21 maggio 2020

"The price you pay": gli operai del rock hanno cuore

C'è voluta la quarantena per rimettere sul piatto un LP che avevo stroncato troppo presto, prima ancora di averlo ascoltato con la dovuta attenzione. Il disco in questione è The price you pay degli albionici Spear of Destiny. L'acquistai qualche anno fa in una fiera dell'usato, per la verità piuttosto avara di scoperte; pur di non tornarmene a casa a mani vuote, presi questo 33 giri in ottime condizioni a prezzo stracciato. Dopo averlo ascoltato distrattamente e con poca soddisfazione, l'avevo dimenticato senza troppi rimpianti. Mi è capitato nuovamente tra le mani nei giorni della chiusura per l'emergenza sanitaria e ho deciso di rimetterlo sul piatto. È stata una piacevole riscoperta, prova che le prime impressioni non sono necessariamente veritiere.
Gli Spear of Destiny si formarono a Londra nel 1982 dalle ceneri dei Theatre of Hate, e già l'anno successivo esordirono su vinile con Grapes of wrath. A conferma che si trattava di un gruppo promettente, si ricorda la “John Peel session” andata in onda su BBC Radio 1 nel novembre 1982. Sono tuttora attivi sulla scena, ma non hanno mai raggiunto il successo di massa, nonostante suonino un solido rock che affonda le radici nel punk. Leader indiscusso della formazione è da sempre Kirk Brandon, unico membro stabile.
L'album di cui voglio parlare, The price you pay, è il quinto tassello della loro discografia. Uscito per la Virgin nel 1988, ha raggiunto al massimo la posizione n. 37 della classifica britannica. Autore delle musiche e dei testi è il vocalist Kirk Brandon, che suona anche tutte le parti di chitarra. Completavano la formazione Pete Barnacle alla batteria, Chris Bostock al basso e Volker Janssen alle tastiere. Come produttore la Virgin ingaggiò il celebre Alan Shacklock. La copertina, che può piacere o meno, raffigura una sorta di aquila stilizzata, grafica che il gruppo riprenderà anche nelle successive uscite discografiche.
The price you pay è un classico album rock secondo le sonorità di fine anni Ottanta, con un deciso predominio delle chitarre e tastiere mai invasive. Si sente la lezione del punk, primo amore di Brandon sin dai tempi dei Theatre of Hate; eppure le composizioni sono piuttosto elaborate, con arrangiamenti curati che ricordano – a tratti smaccatamente – gli U2. Non a caso gli Spear of Destiny hanno suonato in diverse occasioni come band di supporto per Bono & co.
Si apre con So in love with you, un inno di amore e morte che poteva diventare una perfetta hit radiofonica. La successiva Tinseltown ha una chitarra in stile The Edge e un ritornello che ti entra in testa. The price è invece un solido pezzo combat rock, con un testo impegnato: «I can't find a reason to stay but I don't want to go, / there's a battle going on outside, it's really a war. / Should I pick myself up walk out and fight / or should I sit in here and deliberate about why, / when I know there's people out there / who ain't got a choice». Degna di nota l'intensa ballata I remember, che chiude un lato A di buon livello. Una cosa è certa: gli Spear of Destiny non si accontentavano della canzone facile, preferivano andare oltre i cinque minuti con arrangiamenti essenziali e testi mai banali, anche quando parlavano di sentimenti.
Il lato B è meno convincente, con la caduta di stile su Radio radio, di cui si poteva fare benissimo a meno. Ci sono però ancora due grandi pezzi. If the guns è l'epitaffio di un uomo che ha lasciato questa vita senza rimpianti: «Some people say what have I done? / But I can't reason or excuse myself. / I've lived and I've paid, / I've turned my back and sent away». Inizia con toni sommessi e un soffice tappeto elettronico; poi la voce sale di tono nel crescendo finale con assolo di chitarra elettrica. Da brividi. View from a tree è un pezzo completamente diverso, dalle venature folk, che anticipa un genere che avrà successo nel decennio successivo.
In conclusione, pur con gli ovvi limiti, The price you pay è un lavoro onesto, scritto col cuore da operai del rock quali erano gli Spear of Destiny. Il lato A è il migliore, mentre la seconda facciata risente di una sperimentazione riuscita a metà. Se trovate il vinile a poco prezzo, procuratevelo senza indugi.

