30 novembre 2020

Roma da (ri)scoprire n. 2: luoghi di raccoglimento immersi nel verde

Come ho scritto nella prima puntata di questa rubrica, a Roma ci sono innumerevoli tesori che si collocano ai margini dei consueti giri turistici. Sono chiese, monumenti, edifici e manufatti dal grande valore intrinseco, che tuttavia patiscono la concorrenza di altre e più blasonate opere d'arte. Oggi vorrei consigliare un breve itinerario, poco noto ma di grande impatto emotivo. 
Via di Porta Latina e Via di Porta San Sebastiano sono due strade silenziose (quando sono chiuse al traffico veicolare) e immerse nel verde, che corrono quasi parallele e si incrociano in Piazzale Numa Pompilio, in prossimità della casa di Alberto Sordi, oggi museo. Percorrendo le due strade in un giro quasi circolare si incontrano così tanti punti di interesse – anche se meno noti di altri – che appare incredibile una tale ricchezza di attrattive in poco più di un chilometro. In questo angolo di verde, che segue l'antico tracciato della Via Appia, sembra di essere fuori città. Si incontrano tre sedi diplomatiche (ambasciate di Canada e Norvegia, residenza dell'ambasciatore del Giappone), due ville con alberi secolari (Parco degli Scipioni e Parco San Sebastiano), due siti archeologici (Sepolcro degli Scipioni e Casina del cardinal Bessarione), il Museo delle Mura e tre edifici religiosi (San Cesario in Palatio, San Giovanni in Oleo e San Giovanni a Porta Latina). Vorrei parlare proprio di queste ultime due, che costituiscono la parte più interessante della visita. 
Il lungo viale del Parco San Sebastiano

L'Oratorio di San Giovanni in Oleo si trova subito dopo il passaggio della Porta Latina, sulla sinistra. È un piccolo edificio ottagonale, che già dalle ridotte dimensioni dà l'idea del raccoglimento e della preghiera. Secondo la tradizione, sorge sulle rovine di un martyrium, edificato nel secolo V nel luogo dove il Santo sarebbe stato immerso in un recipiente di olio bollente (in oleo), uscendone miracolosamente illeso. Al tempo di Giulio II venne rinnovato su progetto di Antonio da Sangallo il Giovane, per assumere infine la forma attuale nel 1658 ad opera del Borromini, su incarico del cardinale Francesco Paolucci. Il Borromini si occupò del piccolo oratorio subito dopo aver completato il progetto di restauro del Battistero lateranense, tanto che uno dei disegni preparatori del battistero sarebbe stato utilizzato come base per la progettazione dell'oratorio. All'interno è un ciclo di affreschi con Storie di S. Giovanni Evangelista, opera di Lazzaro Baldi. Caratteristica la copertura, perché al tamburo è stato sovrapposto un attico circolare decorato con fregi e sormontato da una croce. L'oratorio è quasi sempre chiuso, ma una finestrella consente di ammirarne con sufficiente completezza l'interno. Purtroppo i muri perimetrali vengono periodicamente imbrattati da vandali. 
L'oratorio visto da Porta Latina
Proseguendo lungo Via di Porta Latina, una svolta a destra ci conduce a un ameno e silenzioso spiazzo, in cui si erge la Basilica di San Giovanni a Porta Latina, protetta da una cancellata che si apre su un grazioso giardino con un caratteristico pozzo. Risalente al V secolo, è stata più volte trasformata, fino al recente restauro degli anni 1940-1 che ne ha ripristinato le forme medievali. Sulla facciata si aprono tre finestroni, ed è preceduta da un austero portico a cinque arcate su colonne in marmo e granito con capitelli ionici. Sotto il portico ci sono frammenti romani e paleocristiani, nonché resti di affreschi medievali. Sulla sinistra si slancia il campanile romanico a bifore e trifore. L'interno è a tre navate, suddivise da antiche colonne di spoglio, l'una diversa dall'altra. La navata centrale è decorata da un ciclo di dipinti risalenti alla fine del XII secolo, con scene dei Testamenti.
È una passeggiata silenziosa e rilassante, che consiglio di intraprendere di domenica, quando i rumori della città sono attutiti e (spesso) le strade sono chiuse al traffico.
Le informazioni storico-artistiche sono tratte dalla Guida rossa del T.C.I., volume su Roma. Le fotografie sono del sottoscritto.
La facciata di San Giovanni a Porta Latina

