21 novembre 2018

"Un uomo finito" di Giovanni Papini: autobiografia di un cervello che voleva raggiungere il Tutto

Il manuale di letteratura che adottava la mia professoressa alle superiori, il famoso Guglielmino – Grosser, era assai ostico per noi studenti, ma aveva il pregio di dedicare qualche pagina anche agli autori meno noti, che attiravano la mia attenzione più degli indigesti classici. Su Giovanni Papini (1881 – 1956) pochi cenni biobibliografici e un’informazione che a distanza di anni echeggia ancora nella memoria. Secondo il manuale, Un uomo finito (1912) in origine avrebbe dovuto intitolarsi Storia di un cervello, o qualcosa di simile. E in effetti il libro più celebre di Papini è proprio il racconto delle elucubrazioni di una mente non ordinaria, guidata da inesausti sogni di grandezza e destinata a lasciare una traccia profonda nella letteratura italiana. Un’autobiografia, dunque, ma non nel senso tradizionale del termine. Papini rievoca i primi trent’anni della sua esistenza senza soffermarsi tanto sulle vicende umane, quanto piuttosto sui moti inquieti di uno spirito grande che avrebbe voluto essere grandissimo.
In questa autobiografia precoce, Papini ripercorre l’infanzia passata tra i pochi libri di casa, l’adolescenza spesa nelle sale polverose delle biblioteche, la giovinezza ossessionata da una «smania di sapere» che finisce per guastargli gli occhi e prostrargli lo spirito. Grazie alla vivace intelligenza, da imberbe discepolo diventa un maestro riconosciuto e ricercato, egualmente stimato e odiato dalle accademie e dall'élite culturale del Paese. Sono gli anni delle polemiche incessanti attraverso i giornali, delle lettere e dei pamphlet velenosi, che culmineranno nella fondazione della rivista Leonardo, vero e proprio baluardo dei giovani intellettuali incendiari e polemici.
Un uomo finito non è solo un episodio isolato ma decisivo della letteratura italiana del Novecento, ma un vero e proprio “libro di culto”, secondo una definizione oggi molto in voga. All'epoca della sua pubblicazione ebbe grande successo soprattutto presso la gioventù ribelle, delusa dall'immobilismo dell'Italia liberale e umbertina. Erano giovani dai quindici ai trentacinque anni, desiderosi di cambiare il Paese, convinti che ci fosse una nuova razza da costruire. Nei fatti, gli stessi ragazzi che sarebbero stati travolti prima dal mito della guerra “sola igiene del mondo” e poi dal miraggio della rivoluzione fascista. Nelle pagine più fulgide, Papini ci presenta ribelli scapigliati, «poeti delicatissimi, pittori misteriosi e funerei, violinisti mezzi matti», filosofi imbevuti di misticismo e altri personaggi che traboccano di vitalità intellettuale. Papini non è però soddisfatto di essere un primus inter pares; egli vuole elevarsi al pari di un messia, e sarà proprio la smodata ambizione a condurlo alla rovina, a renderlo un uomo finito anzitempo.
La straordinaria modernità del romanzo è principalmente nello stile: la scrittura è roboante, convulsa, quasi violenta. Si pensi al fulminante esordio: «io non son mai stato bambino, non ho avuto fanciullezza». Da solo è già una lettera d’intenti, uno strale capace di rivoltare l’immagine di un’Italia sonnolenta da Libro Cuore. È altresì vero che in più punti la lettura è ostica, specialmente quando Papini si dilunga in complicate dissertazioni filosofiche, morali o religiose. Resta però il fatto che l’autore toscano non pecca certo di sincerità; anzi, si mette a nudo pagina dopo pagina, senza timore di essere giudicato dai suoi simili. D’altronde, se pure ha fallito, ciò non è accaduto perché non avesse i mezzi per arrivare in alto, ma perché troppo alte erano le ambizioni.
«E se dopo avermi ascoltato crederete lo stesso, a dispetto dei miei propositi, ch’io sia davvero un uomo finito, dovrete almen confessare ch’io son finito perché volli incominciar troppe cose e che non son più nulla perché volli esser tutto.»

