25 dicembre 2021

"So alone": dove il mare è più profondo

La strada del rock è disseminata di eroi belli e dannati, crollati ai margini dopo una vita di genialità e dissolutezza. John Anthony Genzale, in arte Johnny Thunders (1952-1991), è uno di loro e la sua vicenda di eccessi è emblematica. Johnny era il ragazzo introverso e sensibile, il fragile dallo sguardo stralunato, il tossico, il cattivo esempio, il malinconico divorato da un demone autodistruttivo, l'italo-americano con un adesivo della Madonna sulla chitarra. Johnny era l'abisso dove il mare è più profondo. E forse, anche per questo, è uno a cui non si può non volere bene. Come ha scritto Ira Robbins di Trouser Press, Thunders era un «punk di strada […], un uomo che viveva la musica come se fosse l'unica cosa davvero importante, uno che per la musica si è sacrificato in un fatale rituale di sangue». L'esordio fu con i New York Dolls, gruppo all'avanguardia e dissacratore che ha sotterrato definitivamente l'epoca d'oro del glam, forte di un'attitudine che anticipava il punk. Oltre a Genzale, in quella band di squinternati militavano David Johansen, Sylvain Sylvain, Jerry Nolan e Arthur Kane. Lasciate le bambole di New York dopo due LP, il nostro fondò gli Heartbreakers con Walter Lure, suo amico di eccessi. Tra i principali esponenti della scena punk americana, gli Heartbreakers pubblicarono L.A.M.F., lavoro fulminante ed epocale nonostante la bassa qualità della registrazione.
Chiusa anche questa esperienza, Thunders iniziò nel 1978 la sua altalenante carriera solista, dando alle stampe So alone. Il disco fu registrato in sole tre settimane e pubblicato in Inghilterra il 6 ottobre del 1978: è un album vario, composto in egual misura da intense ballate, covers dei Dolls, rivisitazioni rockabilly e infuocate cavalcate punk. Lo stesso artista ne raccontò la genesi in un'intervista rilasciata alla fanzine Trouser Press: «avevo sempre avuto un repertorio di canzoni lente, che gli altri Heartbreakers non volevano suonare; ho sempre voluto farle, ma a Jerry non piaceva suonare pezzi lenti». La produzione fu affidata a Steve Lillywhite, coadiuvato dallo stesso Thunders. Autorevole la platea di musicisti e ospiti: oltre ai vecchi amici Rath e Lure, nel disco hanno suonato Paul Cook e Steve Jones dei Sex Pistols, Phil Lynott dei Thin Lizzy, Steve Marriott e Patti Palladin. Eloquente lo scatto di copertina, con Johnny in una stanza anonima, stravaccato sopra una sedia, lo sguardo liquido di sfida, o forse semplicemente perso nei suoi mondi alternativi.
Apre le danze la strumentale Pipeline degli Chantays, annegata in un'orgia di riverberi grazie alle chitarre di Thunders e Steve Jones. La successiva You can't put your arms round a memory è il pezzo più celebre scritto da Johnny. Vale la pena acquistare il disco solo per questa canzone, che non esito a definire tra le cento più belle di tutti i tempi. È un canto di desolazione accompagnato da una chitarra che lacera l'anima, una lancinante invettiva contro il dolore della solitudine.
«Feel so restless, I am, beat my head against a pole, try to knock some sense, down in my bones. And even though they don't show, the scars aren't so old.»
Si rifiata con Great big kiss, duetto rockabilly con Pat Palladin, che riprende l'intro di un celebre brano dei New York Dolls. London boys è invece un pezzo punk tiratissimo, che sembra uscito da Never mind the bollocks; la prima impressione è confermata dalla lettura delle note di copertina, dove apprendiamo che alla chitarra e batteria c'erano rispettivamente Jones e Cook. Sulla stessa direttrice Leave me alone, dall'incedere tipicamente punk. Sempre tra i pezzi scritti da Thunders, spicca l'energica (She's so) untouchable, impreziosita dal suono del sax, a dimostrazione ancora una volta delle capacità camaleontiche del nostro. Tra le cover, merita un cenno Subway train, già apparsa nel primo disco delle Dolls; Thunders non era soddisfatto della prima versione e decise di inciderla nuovamente. Come rivelò alla rivista ZigZag, «avevo scritto testo e musica e Johansen solo un paio di cosette; avrei sempre voluto cantarla da solo». Spicca anche Daddy rollin' stone, un pezzo R&B di Otis Blackwell già interpretato dagli Who nel 1965.
So alone non è un disco perfetto, né unitario. Un lavoro coi suoi alti e bassi, in cui convivono con sapiente equilibrio le diverse anime di John Genzale, il suo amore per il rock anni Sessanta, i suoi demoni, la sua ribellione e la sua dolcissima malinconia. Riduttivo parlare di punk; questo è il tentativo di un ragazzo che sognava di scrivere e interpretare il disco rock perfetto, l'utopia di chi, in mezzo a tanti difetti, ha avuto l'indiscutibile pregio di seguire sempre il proprio istinto. Come rivelò a Kris Needs di ZigZag, «sto programmando di andare a New Orleans, trovare qualche musicista nero tra i quaranta e i cinquant'anni, un buon tastierista e un buon sassofonista e suonare con loro». Purtroppo il suo sogno non si è mai realizzato; restano i lavori con Dolls e Heartbreakers, nonché una manciata di buoni dischi solisti, come appunto So alone. Ascoltatelo, come tributo alla coerenza di questo sfortunato italo-americano. Lo merita tutto.
Lo scatto di copertina e, in basso, foto tratte dal libretto interno