18 novembre 2020

"L'amore non guasta" di Jonathan Coe: le tante voci di un romanzo corale

Leggendo questo romanzo giovanile di Coe ho avuto l'impressione di un divario tra le probabili intenzioni dell'autore e il risultato finale. Cercherò di spiegare meglio il concetto, sicuramente opinabile al pari di ogni altra considerazione personale. L'amore non guasta è un romanzo ambizioso, che cerca di affrontare a gamba tesa e senza giri di parole alcune tematiche tra le più dibattute e controverse: la depressione, il suicidio, il senso profondo dell'amore, l'amicizia tradita, il fallimento individuale e collettivo. E lo fa con una storia cruda e amara, che lascia poco all'immaginazione e si impone sul lettore come un pugno allo stomaco, volutamente. Prima ancora della trama, si consideri brevemente la struttura dell'opera: la storia è raccontata da almeno sei punti di vista differenti, come pezzi di un puzzle di ardua composizione. L'intreccio è complicato da continue analessi e veri e propri “racconti nel racconto”, che forniscono ulteriori punti di vista, a volte confondendo persino il lettore scrupoloso. In questo senso è un romanzo ambizioso, perché Coe non si è accontentato di vestire i panni del narratore tradizionale, ma ha voluto affrontare tematiche spinose in maniera innovativa, o comunque non banale. Sembra quasi che la struttura del libro si adatti alla multiforme complessità del reale
Terminata la lettura, ci si interroga se la scelta dell'autore sia stata felice; la risposta non può che essere interlocutoria, almeno secondo il mio punto di vista. Prevale forse una certa confusione di fondo, l'impressione di non aver capito tutto, di aver solo parzialmente approfondito gli spunti di riflessione lanciati da Coe. Eppure, non si sente la necessità di rileggerlo da capo, perché si intuisce che quanto l'autore voleva dire sarebbe stato compiutamente espresso nei lavori successivi, da La banda dei brocchi a La famiglia Winshaw. Come ho scritto altrove, lo scrittore britannico ama la complessità dell'intreccio, resa dal continuo succedersi dei narratori e intersecarsi dei punti di vista, che rende talvolta macchinosa la trama. Questo meccanismo è già presente ne L'amore non guasta, ma sarà perfezionato nei lavori a venire, diventando una sorta di marchio di fabbrica. Riallacciandomi all'incipit della recensione, è qui che si nota un divario tra le intenzioni di Coe e la resa finale, tanto temerarie le prime da non essere messe definitivamente a fuoco. 
Parlando brevemente della trama, tutta la vicenda ruota intorno alla figura di Robin, eroe tragico e sensibile, destinato inevitabilmente alla sconfitta. Siamo a Coventry, in piena epoca thatcheriana; Robin è un giovane alle prese da oltre quattro anni con la stesura della tesi di dottorato, mai terminata e forse mai davvero iniziata. Il ragazzo è affetto da un oscuro male di vivere, causato da continui fallimenti nello studio, nelle amicizie, nella scrittura, nell'amore. Ed è in particolare un vecchio amore non corrisposto a costituire la miccia di un corto circuito mentale che lo condurrà a un tragico finale. La sua vicenda viene narrata da soggetti terzi: un vecchio amico, un collega di università, un'amica indiana, un'avvocatessa che ha preso a cuore una sua vicenda giudiziaria. Le voci di questi personaggi sono intervallate dai racconti scritti da Robin, utilizzati come strumento per cercare di dipanare il mistero che avvolge la sua figura. Proprio in questo canto corale si manifesta la peculiare struttura del romanzo, come ho già evidenziato. 
Non consiglio la lettura di questo romanzo a quanti vogliano avvicinarsi per la prima volta a Jonathan Coe; si corre il rischio di rimanere interdetti, forse persino delusi. Sarebbe preferibile iniziare da La banda dei brocchi, oppure dal leggero e divertente Questa notte mi ha aperto gli occhi. Ciononostante, L'amore non guasta è un libro che prima o poi va affrontato, perché proprio nell'imperfezione si cela il suo punto di forza. Un po' come Robin, un po' come tutti gli altri personaggi, un po' come noi tutti.