6 maggio 2020

"Non amo ripetere lo stesso schema all'infinito": intervista a Diego Galeri

Ritorna “Due chiacchiere con…”, uno degli appuntamenti più seguiti del blog. Stavolta ospito Diego Galeri, che mi ha concesso un'appassionante intervista via mail. Ogni presentazione è superflua, trattandosi di uno dei musicisti più influenti della scena rock italiana. Basti dire che è stato fondatore e batterista dei Timoria, con i quali ha inciso, tra gli altri, il monumentale Viaggio senza vento (1993). Dopo lo scioglimento dei Timoria, ha fondato i Miura assieme all'amico Illorca, con i quali ha pubblicato tre dischi: In testa (2004), Croci (2008) e 3 (2009). E proprio alla parentesi dei Miura è dedicata una buona parte dell'intervista, in quanto ritengo che avrebbero meritato maggiore successo e attenzione. I suoi più recenti progetti prendono invece i nomi di Adam Carpet e del10. È inoltre un apprezzato produttore, con la sua etichetta Prismopaco. Insomma, un artista continuamente in movimento, che ama cambiare e percorrere strade sempre nuove, come da titolo dell'intervista. Per tenervi aggiornati sul suo lavoro, visitate le pagine ufficiali su Facebook e Instagram.
Prima di lasciarvi alle sue parole, lo ringrazio pubblicamente per la cortesia e la disponibilità dimostrate.

Domanda. Dei Timoria si è detto e si è scritto tanto. Sui Miura invece circolano poche notizie, nonostante si tratti di una delle formazioni italiane più interessanti della scena rock di inizio millennio. Com'è nato il progetto? Quali erano le vostre fonti di ispirazione?
Risposta. La band è nata subito dopo lo scioglimento dei Timoria. Io e Carloalberto volevamo continuare a suonare assieme e volevamo proseguire nella stessa direzione di suono. Volevamo riappropriarci della matrice rock che nell'ultimo disco dei Timoria avevamo un po' perso a favore di un sound più acustico, e nello stesso tempo volevamo contaminarci con alcuni generi musicali che ci stavano particolarmente stimolando all'epoca, stiamo parlando della fine del 2003; lo stoner rock in genere viveva un periodo florido e a noi piaceva l'approccio viscerale che avevano molte bands di quella scena. Decidemmo di contattare Killa (Francesco Capasso), già chitarrista di Alligator e Zona, che ci piaceva molto e con cui avevamo fatto dei concerti in passato. L'intesa fu immediata e insieme a lui iniziammo da subito a scrivere le canzoni che poi sono finite nel primo album In testa.