13 dicembre 2021

Roma da (ri)scoprire n. 4: l'eclettismo del Museo Boncompagni Ludovisi

Roma è così ricca di luoghi d'arte che le amministrazioni competenti possono permettersi il lusso di garantire l'accesso libero a un discreto numero di musei. E sarebbe un errore il credere che la gratuità sia legata alla modesta rilevanza del luogo. Anzi, spazi espositivi permanenti come il Museo Napoleonico o il Museo Barracco sopravanzano di gran lunga alcune tra le tanto pubblicizzate mostre temporanee, sovraffollate e sovente deludenti. Il Museo Boncompagni Ludovisi è uno tra i luoghi poco conosciuti che meritano una visita. È situato in una delle strade più eleganti della Capitale, quella Via Boncompagni che raccorda Via Veneto con la zona di Porta Pia. Nonostante la centralità, è una strada poco frequentata al di fuori degli orari d'ufficio, stante l'assenza di negozi o altre attrattive. Alberata, signorile e silenziosa, mantiene un'aura alto-borghese, quasi mitteleuropea da fin de siècle. A circa metà del suo percorso troviamo il Villino Boncompagni-Ludovisi, sede dell'omonimo "Museo per le arti decorative, il costume e la moda dei secoli XIX e XX". Il Villino è un'elegante costruzione con un grazioso giardino, progettata nel 1901 dall'architetto Giovanni Battista Giovenale su incarico di Luigi Boncompagni Ludovisi. Ha un piano seminterrato e un piano ammezzato, originariamente destinati ai servizi e alla servitù, mentre il piano primo era abitato dalla famiglia. Nel 1932 l'edificio è stato interessato da importanti lavori di ristrutturazione che hanno trasformato il piano rialzato, destinato alla sola rappresentanza. Come riportato nei cartelli esplicativi, «i caratteri decorativi e compositivi dell'esterno rimandano a una rivisitazione personale barocca del Giovenale, non priva di artifici illusionistici adottati per risolvere alcune soluzioni di dettaglio». Non mancano tracce liberty, come le decorazioni floreali sulle finestre e sulla ringhiera a protezione del terrazzo di copertura.
Il Museo è strutturato su due piani e ospita quadri, sculture, suppellettili, mobili, vasellame, arazzi, abiti e gioielli riconducibili alle principali correnti artistiche italiane della seconda metà del XIX secolo e della prima metà del XX. È dunque uno spazio dedicato principalmente all'arte e alla moda italiane, anche se non mancano incursioni europee o esotiche, come le collezioni di vasi cinesi. Il piano rialzato è il più interessante, perché si entra negli spazi di rappresentanza della villa. La prima stanza è la Sala di Papa Boncompagni, destinata oggi ad accogliere un immaginario studiolo dedicato al Papa Gregorio XIII, il cui ritratto campeggia sulla parete sopra il caminetto. Nella sala si possono ammirare una serie di pregevoli manufatti, tra cui un antico mappamondo, due nature morte con pesci, poltrone in velluto intagliato, arazzi e persino una piccola riproduzione in bronzo della Colonna Traiana risalente al XIX secolo.
Particolare della Sala di Papa Boncompagni

