5 dicembre 2012

"Dissipatio H.G." di Guido Morselli: le conseguenze del paradosso

A causa di un fenomeno inspiegabile l’intera razza umana scompare, si dissolve nel nulla lasciando solo le tracce materiali del suo passaggio. Soltanto un uomo, che in quella misteriosa notte aveva rinviato all’ultimo momento i suoi propositi suicidi, sfugge alla dissipatio humani generis. Proprio lui, che aveva deciso di farla finita, è l’unico a rimanere in vita.
Questa la visionaria trama dell’ultimo romanzo di Morselli, scritto pochi mesi prima della morte del controverso autore (1973). Tutta l’opera vive di questo terribile paradosso, di questo rovesciamento di ruoli: colui che doveva morire sopravvive, quelli che avrebbero dovuto seppellirlo scompaiono nel nulla. Nemmeno si può dunque parlare di fine del mondo: gli esseri umani sono letteralmente volatilizzati, fuorché uno, le altre creature sono rimaste.
Il lungo monologo che compone l’opera descrive minuziosamente gli stati d’animo del protagonista, oscillanti tra cupa disperazione e momenti di sollievo. La situazione di superstite lo pone di fronte ad un indecifrabile interrogativo: se debba cioè definirsi l’escluso oppure il prescelto. E tale interrogativo è tanto più drammatico per lui, da sempre antropofobo e ritiratosi in un solitario rifugio di montagna proprio per sfuggire ai suoi simili.
La dissipatio humani generis è, per Morselli, prima di tutto una triplice liberazione. Venuto meno il fattore distruttivo (l’uomo), la natura e gli animali hanno modo di estendere nuovamente il loro incontestato dominio. Da questo punto di vista, il romanzo può sembrare vicino ad alcune tematiche ecologiste. In secondo luogo, la fine dell’uomo determina anche la scomparsa del tempo, inteso come strumento di regolazione e di controllo sociale. In un pianeta senza uomo, l’esistenza può fluire liberamente, senza condizionamenti e obblighi di sorta. Infine, la scomparsa dei bipedi determina il venir meno del diritto di proprietà, fonte di odi, guerre e disuguaglianze. Il protagonista del romanzo, quindi, in quanto solo, ha modo di sperimentare l’assoluta libertà: dal bisogno, dalla morale, dalle convenzioni sociali, dalla proprietà e dal tempo. Egli dispone di tutto, di un’infinità di tempo libero, di ogni cosa sia stata prodotta fino alla dissolvenza, ha modo di stabilirsi in qualunque luogo in qualunque momento. Anarchia e monarchia coincidono nella stessa persona allo stesso tempo. Proprio questa onnipotenza, però, genera in lui una profonda crisi. Il senso di liberazione cede il passo ad un’affannosa ricerca di altri eventuali superstiti, perché il protagonista comprende come la propria esistenza separata, il suo esilio volontario pre-catastrofe, avesse senso solo in rapporto agli altri. La mancanza di alcuna possibilità di confronto inclina le sue certezze, mina la sua stabilità mentale, gli ripresenta in continuazione la bruciante domanda sul senso della vita. Il fastidio che prima provava verso gli altri si trasforma in compassione, comprensione della miseria umana, quasi una lieve nostalgia.
L’ultima opera di Morselli è una lettura impegnativa, dalla scrittura articolata e spesso ostica, dai toni cupi e dalle visioni apocalittiche. Vale però la pena di leggerla, per capire per quali ragioni sia considerata da alcuni un classico della letteratura italiana del Novecento.

[ Questa mia recensione è apparsa anche su Sololibri.net ]