D. In testa, l'esordio dei Miura, era un lavoro di rodaggio, in parte legato anche ai trascorsi dei Timoria. Il successivo Croci del 2008, invece, è un disco maturo e potente, che ha visto la partecipazione di molti ospiti, come Moltheni, Lubjan e Giorgio Canali. Linea di confine, Perle e fiori, M.A.I.A., Scompaio, e la stessa cover de Il cielo in una stanza, sono ottimi pezzi, che avrebbero meritato maggiore successo. Puoi parlarci di questo disco? C'è qualche aneddoto particolare legato alla sua realizzazione?
R. In testa è stato un disco importante. Dopo tanti anni (17 circa) con la stessa band, fare un disco con una nuova formazione e un nuovo progetto è stato come respirare una boccata d'ossigeno e ritrovare l'entusiasmo degli esordi. Il suono di quel disco mi piace un sacco e alcune canzoni erano davvero notevoli. Croci, invece, è arrivato dopo un periodo molto travagliato e sofferto; il tragico incidente che coinvolse me e Carloalberto nel 2004  aveva lasciato un vuoto incolmabile e una pesantezza profonda. Da In testa infatti passarono tre anni, ci volle tutto quel tempo per ritrovare l'energia e la concentrazione per  fare un nuovo disco, complice anche il cambio di formazione con l'arrivo di Max Tordini (cantante dei Mesas) alla voce al posto di Jack, che richiese ulteriore tempo. Decidemmo di coinvolgere una serie di musicisti amici per suonare il basso in alcuni brani e per due feat. vocali meravigliosi (Motheni e Lubjan). Oltre a loro e a Giorgio Canali, che produsse artisticamente il disco, suonarono anche Walter Clemente dei Deasonika, Mirko Venturelli dei Giardini Di Mirò, Steve Dal Col dei Frigidaire Tango, Pietro Canali della band di Moltheni e Marcello Todde dei Matra che poi ci seguì anche in tour. Avevamo accumulato un consistente numero di brani e con Giorgio ne selezionammo dodici per la tracklist dell'album. In quel periodo avevamo ascoltato molto Oceansize, Dredg, God Machine, Cave In, Amplifier, Interpol e tutte queste influenze credo siano convogliate nel nostro modo di scrivere e suonare. Il lavoro sui testi per Croci fu corale. I giorni di lavoro in studio (Chichoi Recording Studio a Bassano del Grappa) furono particolarmente intensi, arrivavano spesso ospiti e ognuno di loro lasciava un segno importante nelle nostre canzoni. Per un certo periodo, era estate, io e Giorgio ci trasferimmo a casa sua a Ferrara portandoci dietro gli hard-disks e il Mac dello studio. Lavorammo giorno e notte a casa sua per una settimana circa, e quando era il momento di staccare io dormivo in cucina. Io e Giorgio non lavoravamo assieme dal 1989, anno in cui registrammo Colori che esplodono con lui come fonico. Giorgio è un viscerale, quel che pensa dice e quel che gli piace fa...è rimasto un grande affetto tra noi. Un evento che ricordo di quel periodo fu la realizzazione del servizio fotografico per la copertina con Michele Corleone, mio amico fraterno dai tempi dei Timoria. In una giornata infinita allestimmo il set in un garage a Vigevano, disponendo un centinaio di candele e decine di oggetti. A fine giornata dovemmo naturalmente ripulire tutto, la cera delle candele aveva imbrattato tutto il pavimento, ma le foto erano super! Per il video di M.A.I.A. invece la regia fu co-affidata a Michele (Corleone) e a Fabio Capalbo. Con sforzi sovrumani della troupe in due giorni di riprese realizzarono un video meraviglioso, anche grazie alla magistrale interpretazione di Francesco Migliaccio e Adriana Busi. Il periodo di Croci fu molto intenso, le cicatrici erano certamente rimaste profonde ma almeno ritrovai la consapevolezza di voler fare musica ancora.

