eppure i Magazine non sono tra i gruppi del periodo che vengono ricordati spesso, sebbene godano di un certo credito tra gli appassionati; basti pensare che Secondhand Daylight raggiunse al massimo la posizione n. 38 tra i dischi più venduti nel Regno Unito nel 1979. La ragione risiede probabilmente in quello che è anche il suo punto di forza: essere l'anello di congiunzione tra un recente passato già ammuffito (il punk) e un futuro incerto, ancora tutto da scrivere (la new wave).

6 ottobre 2019

"Un'anima persa" di Giovanni Arpino: ogni uomo ha il suo Doppio

Il romanzo, tra i più celebri di Arpino, è un meccanismo narrativo perfetto, che avvince il lettore dal misterioso inizio al sorprendente finale. Come correttamente rilevato da molti critici, Un'anima persa è debitore della grande tradizione del romanzo nero ottocentesco, da cui Arpino ha attinto a piene mani per le atmosfere e la tensione inespressa e indecifrabile che ne attraversa le pagine. Anche la tematica principale, quella del "doppio", è di matrice prettamente ottocentesca, con Stevenson e Dostoevskij a fare da apripista.
Tino, il giovane protagonista, è un orfano appena uscito dal collegio, in procinto di affrontare gli esami di maturità a Torino, dove viene ospitato dagli zii. La casa, circondata da un pallido giardino, si trova in una zona lontana dal centro cittadino e tuttavia non propriamente isolata, un po' avamposto della campagna e un po' propaggine estrema della metropoli. È un edificio a due piani, labirintico e vasto, pieno di anditi, sgabuzzini oscuri e lunghi corridoi costellati di porte chiuse. Di notte la casa si risveglia, attraversata com'è da spifferi vocianti e sinistri scricchiolii. Gli abitanti sono quattro, ma solo tre si palesano apertamente: la zia Galla, la serva Annetta e lo zio, l'altero Serafino Calandra, detto l'Ingegnere. Il quarto inquilino è il Professore, fratello gemello dell'Ingegnere, che vive recluso in una stanzetta al secondo piano. È affetto da una non meglio precisata malattia mentale, che gli impedisce di avere contatti con gli altri; solo l'Ingegnere è ammesso al cospetto del Professore pazzo, che viene servito e riverito con encomiabile devozione. Ed è proprio la follia ad aleggiare su tutti i personaggi, fino al convulso finale che non intendo rivelare.
Dietro gli scenari da romanzo nero, si cela il tema più profondo toccato da Arpino: l'ambivalenza dell'essere umano, diviso tra l'immagine apparente di sé, ovvero quella socialmente imposta e accettata, e la sua essenza più profonda, occultata perché pericolosa o comunque non approvata dagli altri. È la figura del “doppio”, quale manifestazione irriflessiva dell'io più profondo, da nascondere sotto rassicuranti sembianze. Tutti i personaggi celano qualcosa, non solo il folle Professore; soprattutto, tutti sembrano provenire da un circo degli orrori, più simili a caricature che ad esseri umani. Anche Torino subisce lo stesso processo di trasfigurazione: livida e deserta, si illumina soltanto nelle notti viziose, mentre di giorno persino la sua proverbiale operosità è in letargo.
Conclusa la lettura, il pensiero va immediatamente alla vasta categoria del romanzo di formazione, cui certamente Un'anima persa appartiene, anche se in un'accezione particolare. La vicenda di cui Tino è testimone, sebbene duri appena cinque giorni, trasforma il ragazzo, cambiandone per sempre la percezione del mondo. Abituato alla vita anestetizzata del collegio, viene catapultato in una dimensione estranea e incomprensibile, che rimarrà tale nonostante gli strenui tentativi di comprenderla o di trarne un insegnamento. L'ultima pagina è esemplare in tal senso: Tino è steso nel suo letto, incapace di prendere sonno, avvinto da una strisciante paura che è ormai diventata il suo ambiente naturale. Vorrebbe parlare con qualcuno di quanto ha visto e sentito, ma è consapevole che dovrà tenere tutto dentro di sé. L'ambigua vicenda dell'ingegner Calandra è «l'unica storia che il mondo degli adulti ha saputo dargli come ammaestramento», per quanto sia oscura, torbida e inestricabile. Per questa ragione ho parlato di un romanzo di formazione sui generis, in quanto l'unico possibile sviluppo è l'approdo ad uno stadio ulteriore di confusione.
A distanza di oltre cinquant'anni dalla sua pubblicazione (1966), Un'anima persa resta un romanzo potente e attuale, una storia senza tempo che lancia un drammatico interrogativo.
«Possiamo noi oggi attribuire soltanto a pazzia una così lucida e antica decisione di esistere in altro modo, di sopravvivere al di là di se stesso e dell'unica immagine che gli altri concedono ad un uomo?»