6 novembre 2020

La terra di nessuno tra dolcezza e furore: "Big red letter day"

Leggendo i commenti degli utenti di YouTube sotto i video dei Buffalo Tom, ricorre spesso l'aggettivo “underrated”, ossia “sottovalutati”. In effetti il terzetto bostoniano, tuttora attivo sulle scene, rimane un nome di nicchia, ignorato dai più e ricordato al massimo con qualche breve trafiletto sulle enciclopedie del rock. Il periodo è quello che ha visto esplodere band come Dinosaur Jr. e Pixies, che hanno raggiunto la fama o comunque una certa notorietà. Pur rientrando nel medesimo calderone del rock alternativo di fine anni Ottanta / inizio Novanta, i Buffalo Tom non sono mai riusciti a salire alla ribalta, nonostante un pugno di buoni album e una manciata di ottime ballate. Si ascolti in proposito Summer, che pure appartiene alla stagione più tarda.
Il gruppo si è formato nel 1986 e ha mantenuto sempre la stessa formazione. Bill Janowitz (chitarra e voce), Christopher Colbourn (basso) e Tom Maginnis (batteria) avevano assimilato la scuola del post-punk e del nascente grunge, ma volevano ammansire il suono per adattarlo a un gusto meno estremo, soffusamente malinconico. Ecco allora canzoni che strizzano l'occhio alla melodia, pur indulgendo talora in selvagge bordate chitarristiche. È questo il suono dei Buffalo Tom, che partono da una matrice college rock profondamente americana per avventurarsi nella corrente alternativa del decennio 1990-1999, con le sue nervose divagazioni elettriche. I Buffalo Tom si muovevano coraggiosamente in questa terra di nessuno, troppo puliti per i più intransigenti, troppo alternativi per conquistare il grande pubblico dei passaggi radiofonici.
Il disco di cui voglio parlare, Big red letter day (1993), è il quarto della loro discografia, che ad oggi conta soltanto nove episodi. Abbandonata la supervisione e la produzione di J Mascis, con questo lavoro i bostoniani puntavano alla maturità artistica e (perché no) a qualche passaggio radiofonico con pezzi meno sperimentali e più orecchiabili. Il terzetto fa affidamento alla formula consolidata chitarra-basso-batteria, anche se non mancano innesti di organo hammond e persino cori femminili (in Tree house). La puntuale sezione ritmica di Colbourn/Maginnis è la base su cui si impongono le chitarre di Janovitz, ora melodiose ora disturbate. Quest'ultimo non ha la prestanza o la potenza della rockstar, ma una voce carica di espressività e pathos, che regala intense emozioni (I'm allowed su tutte).
In questo lavoro si evidenzia l'alternanza tra dolcezza e furore che, come detto, costituisce il marchio di fabbrica della loro maturità. Ci sono in egual misura pezzi tiratissimi e morbide ballate, a evidenziare le due anime del trio. Un'analisi traccia per traccia è superflua, perché di fatto tutte le canzoni si mantengono sullo stesso pregevole livello, senza tuttavia far gridare al miracolo. Spicca la stupenda I'm allowed, una ballata elettrica tra le più intense degli ultimi trent'anni, che meriterebbe di essere inserita in ogni raccolta di rock alternativo che si rispetti. Pregevoli le altre tracce “soffici”: Late at night, Anything that way e Would not be denied. Quando invece i Buffalo Tom premono sull'acceleratore, i risultati non sono sempre apprezzabili: promosse Sodajerk e Torch singer, poco convincenti Dryland e Tree house.
Big red letter day è un buon disco, diviso tra i poli antinomici della spensieratezza e della sottile malinconia. Terminato l'ascolto, ci si chiede per quale ragione non sarà facile dimenticare i Buffalo Tom, che avranno sempre un posto speciale nel nostro cuore. Sarà perché ci ricordano i tempi dell'università, qualcosa che abbiamo vissuto o avremmo voluto vivere, gli anni Novanta, la fine della prima giovinezza, l'amara scoperta di sé. Canta bene Janowitz in I'm allowed: «waited for an answer / but I waited for twenty five years; / they stopped my bleeding / but could never stop all those tears». Big red letter day non è facile da reperire, anche se è stato ristampato in vinile nel 2018, in occasione dei venticinque anni dalla sua uscita. Io ho trovato la prima stampa italiana del 1993, un LP in buone condizioni all'onesto prezzo di venticinque euro.