22 novembre 2012

L'insostenibile ansia della condivisione

L’altro giorno sull’autobus c’era una donna che, munita di una tavoletta elettronica di ultima generazione, scriveva i propri appuntamenti di vita e di lavoro. Il magico apparire dell’apparecchio del desiderio calamitava l’attenzione di molti dei presenti, che si mettevano tranquillamente a leggere gli appunti della signora. Anche io non sono riuscito a fare a meno di sbirciare, scoprendo così che la signora aveva per le ore 10 un appuntamento dal dentista e alle 17 avrebbe atteso l’idraulico a casa. Allora io mi sono chiesto se, qualora al posto dell’aggeggio elettronico da dieci pollici la signora avesse tirato fuori taccuino e penna, l’effetto sarebbe stato lo stesso. La domanda è retorica. Con una penna e un’agenda la privatezza della signora sarebbe stata tutelata, questo è certo, ma essa non avrebbe potuto condividere col mondo le proprie esperienze, cosa che faceva con parecchia disinvoltura, ben avvedendosi della presenza di estranei che sbirciavano i suoi affari.
Nel lontano 1973 Guido Morselli, anticipando con grande lucidità i mali (e la stupidità) del nostro tempo, scriveva: “non mi convince la tesi che ogni esprimere, anche il più privato, supponga un comunicare”. A distanza di quaranta anni, possiamo affermare con certezza che quelle parole hanno assunto una portata profetica. Il raccontare agli estranei le proprie faccende private, infatti, sembra essere oggi la forma più diffusa di comunicazione, se non quella esclusiva, almeno per molte persone. La massiccia diffusione dei telefoni portatili e dei c.d. “social network” ha ampliato la possibilità per tutti di comunicare, consentendo a chiunque, persino in strada o sull’autobus, di esprimere pensieri e raccontare vicende, che spesso non meriterebbero di essere condivisi, perché futili, discutibili, offensivi, banali. Il mezzo, certamente fenomenale, è stato così utilizzato male. L’ampliamento delle possibilità comunicative ha determinato una perdita di qualità del contenuto della comunicazione. Ho sentito persone parlare ad alta voce al telefonino dell’ultima di campionato di calcio, oppure litigare, o discutere animatamente, senza fare nulla per abbassare la voce o per non dare nell’occhio. Ci sono taluni che desiderano che gli altri ascoltino la loro conversazione, per far sapere quanti soldi hanno, quale lavoro svolgono, quale squadra tifano, dove andranno in vacanza. Un tempo le cabine telefoniche erano munite di porte e pareti, che salvaguardavano la segretezza della comunicazione e la voglia di non ascoltare dei passanti.
Oggi queste barriere sono scomparse: la condivisione, persino di vicende che dovrebbero essere confinate in ambiti di gelosa riservatezza, è divenuta la regola becera della modernità. Tutto deve essere lasciato in pasto alla rete, perché ognuno crede di essere innovativo, di avere pensieri o parole originali da diffondere. Senza pensare che, in molti casi, sarebbe meglio sussurrare, per un’istintiva forma di difesa.
 

Il "mi piace" di Facebook, simbolo dell'ansia della condivisione

16 novembre 2012

"L'oro di Napoli" di Giuseppe Marotta: l'anima di una città

Trentasei brevi racconti, trentasei "quadri di vita napoletana" compongono questa celebre opera, una delle più significative della letteratura novecentesca meridionale.
Attraverso una scrittura poetica e colma di rimpianti, l’autore ci restituisce in pagine vivide ed essenziali i colori, i profumi e le vicende della sua città. In particolare, però, a Marotta interessa il mondo dei vicoli, di quei budelli strettissimi e intersecati dove talvolta non arriva nemmeno a battere il sole, dove nei miseri "bassi" vive una comunità varia, dolente e operosa, dotata di vitalità e inventiva non comuni. Anche grazie ad una serie di accenni autobiografici che occupano la prima metà del libro, veniamo a conoscenza di personaggi di straordinaria varietà e profondità, ciascuno portatore di una personale filosofia di vita: lo iettatore, il ciabattino, il bottegaio, il mendicante, il nobile decaduto, lo sbeffeggiatore di professione, l’avvocaticchio, il sacerdote, lo scrivano e così via. Ad ognuno di questi caratteri Marotta dedica qualche pagina, per ciascuno ha parole evocative colme di affetto e malinconia. Egli descrive le loro vicende, ma in realtà fa un lavoro su se stesso, come uomo e scrittore: compie cioè un’indagine sociologica e culturale di quel mondo "dei bassi" da cui egli proviene e a cui si sente ancora legato, nonostante viva ormai lontano.
Marotta scrive nel 1947, ma parla di un’epoca ancora più lontana, i primi del Novecento, gli anni della sua fanciullezza e adolescenza. La Napoli descritta da Marotta, com’è naturale, non è quella dei nostri giorni, per cui si può affermare che lo scrittore partenopeo abbia rappresentato sulla carta quel mondo che Totò ed Eduardo su tutti hanno invece messo in scena, al cinema o a teatro. E non è quindi raro, leggendo questi racconti, che il lettore rimembri quelle scene che hanno fatto grande il nome e la fama degli attori che ho citato.
Opera che si inserisce nel solco del neorealismo, L’oro di Napoli non è altro che il tratto più tipico della popolazione di questa grande città, ovvero, come ci svela l’Autore, "la possibilità di rialzarsi dopo ogni caduta; una remota, ereditaria, intelligente, superiore pazienza".
Da questo libro è stato tratto un lungometraggio ad episodi diretto da Vittorio De Sica (1954).