25 settembre 2019

"Inveni portum", il blog cambia nome!

Quando ho aperto il blog, nel gennaio 2011, pensavo ad uno spazio virtuale in cui promuovere la mia attività letteraria, avendo da poco pubblicato Percezione dell'inverno. Per questa ragione l'avevo chiamato semplicemente “Alfonso Cernelli blog”. Col tempo le cose sono cambiate e il blog ha assunto un'altra fisionomia, diventando un contenitore di recensioni, interviste e articoli: “Letteratura, Musica, Scrittura, Cinema, Arte & altri argomenti”, come recita la descrizione.
Pertanto, ho deciso di dargli un vero nome. Dopo molte indecisioni la scelta è caduta su “Inveni portum”, ossia “ho trovato l'approdo”. Si tratta dell'incipit della celebre locuzione latina «Inveni portum. Spes et fortuna valete! Sat me lusistis; ludite nunc alios!». È l'affermazione di chi, dopo tante peregrinazioni fisiche ed emotive, ha finalmente trovato l'agognato porto in cui approdare, e può dunque dire addio al Fato e alla Speranza, che tanto l'hanno ingannato e crucciato negli anni.
La locuzione ha incontrato grande successo nel corso dei secoli e può essere interpretata variamente. In tutte le varianti ermeneutiche, però, “inveni portum” significa aver raggiunto uno stato di equilibrio, nella felicità o nella perenne malinconia; potremmo affermare che sottintenda l'aver trovato qualcosa che si cercava da tempo. E poiché il blog spesso tratta temi lontani dalle mode letterarie e musicali del momento, proponendo itinerari per un pensiero non allineato, la mia speranza è che anche il lettore possa ritrovare tra queste pagine virtuali un sicuro e desiderato approdo.
Gli emigranti, di Angiolo Tommasi (1858-1923), celebre dipinto di "vita portuale" 

14 settembre 2019

"Filippo Patella e i cento preti ribelli del Cilento" di Clodomiro Tarsia: una pagina poco nota del Risorgimento

Filippo Patella e i cento preti ribelli del Cilento, di Clodomiro Tarsia, è un libro destinato principalmente a due categorie di lettori: i tuttologi del Risorgimento e gli appassionati di storia cilentana. Solo questi, e in particolare la seconda categoria, possono avere lo spirito giusto per addentrarsi nella miriade di vicende e cronache raccontate con dovizia di particolari dal bravo giornalista, già nella redazione del Mattino.
La pubblicazione, datata 2011, è stata curata dal Centro di Promozione Culturale del Cilento, in occasione dei festeggiamenti organizzati dal Comune di Agropoli per i 150 anni dall'Unità d'Italia. Di Agropoli era Filippo Patella, a cui il libro è intitolato; già presbitero, smise l'abito talare e fu uno dei Mille partiti da Quarto alla volta della Sicilia con Garibaldi. L'autore tratteggia gli eventi principali della vita dell'illustre agropolese, dal seminario di Novi all'impegno politico, fino agli ultimi giorni. Eppure la parte più interessante del saggio è un'altra, come si evince dal titolo. Il libro infatti racconta le sconosciute vicende dei “cento preti ribelli del Cilento”, ovvero i frati e i sacerdoti che si opposero alla monarchia borbonica dalla Repubblica Napoletana al 1861, passando per i moti cilentani degli anni 1820-21 e 1848.
Due sono gli aspetti che mi hanno colpito leggendo il breve saggio. Il primo è certamente l'aver scoperto l'esistenza di un clero liberale, ostile ai Borbone, con la parola, l'esempio e finanche l'estremo sacrificio. La storiografia tradizionale ci ha sempre descritto un clero reazionario e retrivo, filoborbonico perché legato ad antichi privilegi negati dai Savoia. Tarsia ha avuto il merito di aprire uno scrigno segreto, da cui emergono nomi e storie di preti combattivi, repubblicani e mazziniani o anche semplici amanti della libertà, che hanno partecipato con i sermoni e le armi alle rivolte che infiammarono il Cilento negli anni precedenti l'Unità, pagando anche con i ferri e la morte.
Il secondo pregio dell'opera sta nella capacità dell'autore di ricostruire con pochi cenni il clima socio-politico dell'epoca, così fecondo persino nel periferico Cilento, definito con sprezzo “la terra dei tristi”. Leggendo il saggio scopriamo un territorio ricco di fermenti emotivi e politici, popolato di sette segrete, pieno di cospiratori. Un popolo ribelle a cui mancò solo un leader carismatico, come precisa Tarsia con una felice intuizione.
Un plauso infine allo stile, che è asciutto e sobrio, come si conviene ad un libro di storia. Tarsia ha scritto un'opera sul Risorgimento che non è imbevuta di sterile retorica risorgimentale; anzi, descrive le vicende con il giusto distacco del cronista. Pur emergendo tra le pagine una certa simpatia verso Patella e gli altri preti ribelli, Tarsia non cade nella facile equazione “Borbone = Male assoluto”, peraltro smentita dalla storiografia più recente, non solo di stampo revisionista.
È dunque un saggio interessante, anche se di nicchia, peraltro corredato da un valido apparato fotografico.