D. E veniamo all'ultimo album, intitolato semplicemente 3 e uscito nel 2009. È un lavoro che si distacca dai precedenti, forse più vicino al sound statunitense. Potresti spiegarci le ragioni di questo “cambiamento di rotta”?
R. Personalmente sono sempre stato molto “curioso” e in qualche modo mi annoio facilmente... Non amo ripetere lo stesso schema all'infinito, motivo per il quale non mi piace particolarmente guardare al passato come spesso fanno alcuni miei colleghi. Croci era stato un punto di svolta importante per la band, serviva guardare avanti ed evolversi. Non a caso chiamammo Giacomo Fiorenza a produrre il disco. Il lavoro che aveva fatto con Moltheni e Giardini di Mirò ci era piaciuto molto e pensavamo che potesse dare il giusto “feel” alle nuove canzoni che avevamo scritto. Fu così. Giacomo è un produttore “no compromise”, ha il suo suono e il suo concetto di musica ben in testa. Dunque, più che in altre occasioni, ci facemmo guidare affidandogli gran parte delle scelte di arrangiamento e mix. Credo sia in ogni caso l'attitudine che serve quando affidi la tua musica ad un produttore artistico; non ho mai capito chi sceglie un produttore e poi ne contesta continuamente il lavoro. Registrammo 3 in uno studio ricavato in una vecchia casa nel borgo disabitato di Cattognano in Lunigiana; Claudio Morselli, con il quale avevo già lavorato per gli ultimi tre dischi dei Timoria e per In testa, aveva da poco avviato quel meraviglioso studio e, dopo un sopralluogo, decidemmo che era il posto ideale per fare il disco che avevamo in mente. Per circa sei settimane rimanemmo là, completamente isolati ad eccezione di qualche discesa a valle per le sagre del panigaccio. Giacomo portò un sacco di suoi strumenti vintage e per registrare usammo quasi esclusivamente quelli. Fu un'esperienza straordinaria sia dal punto di vista umano che da quello artistico. Con Giacomo ho esplorato mondi musicali con i quali mi ero confrontato raramente e che mi hanno profondamente influenzato anche per i dischi a seguire...Sparklehorse su tutti. Come primo singolo scegliemmo Normale, un brano il cui testo era mio, una sorta di stato dell'arte della mia vita in quel momento. Il video di Normale fu meravigliosamente realizzato in animazione da Diego Lazzarin. Nei concerti che seguirono la pubblicazione del disco, al basso con noi suonò Walter Clemente (Deasonika) con il quale ho instaurato un rapporto di amicizia e stima reciproca che dura tutt'oggi.

D. A un certo punto dei Miura si sono perse le tracce, senza che sia stato annunciato uno scioglimento ufficiale (salvo che a me sia sfuggito). Se non sono indiscreto, quali sono le ragioni che vi hanno portato a interrompere il sodalizio?
R. È stata un'evoluzione naturale delle cose. Dopo 3 abbiamo scritto e registrato una manciata di canzoni nuove ma, nonostante fossero ottimo materiale, non abbiamo più trovato lo stimolo per continuare. In qualche modo percepivo che l'energia si era esaurita. A quel punto sentii l'esigenza di cambiare strada. Adam Carpet nacque nella mia testa in quel periodo e ne parlai per primo con Killa (Francesco Capasso). Da lì iniziò un nuovo percorso musicale e artistico che ad oggi credo sia una delle cose migliori che ho fatto.

D. Oggi si parla tanto di indie, parola forse abusata perché molti musicisti che si definiscono tali sono sostenuti da major. È una definizione che potrebbe essere data ai tuoi progetti post-Timoria, ossia Miura e Adam Carpet?
R. Se parliamo di indie inteso come musica prodotta in maniera indipendente assolutamente sì. Miura e Adam Carpet sono esistiti grazie alla forza, anche economica, delle due band in primis, con l'aiuto poi di label indipendenti come Edel, Target, Rude Records, Irma Records e non ultima la mia Prismopaco con cui produssi 3 dei Miura. L'indie di oggi non ha nulla a che fare con la musica indipendente, è un'etichetta, un modo per targettizzare la musica. Non mi sono mai piaciute le etichette, ma se proprio dobbiamo usarne per definire la musica che ho fatto e faccio, mi piace usarne tante tutte assieme.

D. Tu sei anche un produttore, con l'etichetta che hai fondato qualche anno fa, la Prismopaco. Puoi parlarci di questo progetto?
R. Prismopaco è una label che ho fondato nel 2008 in totale autonomia. Essendo io l'unico a lavorarci, beneficio dei vantaggi di gestire in totale autonomia le scelte artistiche, spesso schizofreniche, e di contro subisco gli svantaggi di non avere una struttura che possa avere la forza che servirebbe per promuovere la musica come si deve. Con gli artisti che si propongono cerco di essere sempre molto limpido sulle reali capacità di penetrazione sul mercato, non faccio promesse che non posso mantenere; chiarite le premesse, se si decide di lavorare assieme ci metto il massimo. Negli anni ho avuto le mie piccole soddisfazioni con i dischi di Stoop, Kitsch, che ho prodotto anche artisticamente nello studio di Cattognano, Royal Bravada, Richard J Aarden, Slowtide, Barack, Yellow Moore, Softloud, The Perris, Merkel Market, Psychovox, The Circle, MUTO, In.Visible, Tita, Coclea, Dave Muldoon, Deltacut, Nails And Castles, March Division, Matteo Sand, e tutti dischi pubblicati con i miei progetti del10 e Gentle Eyes In The Gloom... Tutti dischi bellissimi che mi hanno dato tanto anche se magari non hanno fatto grandi numeri.

