26 novembre 2019

Guardare senza essere visti: l'osservatorio privilegiato di Palazzo Bonaparte

Nel punto di intersezione tra Piazza Venezia e Via del Corso sorge un palazzo seicentesco rimasto chiuso per decenni, da poco riaperto alla collettività. È chiamato Palazzo Bonaparte, perché dal 1818 al 1836 vi dimorò Maria Letizia Ramolino, madre di Napoleone. Si narra che la nobildonna trascorse la prima parte del soggiorno romano tentando con ogni mezzo diplomatico la liberazione del figlio, in esilio a Sant'Elena, interpellando persino il Pontefice. Gli ultimi anni, invece, scivolarono via nel silenzio della preghiera e della rassegnazione, fino ad un definitivo allontanamento dalle cose del mondo, aggravato dalla rottura del femore che le impedì di lasciare la casa.
Accompagnata dal padre spirituale, o più di frequente da una dama di compagnia, amava trascorrere i lunghi pomeriggi romani in un balconcino coperto ad angolo, chiamato anche “bussolotto”. Qui poteva osservare il passaggio di Piazza Venezia e Via del Corso, ammirare con un unico colpo d'occhio la vita brulicante dei luoghi nevralgici della città, il tutto senza essere vista. Le imposte spioventi del caratteristico balconcino, infatti, celano chi si affaccia agli occhi dei passanti. È la sensazione del “guardare senza essere visti”, che donna Letizia e le sue dame di compagnia provavano nelle interminabili giornate di un esilio autoimposto.
Oggi un'intera ala di Palazzo Bonaparte è aperta ai visitatori, ed è un altro spazio espositivo che si aggiunge all'offerta culturale della città. Nove stanze complessivamente, corrispondenti all'appartamento della Ramolino, tutte riccamente decorate con stucchi, affreschi allegorici e meravigliosi caminetti. Non resta nulla degli arredi originari, a parte una copia in gesso della statua raffigurante Napoleone, commissionata dallo stesso Imperatore a Canova. Meravigliosi anche i pavimenti dell'epoca, protetti ma visibili grazie a pannelli di plexiglass. Il percorso si conclude nella stanza da letto della Ramolino, passando per il vestibolo d'ingresso, la splendida sala dei ricevimenti e il già menzionato “bussolotto”. Anche il visitatore moderno può così riposare un momento sui sedili in legno, magari proprio nel punto in cui la madre di Napoleone trascorreva le sue giornate romane, osservando la vita di centinaia di persone senza essere vista.
Tutte le foto sono state scattate da me; chiedo cortesemente, a chiunque volesse utilizzarle, di citare la fonte.
La copia in gesso della statua di Napoleone, opera di Canova
Il soffitto affrescato del salone dei ricevimenti
Il celebre balconcino ad angolo, o "bussolotto"
Particolari delle decorazioni del balconcino

Il Palazzo da solo vale una visita, ma un'occasione in più è data dagli eventi che periodicamente ospita. Attualmente – e fino al prossimo otto marzo – è in programma l’interessante mostra Impressionisti segreti, che espone cinquanta opere di importanti pittori impressionisti, “segrete” perché provenienti da collezioni private, normalmente celate al grande pubblico. Sono rappresentati i grandi autori francesi come Monet, Manet, Gauguin, Caillebotte, Renoir, Seurat, Laugé, nonché alcuni provenienti da altre nazioni, come l'italiano Zandomeneghi. La mostra è ben curata, gli spazi sono ampi e ogni opera è corredata da un'esaustiva didascalia esplicativa.
G. Caillebotte, Una strada a Napoli 
P.A. Renoir, Ritratto di Madame Josse
A. Laugè, Dinanzi alla finestra
C. Pissarro, Sulla sponda della Senna
G. Caillebotte, Un balcone, Boulevard Haussmann