30 agosto 2019

San Severino di Centola, l'antico borgo cancellato dal progresso

Il Cilento è caratterizzato da villaggi e casali sparpagliati su un territorio vasto, scarsamente popolato e in gran parte selvaggio. Molti piccoli centri sono stati abbandonati, diventando meta di curiosi e appassionati di rovine; i più celebri sono Roscigno, Sacco Vecchia, San Giovanni a Tresino e San Severino di Centola. Alcuni sono stati lasciati dagli abitanti per cause naturali, come frane, inondazioni, alluvioni o terremoti; altri, invece, hanno subito eventi umani, quali guerre, invasioni o decisioni d'imperio delle autorità. San Severino di Centola costituisce invece un unicum, in quanto a segnarne la fine fu l'avanzare del progresso. Quando a fine Ottocento fu costruita la ferrovia a valle, gli abitanti del borgo sulla rupe cominciarono ad abbandonare le antiche case a picco sulla gola scavata dal fiume Mingardo, insediandosi lungo la strada ferrata. Il progressivo abbandono si concluse nel 1977, ponendo fine ad una storia iniziata nel X secolo.
Passeggiare tra le rovine di San Severino significa immergersi in una dimensione contadina che non esiste più, fatta di casupole in cui famiglie numerose condividevano il tetto con gli animali, dove gli unici luoghi di aggregazione erano la chiesa e la taverna. Tre sono gli edifici di rilievo che è ancora possibile ammirare, anche se ridotti a ruderi: il castello, il palazzo  baronale (con un magnifico portale in pietra locale) e la chiesa di Santa Maria degli Angeli. Il resto è un dedalo di strette viuzze, così erte da affrontare a dorso di mulo, su cui si affacciano le abitazioni. Molte sono pericolanti, altre hanno come soffitto il cielo, qualcuna resiste silente all'avanzare degli anni. L'unico edificio ristrutturato è una cappella, dove tuttora vengono celebrate le funzioni religiose.
A differenza di altri luoghi del genere, San Severino è facilmente raggiungibile, sia con il treno che con l'automobile. Il paese è servito dalla stazione "Centola-Palinuro" della linea Tirrenica Meridionale, posta a valle dell'antico abitato, a circa dieci minuti di cammino. In automobile, per chi proviene da Salerno, bisogna percorrere la Strada statale 18 e uscire a Poderia. L'automobile può essere lasciata in sosta in un piccolo parcheggio all'ingresso del paese.
Fotografie a cura di Sara Nigro, che ringrazio per il prezioso contributo.
Una via del borgo; sulla destra, ruderi del Palazzo baronale
La parte alta del borgo
La cappella, unico edificio ristrutturato
 La piazzetta con la cappella ristrutturata
 Particolare di un'abitazione
 Ruderi della Chiesa di Santa Maria degli Angeli
 Le vie del paese
 La gola scavata dal Mingardo
 Veduta del borgo
 La parte bassa del borgo, con la S.S. 18 in lontananza
I ruderi della Chiesa di Santa Maria degli Angeli