D. Il supporto materiale perde terreno, addirittura si parla di una prossima scomparsa del compact-disc a tutto vantaggio della musica liquida. Eppure il vinile resiste e ogni anno guadagna una consistente fetta di mercato. Da addetto ai lavori, quale sarà secondo te il futuro dell'industria discografica?
R. Difficile dirlo, in questo momento poi ancora di più. Il mercato digitale è in continua e rapidissima evoluzione, ormai non si può più prescindere dal digitale, bisogna farci i conti, ma bisogna anche avere l'attitudine giusta nella comunicazione sulle piattaforme. Il mercato digitale viaggia su binari diversi da quelli del fisico, c'è bisogno continuamente di contenuti, e solo chi ha un forte “carattere” sui social riesce ad emergere e farsi notare nel mare magnum della musica liquida. Ma il ritorno del vinile è un indice importante, gli appassionati di musica secondo me hanno ancora bisogno di matericità e di qualità, il vinile conferisce alla musica la giusta dignità e sono convinto che, a differenza del cd, non scomparirà mai.

D. Stiamo vivendo un'emergenza sanitaria senza precedenti e la musica ne sta risentendo pesantemente: basti pensare al fatto che un'intera stagione di concerti è stata annullata. Molti analisti sostengono che, una volta cessata l'emergenza Covid-19, niente sarà come prima e non saranno più consentiti i concerti affollati. Tu cosa ne pensi? Quale sarà secondo te il destino della musica dal vivo, quantomeno nel prossimo futuro?
R. Oggi la crisi generata dalla pandemia ha aperto nuovi scenari imprevisti, come il boom di eventi in streaming da casa o da location senza pubblico. Spero vivamente si tratti di una fase temporanea. Ho sempre pensato ai concerti come una risorsa importante e insostituibile per gli artisti, proprio perché esperienza unica di aggregazione e unico momento in cui una band o un artista si esprime istantaneamente e comunica dal vivo con il proprio pubblico. Oggi però anche questa certezza è messa in dubbio. Non so, io sono sempre fiducioso, credo che questa situazione si risolverà e torneremo ad una vita “normale” pur con una nuova consapevolezza. Ma navighiamo a vista. Di certo non sarò felice se l'unico modo per assistere ad un concerto sarà di farlo chiuso nella propria auto.

D. Quali sono i tuoi progetti futuri, come musicista e produttore?
R. Nel prossimo futuro ci sono un disco con un progetto rock inedito, un disco di del10, un paio di collaborazioni e altre cose a cui sto pensando... Mi piacerebbe poi tornare a lavorare con Adam Carpet, se troveremo i giusti incastri non lo escludo affatto. Purtroppo non è il momento ideale per pianificare, bisognerà vedere come si evolve la situazione Covid, ma le cose in cantiere sono diverse e spero di poter tornare a lavorarci presto. Per ora si fa quello che si può. Sono convinto che nella musica, una volta archiviato questo periodo di crisi terribile, ci sarà un'esplosione di energia mai vista. Ci vuole tenacia e fiducia ma i musicisti e tutti quelli che lavorano in questo mondo sono abituati a fare tanti sacrifici e a confrontarsi con situazioni precarie... Sapremo trovare la forza di reagire.
Diego Galeri alla batteria (foto di @stebrovettoph)
I Miura, foto tratta dal libretto di Croci (2008)

3 maggio 2020

Una "camera con vista" sul mondo della musica: il "Dizionario del pop-rock"