12 novembre 2019

"Rituals": le radiazioni di una luce fredda

Nel pantheon ideale della new wave italiana, i Neon occupano un posto di rilievo. Appartenenti alla scena fiorentina come Litfiba, Diaframma e Moda, scelsero in controtendenza di esprimersi in lingua inglese, per dare respiro internazionale al proprio lavoro. A distanza di trentaquattro anni dal primo e unico LP, sono ancora attivi sulla scena indipendente; proprio l'anno scorso ho avuto la fortuna di vederli dal vivo a Roma, in forma smagliante.
Rituals venne pubblicato nell'autunno del 1985, dopo Siberia dei Diaframma (1984) e Desaparecido dei Litfiba, uscito a gennaio dello stesso anno. Le differenze tra i tre dischi sono di palmare evidenza. Siberia, pur riprendendo il suono d'oltremanica, lo mediava attraverso una vena "cantautoriale" e poetica tipicamente italica; Desaparecido guardava al Mediterraneo, all'Oriente, all'America Latina. Rituals è invece un LP che avrebbe ben potuto essere stampato in terra d'Albione, sia pure in ritardo rispetto a quanto avevano già fatto New Order, Bauhaus, Cure, OMD e Depeche Mode, anche se i più immediati punti di riferimento rimangono i tedeschi Faust e Kraftwerk.
Pur con gli ovvi limiti, dovuti principalmente ad una registrazione non eccelsa, Rituals resta un punto di riferimento per la darkwave nostrana, se non addirittura l'apice dell'intero movimento. La fanno da padroni tastiere e sintetizzatori suonati da Piero Balleggi e dal cantante Marcello Michelotti; le chitarre sono invece affidate a Ranieri Cerelli, mentre Roberto Federighi suona batteria e percussioni. I Neon dimostrano anche alla lunga distanza le caratteristiche che li avevano resi celebri nel circuito underground: toni cupi, ritmiche ossessive, sonorità che strizzano l'occhio al synthpop più raffinato. Il risultato è chiaramente figlio dei tempi, ma resta godibile anche a distanza di trent'anni, soprattutto per la scelta meditata di mantenersi fuori dal commerciale, senza tuttavia abbracciare gli eccessi criptici del genere industriale, che pure aveva seguito e degni interpreti in Italia.
L'iniziale Runnin' è uno dei brani più celebri dei Neon, molto efficace dal vivo: un drumming martellante che sostiene il preciso incedere delle chitarre elettriche, su cui si staglia la profonda voce di Michelotti. Last chance è un altro gran pezzo, che ricorda i migliori New Order di Power, corruption & lies di un paio d'anni prima. La successiva Isolation all'epoca venne promossa anche con un video, disponibile ancora su YouTube. Predominano i sintetizzatori e gli effetti, ma stupisce la sezione ritmica, precisa e ossessiva, che fa molto Joy Division. Michelotti esalta le sue doti vocali con un testo che non avrebbe sfigurato nel repertorio di Ian Curtis: «Every night I'd like to kill my fantasy, / everytime I fight but cannot win. / Maybe I felt your sound in ancient memories, / what I need is out of reality. […] For my crime of passion I've got no safety, / no one will relieve my agony. / Turn, turn off the light, / your ecstasy does make me stay».
Il lato B si apre con il punto più alto del disco, a mio modesto avviso: la maestosa Dark age, con un titolo che è già una dichiarazione d'intenti. È un delizioso gioiello synthpop, in cui tutto si mantiene magicamente in equilibrio: la voce distorta dagli effetti, la batteria precisa e incalzante, la chitarra che disegna la melodia principale, il sottofondo quasi progressivo delle tastiere. Potrebbero averla scritta benissimo gli Ultravox o i Kraftwerk, tanto alto è il livello raggiunto. L'eclettismo e le capacità del gruppo sono poi dimostrate dalla cover di Burning of the midnight lamp, rilettura in chiave wave di un classico hendrixiano. Le tracce sono otto, per quaranta minuti abbondanti di una musica fredda, che illumina la notte dell'anima ma non riscalda, proprio come un neon.
Nel 2010 la Spittle Records ne ha curato una splendida ristampa in vinile, che riprende la grafica originaria; io l'ho trovata ad un prezzo davvero conveniente, 12 euro. Unica pecca la mancanza dei testi, che è comunque possibile scaricare dal sito ufficiale della band.
La copertina dell'album 
La band, foto della busta interna del vinile