Copertina di un'edizione Vallecchi del 1952

10 novembre 2018

"Confessioni di una maschera" di Yukio Mishima: la vita è un palcoscenico

La componente autobiografica è centrale in questo romanzo del 1949 di Yukio Mishima (1925-1970). Lo scrittore giapponese, nascondendosi dietro il protagonista Kochan, rievoca alcuni momenti cruciali della propria vita, dalla primissima infanzia all’età universitaria. Kochan proviene da una famiglia della media borghesia di Tokyo, legata ai valori tradizionali della cultura giapponese. Studiare, servire la patria e sposarsi sono gli imperativi categorici di un’esistenza tracciata sui binari del cieco conformismo e dell’obbedienza. In una siffatta società non è lecito opporsi manifestamente, né è dato ostentare la propria diversità; chi è ribelle o semplicemente “diverso” è costretto ad indossare una maschera, dietro cui nascondere la verace identità. Anche Kochan, a seguito della graduale e sofferta scoperta della propria omosessualità, è costretto a ricorrere allo stratagemma della finzione.
«La vita è un palcoscenico, dicono tutti. Ma non sembra che la gran maggioranza sia ossessionata da quest’idea, o perlomeno non sembra che lo sia in una fase precoce come successe a me. Addirittura alla fine dell’infanzia ero fermamente convinto che quella massima corrispondesse alla verità, e che io avrei dovuto recitare la mia parte sul palcoscenico senza mai tradire, neppure una volta, il mio autentico io.»

Tema centrale del romanzo è l’irrisolto conflitto, nell’animo del protagonista, tra il desiderio di esprimere il proprio io più profondo e la necessità di nasconderlo per rispetto delle convenzioni sociali. La maschera è al tempo stesso una protezione e una gabbia, che consente di essere accettati dagli altri al prezzo di soffocare le manifestazioni più autentiche dell’io. Il protagonista ne diviene presto consapevole, quando si rende conto che il proprio disinteresse verso le donne viene scambiato per la noia del consumato seduttore, mentre nessuno sembra accorgersi della sua forte attrazione verso gli uomini.
«Circa in quell’epoca cominciavo a comprendere vagamente il meccanismo del fatto che quanto il prossimo considerava una posa da parte mia era invece una manifestazione della necessità di affermare la mia natura genuina, mentre era per l’appunto una mascherata quello che il prossimo considerava il mio io genuino.»

Kochan, tuttavia, non si limita ad indossare una maschera, ma recita attivamente la parte che il destino gli ha assegnato. E così, mentre nella prima parte del romanzo si dedica a un’attività tutto sommato contemplativa, nella seconda coinvolge nella sua macchinazione un altro essere umano, la virginea Sonoko. Egli inizialmente agisce in perfetta buona fede, convinto di essere innamorato della ragazza, al pari di tutti i suoi coetanei. Man mano che Sonoko gli mostra il medesimo, ma sincero, attaccamento, Kochan sente nascere dentro di sé il bisogno di fuggire da lei, come in effetti fa. Il dolore provato matura in una nuova consapevolezza di sé, fino a sbocciare nella piena accettazione della propria omosessualità.
Il romanzo è scritto in prima persona, con lo stile di un diario intimo; la stessa parola “confessioni” nel titolo rende bene l’idea. La confessione è al contempo rivelazione di un segreto e volontà di espiazione di una colpa, perché se è vero che il protagonista non biasima mai la propria natura, è altrettanto indubitabile che il suo goffo tentativo di farsi piacere una donna sia indice della tortuosità dell’accettazione dei propri bisogni intimi.
Confessioni di una maschera è dunque in primis un romanzo di formazione, o meglio, il racconto di un’autoeducazione sentimentale. Oltre la vicenda individuale c’è però quella collettiva di un Paese in rapida trasformazione, pronto ad affacciarsi alla modernità; ecco allora che Mishima osserva con occhio sornione ma cinico la società giapponese a cavallo tra le due guerre, tradizionalista ma costretta ad arrendersi al vento del cambiamento.
Copertina dell'edizione in abbinamento al quotidiano La Repubblica