20 agosto 2019

"Il custode" di Carmelo Samonà: le meditazioni di un recluso

Un uomo senza nome è rinchiuso in una stanza anonima, immersa in una fioca penombra. Poche suppellettili, un letto, una sedia impagliata, un'unica finestra che dà su un muro di lunghezza e profondità indefinite. Non sa perché si trova lì, né da quanto tempo; il suo passato non ci viene mai rivelato, se non attraverso fugaci schegge vaganti di ricordi minimi. È in prigione, per quanto all'apparenza non stia scontando una pena. Sarebbe meglio dire che è privato della libertà personale, impossibilitato a muoversi e andare via. Silenti custodi si avvicendano a guardia della cella; non parlano, né interagiscono con lui, se non con indefiniti segnali delle mani. Taciturni e severi, si limitano a portargli da mangiare tre volte al dì, senza mostrare il volto o palesarsi apertamente. Nella forzosa inazione cui è costretto, il protagonista ha un unico obiettivo: stabilire un contatto con i carcerieri.
«Nella situazione in cui mi trovo, la mia stessa sopravvivenza non avrebbe senso se non cercassi di raggiungere come posso, con ogni mezzo di cui dispongo, gli uomini che esercitano su di me una vigilanza così spietata rimanendo nascosti. […] Se il loro intento è di privarmi, tacendo, del senso del tempo e di una qualsiasi idea di futuro, il mio è di scalfire quella cortina, di lavorarla con pazienza, ora per ora, giorno per giorno, fino ad aprire una breccia da cui filtrino indizi meno vaghi sulle mie intenzioni.»
Il custode, di Carmelo Samonà (1926-1990), è stato pubblicato originariamente nel 1983. Il suo autore, nato a Palermo ma trapiantato a Roma, era professore di Letteratura spagnola all'Università della Sapienza, approdato tardivamente alla letteratura, a più di cinquant'anni. Si tratta dunque di un'opera della maturità, come dimostrano lo stile aulico e le complesse tematiche filosofiche ed esistenziali.
Ad una lettura superficiale, e semplificando all'osso il discorso, potrebbe dirsi che non succede niente, che nessun fatto rilevante arricchisce le pagine. Il protagonista è chiuso in uno spazio angusto e riempie le monotone giornate diffondendosi in un complicato monologo. Nulla di più, nessuna variazione sul tema. Eppure, a guardare bene, le sue giornate sono ricche di eventi. In primis ci sono i sussulti interiori, veri e propri terremoti che quotidianamente ne mutano la percezione di sé e del mondo. Poi ci sono gli eventi esterni, tutte le circostanze minime che i carcerieri, ed in particolare uno di loro, introducono nella cella. Un'esitazione della mano, un bisbiglio lontano, un bracciale al polso, una sciarpa azzurra che fa capolino tra i battenti, una pressione più forte del dito sul vassoio; sono inezie a cui nella vita reale non si fa neppure caso. Per il protagonista, invece, sono le chiavi che ha a disposizione per comprendere le ragioni del suo isolamento coatto dalla società, gli strumenti per elaborare una soluzione o addirittura un piano di fuga.
Il romanzo è così attraversato da una sottile inquietudine, perché, di pari passo con il protagonista, anche il lettore compie un continuo sforzo per decifrare l'enigma. Alla fine il custode si rivelerà al recluso, sbrogliando finalmente la matassa. A questo punto però il libro si interrompe, lasciandoci con l'amaro in bocca. Il compito di trovare l'esatta chiave di lettura diventa allora un nostro dovere. Chi è il detenuto e perché si trova lì? Chi sono i carcerieri e perché si ostinano a non rivelarsi? Una prima ipotesi è che Il custode sia una riflessione sulla pena detentiva, sulla sua incapacità di costituire un effettivo contraltare al delitto. Eppure nel libro non si parla mai di processi, né esplicitamente di carcere. E se il recluso si trovasse invece in un manicomio? Anche questa ipotesi pare smentita dalla profonda lucidità della sua analisi, che arriva persino ad afferrare, per poi escluderla decisamente, la tesi della malattia mentale. Forse Samonà ha voluto utilizzare una metafora per descrivere l'uomo contemporaneo, essere sociale che cerca disperatamente un contatto con i propri simili, sebbene non possegga più il linguaggio per conferire distintamente con loro. Se davvero è così, il libro appare rivelatore di una delle malattie del nostro tempo, l'epoca dei social che paradossalmente annullano il vero contatto umano. Quale che sia la risposta, Il custode resta un romanzo breve ma corposo, talmente denso di possibili significati da apparire ostico e impegnativo anche per lettori di lungo corso.