[ Questa mia recensione è apparsa anche su Sololibri.net ]
Vecchia edizione Bompiani

8 maggio 2012

L'esercito di Franceschiello e la pubblicità della Tim

Guardo poco la televisione, men che meno la pubblicità. Quando posso, la evito, specie nella sua forma più invasiva, che si è sviluppata negli ultimi anni: gli spot a puntata, che pretendono di raccontare una storia ad episodi condita dal messaggio reclamistico. Negli ultimi mesi la TIM, vera pioniera di questi stupidari a puntate, ha pensato bene di inscenare una propria versione del Risorgimento, con un Garibaldi impersonato da Neri Marcoré che sarebbe pure simpatico, se la vicenda non avesse assunto gli aspetti offensivi che descriverò.
Nell’ultimo spot un Garibaldi munito di telefonino invita i soldati borbonici, nascosti nelle macchie e già muniti di bandiera bianca di resa d’ordinanza, ad arrendersi, perché se lo faranno (ed entreranno a far parte dell’Italia) avranno telefonate, messaggi e internet gratis. Ed ecco che questi spauriti pulcinella con la divisa dell’esercito duosiciliano escono fuori dal loro nascondiglio a braccia alzate e si arrendono, non per l’amor di patria, ma per l’amor di telefonata.
Credo che suddetto spot sia offensivo non solo per la memoria di quanti (e furono molti) hanno combattuto per la difesa della loro patria invasa, ma anche e soprattutto per tutti noi meridionali, che continuiamo a distanza di quasi due secoli ad essere descritti come conigli smidollati privi di ideali, pronti a vendersi per un tozzo di pane. Ma soprattutto, credo che questa pubblicità produca un altro danno collaterale gravissimo: alimenta la disinformazione sugli eventi del Risorgimento, perpetua l’idea dell’esercito di Franceschiello, mette in barzelletta vicende sanguinose (si pensi a Pontelandolfo e Casalduni) su cui occorrerebbe fare chiarezza anziché ironia. Questo provoca un danno non tanto nelle persone avvedute che conoscono la storia, ma anche e soprattutto nei giovani che spesso non utilizzano altri strumenti per informarsi al di là della televisione.
Consiglierei, non dico alla TIM che non ne avrebbe la sensibilità, ma a Neri Marcorè, persona che stimo tantissimo, di leggersi il classico di Carlo Alianello L’alfiere, di cui posto la mia recensione. Magari, lui che è un appassionato di libri, potrà proporlo in una delle sue trasmissioni televisive.
Un'immagine di Francesco II delle Due Sicilie (da Wikipedia)

2 aprile 2012

Diploma di Merito al "Premio letterario nazionale AlberoAndronico 2011"

Venerdì 30 marzo si è svolta nella Sala della Protomoteca in Campidoglio la serata conclusiva del "Premio AlberoAndronico 2011", con la premiazione degli autori vincitori delle varie categorie. Nell'occasione è stato anche conferito un Diploma agli autori che, pur non risultando vincitori, sono stati considerati meritevoli di un riconoscimento per il valore delle loro opere.
Nel ringraziare i giurati e gli organizzatori del Premio per aver selezionato il mio romanzo Percezione dell'inverno, allego il Diploma di Merito che mi è stato conferito.

4 marzo 2012

"Percezione dell'inverno" selezionato con un Diploma di Merito al "Premio letterario nazionale AlberoAndronico 2011"

Dopo la vittoria al "Premio Zingarelli 2010", il mio romanzo Percezione dell'inverno ottiene un altro significativo riconoscimento. Come mi è stato di recente comunicato, infatti, l'opera è stata selezionata tra quelle che riceveranno un Diploma di Merito in occasione della serata finale della V edizione del "Premio nazionale AlberoAndronico".
Il Premio, giunto alla sua quinta edizione, è diventato negli anni uno degli appuntamenti letterari più attesi della Capitale, come confermato dallo spazio dedicatogli dalle testate locali e nazionali e dalla prestigiosa location in cui avverrà la premiazione: la Sala della Protomoteca in Campidoglio.
Il fatto che il mio romanzo sia stato selezionato tra quelli che otterranno un riconoscimento è tanto più significativo se si considera che oltre 350 sono state le opere edite partecipanti (oltre 800 se si includono tutte le categorie del Premio).
Appuntamento il 30 marzo alle ore 16 nella Sala della Protomoteca del Campidoglio per la serata finale.

Ecco il link al sito del Premio
Il logo del Premio