La visita prosegue entrando nel meraviglioso Salone delle vedute di Villa Boncompagni, che dà direttamente sul grazioso giardino. È questo l'ambiente più grande, destinato a ricevere gli ospiti importanti. La stanza è caratterizzata da una ricca decorazione parietale a tempera realizzata a trompe-l'oeil. Entro una cornice architettonica fatta di colonne e pilastri, sono disegnate finte prospettive con scorci di viali alberati, che riproducono il parco della non più esistente Villa Ludovisi. Sul soffitto è riprodotta una finta balaustra che inquadra una volta celeste con motivi ornamentali, opera probabilmente di Alberto Chiarotto. Lo sguardo del visitatore è inevitabilmente attirato dal ritratto a grandezza naturale della principessa Alice Blanceflor Boncompagni Ludovisi de Bildt, olio su tela del 1925 del pittore ungherese Philip de Laszlo. Pregevoli due stipi in metallo dorato e decorati con scene campestri, opere di fine manifattura cinese acquistate dalla Compagnia delle Indie.
Il meraviglioso Salone delle vedute di Villa Boncompagni
Philip de Laszlo, Ritratto della principessa Boncompagni

Segue la Sala della culla dei Principi Savoia, così detta perché al centro è posta la culla dei principi reali, realizzata in bronzo, argento e oro dallo scultore Giulio Monteverde. Anche in questa stanza vi sono pregevoli suppellettili, sebbene il pezzo forte sia la carta da parati di gusto liberty con motivi esotici, dipinta a mano da artigiani francesi. La visita al piano rialzato si conclude con la Galleria degli arazzi, che ospita anche gioielli e abiti femminili risalenti agli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso.
La culla dei principi Savoia
La lunga Galleria degli arazzi

Il primo piano è uno spazio più tradizionalmente museale. É suddiviso in una serie di salette dedicate alle principali correnti artistiche italiane ed europee del periodo 1880-1940. Molto interessante la sala intitolata Gli affetti, che raccoglie bronzetti d'arredo con figure femminili o d'infanti e animali realizzati in ceramica invetriata. Notevole anche La figlia del pittore, olio su tavola del 1939 di Giacomo Balla. Altre salette sono dedicate al Futurismo, all'Art déco, al taglio quasi fotografico della ritrattistica negli anni della Belle Epoque. Di questa parte del percorso espositivo, tre opere sono a mio modo di vedere particolarmente significative: Maschere di Gian Emilio Malerba, la grande vetrata dipinta di Duilio Cambellotti (Visione eroica) e la Figura di donna di Antonio Donghi (1932).

Duilio Cambellotti, Visione eroica
Giacomo Balla, La figlia del pittore
Antonio Donghi, Figura di donna

Il percorso si conclude nella stanza da bagno che Andrea Boncompagni commissionò durante i lavori di ristrutturazione del 1932, con grande cura nella scelta dei marmi, degli arredi e delle tende. Qui sono collocati alcuni splendidi abiti da sera che raccontano il gusto e la moda femminile negli anni Trenta. E in un angolo ci sono proprio due ragazze vestite “alla moda”, con vistosi cappelli a tesa larga: sono Le amiche, quadro del 1940 di Giorgio de Chirico.
In parole povere, il Museo Boncompagni Ludovisi è un luogo eclettico e poco conosciuto, che in un'oretta scarsa consente di attraversare tutte le principali correnti artistiche e mondane della giovane Italia a cavallo dei due secoli.
Le fotografie sono liberamente utilizzabili, purché venga citata la fonte.
La sala da bagno
Giorgio de Chirico, Le amiche