9 agosto 2019

"Power, corruption & lies": i New Order in orbita

É storia risaputa che il nome "New Order" fu scelto a tavolino ben prima della morte di Ian Curtis, quando i quattro Joy Division giurarono eterna fedeltà alla formazione originaria. Il suicidio del cantante confermò l’intendimento, e già un anno dopo, nel 1981, uscì il primo album col nuovo marchio.
La scelta del nome chiarisce un punto decisivo: i New Order non sono i Joy Division senza Ian Curtis, come pure qualcuno continua malignamente a insinuare. Sono una realtà diversa e originale, anzi volutamente svincolata da quel che era stato; ogni paragone col passato, oltre ad essere fuorviante, non avrebbe senso. Se infatti il primo LP, Movement (1981), ancora manteneva legami con le atmosfere dark-wave dei JD, il successivo Power, corruption & lies segna la strada maestra, tracciando il solco che verrà percorso negli anni a seguire. Critica e appassionati si dividono su quale sia il capolavoro dei New Order, tra Movement, Power, corruption & lies (1983) e Low-life (1985). Se il primo appare troppo derivativo, mentre il terzo patisce una registrazione balorda, è forse proprio il secondo disco a meritare il posto più alto del podio.
In copertina una riproduzione del dipinto Un cesto di rose del pittore francese Fantin-Latour, idea del grafico Peter Saville, che mantiene il profilo minimale voluto dal gruppo: nessun libretto coi testi, niente foto, i titoli dei brani stampati solo sull'etichetta del vinile. Senza orpelli di sorta, la musica è al centro del progetto.
Apre le danze Age of consent, gioiello synth-pop che fa venire voglia di ballare. In primo piano le percussioni ossessive di Stephen Morris, preciso e robotico come una drum machine. La sezione ritmica si esalta grazie all'apporto del basso di Hooky, a costruire il tappeto sonoro su cui si innestano gli intrecci di chitarre e sintetizzatori. Echi spettrali di synth caratterizzano il morbido incedere della successiva We all stand. Il ritmo si alza nuovamente con The village, una perfetta gemma d'impronta dance arricchita da intermezzi vocali in cui Sumner non fa il Curtis, ma definisce le coordinate di un modo personale di cantare. Ancora le tastiere in primo piano in Your silent face, altro vertice del disco impreziosito dalle soffici linee del basso. La conclusione è affidata a Leave me alone, che inizia con i memorabili versi «On a thousand islands in the sea / I see a thousand people just like me, / a hundred unions in the snow, / I watch them walking, falling in a row». É un pezzo circolare e ipnotico, che, senza temere di cadere nella banalità più trita, può ben dirsi meraviglioso.
Forse più degli altri LP citati, Power corruption & lies è un disco compiuto e uniforme, sebbene caratterizzato da continui cambi di ritmo. Gli otto brani miscelano sapientemente atmosfere cupe con intermezzi danzerecci squisitamente eighties. Con questo lavoro i New Order prendono per mano l'ascoltatore e lo accompagnano in orbita, verso mondi lontani slegati dalle regole che conosciamo, in cui aleggia una tiepida malinconia, ma rimane sempre la speranza di risorgere. Sarà merito dei sintetizzatori, o forse dello spettro di Ian Curtis. Sarà merito di Morris, Sumner, Hook e Gillian, che hanno dimostrato di saperci fare nonostante molti scommettessero il contrario.
La copertina di Power, corruption & lies (1983)