La mia non vuole essere una recensione, ma un vero e proprio omaggio al libro più caro e sfogliato della mia biblioteca: il Dizionario del pop-rock 2006, a cura di Enzo Gentile e Alberto Tonti. Ha una struttura semplice e funzionale, al pari di un qualsiasi dizionario enciclopedico. Di ogni artista sono riportate brevi note biografiche e un elenco di tutti i dischi pubblicati, con sintetiche ma ficcanti recensioni e un voto da una a cinque stelle. Abituati ad avere sotto mano una miriade di informazioni grazie alla rete, un libro del genere può sembrare superato e poco utile. E invece, a distanza di quindici anni, per me rimane ancora un punto di riferimento della cultura musicale, la bibbia da consultare prima di acquistare un album. Quando l'ho preso, nel 2006, non c'erano gli smartphone e non avevo l'ADSL; giocoforza, il Dizionario cartaceo costituiva la mia “camera con vista” sul mondo della musica. E voglio allora omaggiarlo, esaltandone i punti di forza.
1. Il Dizionario mi ha fatto conoscere artisti che probabilmente da solo non avrei mai incontrato. Innumerevoli i dischi che ho acquistato perché spinto dalle sue brevi didascalie: mi vengono in mente Giancarlo Onorato, Charlatans, Dr. Feelgood, Van Der Graaf Generator.
2. Come ogni enciclopedia che si rispetti, c'è tutto (o quasi): si va dal rock and roll al grunge, dalla psichedelia al punk, dal progressive al britpop, dalla dance all'elettronica. Ampio spazio è dedicato agli artisti più famosi, ma non mancano i nomi oscuri della wave britannica (come i Comsat Angels), i cantautori meno noti (Willie Nile), oppure certe band rock di buon talento ma scarso successo (come gli Spear of Destiny).
3. C'è tanta (ma proprio tanta) musica italiana. Alcuni potrebbero parlare di provincialismo, ma io ho sempre apprezzato questa caratteristica del Dizionario, che lo rende diverso da libri concorrenti. Dentro c'è praticamente tutto il rock italiano, dal progressivo ai gruppi emergenti di inizio millennio, nonché tutti i cantautori, compresi quelli di nicchia, come Garbo o Juri Camisasca.
4. Le recensioni sono essenziali ma efficaci. Poche parole che rimangono in mente grazie a un linguaggio che predilige l'aspetto emozionale rispetto a quello tecnico. Esemplare l'incipit della recensione di Aria di Alan Sorrenti: «la Napoli che meno ti aspetti, rivoluzione di suoni e poesia, passando da Londra e dall'Inghilterra, dove risciacquare i panni della sperimentazione, della ricerca, di una vocalità che non ha frontiere». Oppure, si pensi alle parole spese per descrivere Forever changes dei Love, definito «il capolavoro nascosto della stagione psichedelica, la celebrazione in undici capitoli della creatività egocentrica di Arthur Lee». Magistrali le parole utilizzate per riassumere l'essenza dell'album che preferisco dei Litfiba: «nello scrigno di 17 Re c'è spazio per liquidità, impressioni e suggestioni psichedeliche, per le elettriche lancinanti di Ghigo come pure per i timbri delle tastiere di Aiazzi e la teatralità vocale di Pelù».
5. Il sistema di votazione dei dischi, basato sulle classiche stelle, utile soprattutto per gli artisti che hanno una corposa discografia. Quando ho dovuto scegliere da quale album cominciare per artisti come Rolling Stones, Pixies o Sonic Youth, ho optato per i lavori a cinque stelle. Questo non vuol dire che mi trovi sempre d'accordo con i voti del Dizionario; le due misere stelle appioppate a Boxe dei Diaframma (per me un capolavoro) gridano ancora vendetta!
Non ho la presunzione di affermare che si tratti del migliore o del più completo libro sull'argomento; il mio è un semplice omaggio, per via dei tanti ricordi che mi legano al volume. Per tutti questi anni il Dizionario del pop-rock è stato – e lo è tuttora – un punto di riferimento, come un amico più grande e saggio, a cui rivolgersi quando si ha un dubbio. E lui, che di musica ne ha macinata davvero tanta, ogni volta ti sorride sornione e sa darti il giusto consiglio, senza chiedere nulla in cambio.