28 luglio 2019

"Una vita" di Italo Svevo: la retorica della sconfitta

È cosa nota che i personaggi di Svevo siano diventati veri e propri archetipi letterari dell'uomo moderno, o meglio novecentesco. Alfonso Nitti, Emilio Brentani e soprattutto Zeno Cosini non sono semplici nomi, ma simboli di un'umanità neghittosa, miope e nevrotica, così lontana dalle figure di eroi che popolavano i romanzi dell'Ottocento. Una retorica della sconfitta, dunque, in antitesi ad una società destinata ad affermarsi come patria dei belli e vincenti.
All'epoca di Una vita (1892), Svevo era una figura marginale, per non dire sconosciuta, del panorama letterario nazionale. Già la collocazione geografica ne accentuava l'isolamento, nella Trieste crocevia di razze e culture, né del tutto italiana né propriamente asburgica, che pure diventerà un centro nevralgico della nostra letteratura. Soprattutto, contribuiva al suo isolamento il non appartenere ad alcuna delle correnti più in voga: il verismo da un lato e il decadentismo dall'altro. Logico fu allora percorrere una strada non ancora battuta in Italia, con la costruzione di caratteri dotati di una spiccata capacità introspettiva, votati alla sterile analisi più che all'azione, bloccati in un'amara contemplazione del vivere.
Alfonso Nitti è il primo e più tragico della trilogia, ma già contiene in nuce tutti i sintomi della “malattia” del più celebre Zeno della CoscienzaÈ un inetto, ed è storia risaputa che Un inetto era proprio il titolo che Svevo aveva in mente in origine, poi bocciato dall'editore. La grama esistenza di Alfonso ruota intorno a quattro centri: il paese natale, la Banca Maller & Co., casa Lanucci e il salotto di Annetta. Il paese, o meglio “il villaggio”, è un'oasi di pace in un mare di disperazione; è il luogo degli affetti, le braccia accoglienti in cui rifugiarsi quando la vita cittadina mostra i suoi affilati artigli. La Banca del signor Maller è dove il protagonista lavora, prima nell'ufficio della corrispondenza e poi nella contabilità. La Banca è un covo di vipere, avvelenata com'è da dissapori, pettegolezzi e piccolezze, dove ciascun impiegato cerca di adottare la migliore strategia per lavorare poco e ingraziarsi egualmente i capi. Alfonso non è coinvolto in tali beghe, perché per lui la carriera rappresenta un pericolo alla sua libertà, un veleno che rischia di intossicargli l'anima e la purezza del pensiero; il suo atteggiamento arrendevole lo porterà dunque ad essere un outsider. Casa Lanucci, in cui Alfonso è pensionante, è invece l'emblema di una piccola borghesia gretta e immiserita, intorpidita da irrealizzabili miraggi di ricchezza e scalata sociale. Ma il luogo che cambierà in tragedia le sorti del povero Alfonso è il salotto di Annetta Maller, figlia del fondatore della Banca, che verrà da lui sedotta e abbandonata, esponendolo così a una tremenda vendetta.
Di fronte ad una realtà così ostile, il protagonista trova conforto solo nel suo mondo interiore, popolato da pensatori e filosofi che gli si materializzano nelle lunghe ore trascorse nella biblioteca pubblica, in cui coltiva sogni di grandezza intellettuale. Ettore Bonora l'ha definito un “personaggio antiromanzesco”, perché Alfonso sogna ardentemente di vivere un'avventura eccezionale, ma, quando questa si palesa, egli fugge terrorizzato anziché affrontarla. La cesura tra Alfonso e gli altri, o meglio, tra la sua immaginazione e il mondo reale, è probabilmente il fulcro dell'opera, segnando al contempo lo scarto decisivo rispetto a tutta la letteratura precedente. Eppure il Nitti non è un “vinto”, perché pure gli manca quella strenua ma inutile resistenza contro gli eventi, a cui viceversa si abbandona senza gloria. Neppure è uno Jakob von Gunten, il personaggio di Walser, che addirittura frequentava una scuola per servitori per poter diventare uno «zero, rotondo come una palla». Alfonso ha infatti un'alta considerazione di sé e delle proprie doti intellettuali, eppure si sente un «incapace alla vita».
«Egli invece si sentiva incapace alla vita. Qualche cosa, che di spesso aveva inutilmente cercato di comprendere, gliela rendeva dolorosa, insopportabile. Non sapeva amare e non godere; nelle migliori circostanze aveva sofferto più che gli altri nelle più dolorose».
Storica edizione "I corvi" Dall'Oglio

15 luglio 2019

Dio ci salvi dalla finta poesia!

«Nessuno può conoscere il cielo se non per mezzo del cielo», scriveva il poeta latino Manilio nella sua opera più celebre, gli Astronomica. E lo faceva con la sicurezza di chi enuncia una verità indiscutibile, che non ammette eccezioni o mezze misure. Difficile contraddirlo. D'altronde, non è forse vero che si può capire appieno solo ciò che ci appartiene nella sua totalità? Marco Manilio andava oltre, toccando abilmente un concetto più ampio, e sostenendo che solo chi è parte del divino può comprendere il vero e profondo significato della divinità. Del saggio poeta latino non conosco altro, eppure questa citazione mi è rimasta impressa nella mente, da quando la adocchiai sfogliando una vecchia antologia del Paratore. Come spesso accade con le citazioni carpite al volo, l'ho interpretata a modo mio, dandole più o meno questo significato: per dire di conoscere davvero una realtà, occorre padroneggiarla nei dettagli, saperla scandagliare nelle intime connessioni. Il cielo e la divinità, ci avverte Manilio, sono entità talmente vaste per la nostra piccola mente, che soltanto chi è fatto della medesima sostanza può appropriarsene.
Le sue parole mi sono tornate alla mente qualche anno fa, quando ho avuto occasione di chiacchierare a lungo con Emiliano, un brillante poeta carrarese conosciuto ad un premio letterario. Anche lui fa parte della foltissima schiera di quanti scrivono poesie, ma a differenza di molti è un poeta vero. Devoto alla metrica e alle regole del verso, è riuscito in due ore di conversazione a cambiare definitivamente il mio punto di vista. Fino ad allora anche io mi illudevo di scrivere liriche, ma Emiliano mi spiegò chiaramente che può definirsi poeta solo chi conosce le regole della metrica. Egli sosteneva di aver iniziato a scrivere dopo anni ed anni di studio incessante, perché, parafrasando Manilio, non si può scrivere poesia se non per mezzo della metrica, che ne è l'essenza profonda. Da quando ho scoperto questa verità non ho più scritto in versi, consapevole che i miei componimenti, che pure mi piacevano e giudicavo discretamente musicali e simmetrici, non erano vera poesia, perché non possedevo le regole della metrica e dunque non aveva senso illudersi di infrangerle in nome del verso libero.
In troppi credono che sia sufficiente “andare a capo” per dirsi poeti. Basta sfogliare una qualsiasi delle centinaia di antologie – che furbe case editrici pubblicano elevandosi a portabandiera delle nuove voci poetiche – per rendersi conto che la maggior parte di quanti si dicono poeti, e hanno il coraggio di far pubblicare le proprie opere, si limitano a proporre imbarazzanti “prose in versi”, ovvero pensieri, per giunta poco originali, che della poesia hanno soltanto l'apparenza. Non c'è metrica, non c'è musicalità, nessuno studio sulle parole. Queste persone sembrano ignorare, volutamente o meno, che la lirica è opera di scortecciamento, dunque tanto più complicata della prosa. Poetare non è semplicemente tradurre in versi un pensiero che avrebbe potuto ben essere espresso in prosa, quanto piuttosto capacità di elaborare un concetto utilizzando un linguaggio diverso, scarnificato ed essenziale. Se non fosse così, non ci sarebbe alcuna differenza tra il linguaggio poetico e il linguaggio tecnico, tra un canto di Leopardi e la definizione di contratto di cui all'art. 1321 del codice civile.
Di fronte a queste considerazioni, molti innalzano barricate difensive in nome dell'avanguardia, dell'innovazione, della lotta al passatismo. Affermando di voler contrastare il trito pensiero accademico, si fanno alfieri del “verso libero”. Essi però confondono il verso libero con quello libertario, con lo sterile anarchismo della parola che non conduce a niente. Ecco dunque il senso della celebre affermazione di Benedetto Croce, secondo cui fino ai diciotto anni tutti scrivono poesie, mentre dopo lo fanno soltanto i poeti veri e i cretini.
Così argomentando, si arriva alla conclusione del discorso: si può rompere la regola solo se la si conosce, si può andare oltre la metrica solo se la si padroneggia veramente. Ritorna prepotente il discorso di Manilio, sia pure applicato ad un ambito ben differente da quello a cui pensava l’autore. La poesia «è vivere verticalmente ciò che gli altri di solito subiscono orizzontalmente», ha affermato Gian Piero Bona in una recente intervista. Il poetare è dunque una sublimazione dei sentimenti, la capacità di trasformare l'impulso emotivo animale verso fini più elevati, di imporre il proprio spirito sul mondo anziché subirlo passivamente. Se le cose stanno così, se davvero vogliamo attribuire un compito così alto alla parola, molti di quelli che si dicono poeti dovrebbero riporre la penna e ridursi a più miti consigli.