2 dicembre 2021

"Il sospetto" di Friedrich Dürrenmatt: la libertà è un delitto

Sospetto, caso e libertà sono i tre concetti intorno a cui ruota questo celebre romanzo, edito in volume per la prima volta nel 1953. La tesi del caso come arbitro e gerente dei destini umani non è nuova per chi conosce la produzione dello scrittore svizzero: è il nucleo ideologico di libri come La promessa o La panne. Per Dürrenmatt il mondo è un pezzo di terra che per ventura ruota intorno al sole, la realtà è un mistero inestricabile, come un codice solo parzialmente decifrabile dalla ragione o dominabile dalla volontà. Ne Il sospetto questa teoria si rivela in tutta la sua drammaticità.
«Tutto quello che si combina, le buone azioni come i delitti, succede così, per conto suo, il bene e il male cadono in tasca alla gente per caso, come a una lotteria; è per caso che uno diventa giusto e per caso che diventa un malvagio.»
È dal caso che nasce il sospetto, è da un evento casuale che prende il via l'indagine poliziesca. Il commissario della Polizia Criminale di Berna, Hans Bärlach, è ricoverato in ospedale per una grave patologia, assistito dal dottor Hungertobel, suo caro amico. Una sera, per puro caso, Bärlach sfoglia davanti all'amico un vecchio numero della rivista Life, ove campeggia una foto paurosa e disturbante che ritrae un medico nazista in un campo di concentramento, intento a operare senza narcosi un prigioniero. Hungertobel, nell'osservare la fotografia, ha un'impercettibile reazione di disagio che non sfugge all'occhio allenato del poliziotto Bärlach. Interrogato dal commissario, il medico afferma che l'assassino ritratto nella fotografia gli ricorda Emmenberger, un suo vecchio compagno di studi, primario in una clinica privata di Zurigo. Questa osservazione casuale è sufficiente per innescare il sospetto nella mente di Bärlach. Sembra impossibile che Emmenberger e Nehle, il medico nazista ritratto nella fotografia, siano la stessa persona; eppure il sospetto si ingigantisce, guadagna terreno e verosimiglianza, fino a occupare ogni fibra del cervello del vecchio commissario. Ha così inizio l'indagine poliziesca, quella scienza che si avvale in egual misura di “matematica e fantasia”, che porterà Bärlach a confrontarsi con i ciechi disegni del caso, a perdersi nelle spire del sospetto.
La verità a cui giungerà Bärlach è ancora più spaventosa delle sue supposizioni. Per arrivarci, dovrà scavare sino alle radici dell'inferno, conoscere un mostro che non uccide per noia o sadismo, ma per affermare la propria libertà al di sopra degli abusati concetti del bene e del male. La scoperta è sconvolgente: in un mondo regolato dal caso e dominato dal sospetto, persino il delitto può essere una manifestazione della libertà, uno strumento perverso di affermazione di sé.
«Non esiste una giustizia – come potrebbe essere giusta la materia? – esiste soltanto una libertà che nessuno si è meritata, una libertà che ognuno deve prendersi. La libertà è il coraggio del delitto, perché è essa stessa un delitto.»
Sebbene il romanzo sia ambientato quasi interamente nel chiuso di due stanze d'ospedale, è attraversato dall'inizio alla fine da una tensione strisciante, che avvince il lettore pagina dopo pagina. Addirittura il commissario Bärlach non si muove dal suo letto; come un ragno, tesse la sua trama senza allontanarsi dalla tela. Mentre nei gialli classici è il protagonista che si muove alla ricerca del colpevole, in questo romanzo sono gli altri personaggi (ivi compreso il colpevole) a ruotare intorno al letto dell'investigatore, a conferma del fatto che Dürrenmatt non era un giallista come gli altri. Forse è persino riduttivo annoverarlo tra i giallisti, perché attribuirgli un'etichetta significherebbe ignorare la profondità della sua analisi della società e del mondo. Per lui il poliziesco non era un fine, ma un mezzo. Nei suoi romanzi l'inchiesta fuoriesce dai limiti entro cui è storicamente confinata: non è uno strumento per individuare l'assassino, ma un mezzo per indagare il senso ultimo della realtà, per inchiodarla alle sue menzogne e contraddizioni. Il sospetto, per quanto sia un'opera giovanile, brilla per compiutezza e maturità di pensiero; è un giallo filosofico, o forse un trattato sull'umanità sotto forma di novella. In parole povere, è una delle prove narrative che meglio descrivono lo smarrimento e la crisi di coscienza del Novecento. E ancora oggi sorprende la lucidità dello sguardo dello scrittore elvetico, se si pensa che all'epoca della pubblicazione gli orrori del conflitto e del nazismo erano troppo recenti, vividi e pulsanti nell'animo degli europei.

21 novembre 2021

Appunti per un nuovo romanzo

Qualche giorno fa ho ricevuto una gradita sorpresa: una persona che ha letto Le rovine in attesa mi ha inviato una mail, chiedendomi se è in vista la pubblicazione di un nuovo romanzo, essendo trascorsi più di cinque anni dal precedente. Dalla mia risposta è nato un interessante scambio di osservazioni, che ha tuttavia lasciato aperte diverse domande.
Partendo dal quesito del lettore, la risposta è sì, per quanto dubito possa interessare a qualcun altro. Un nuovo romanzo c'è, è quasi pronto, al netto del lavoro di rilettura e correzione che sto portando avanti da qualche mese. È un progetto ambizioso, un romanzo storico ambientato in Cilento negli anni immediatamente successivi all'unificazione nazionale. Non so dire se sia riuscito o meno, né se io sia all'altezza del compito che mi ero prefissato quando è nata l'idea. Spinto da alcune letture per me decisive – Alianello e Jovine –, ho tentato la carta del romanzo meridionale, o meglio meridionalista, ma non nel significato di “partigianeria sudista” che la parola ha assunto negli ultimi anni. Si può parlare di romanzo meridionalista perché affronta le problematiche connesse al periodo postunitario, sia pure entro la cornice di una vicenda di fantasia. Nulla di assolutamente originale, una strada già percorsa dagli autori citati. L'ambientazione è periferica, quel Cilento povero, campestre, orgoglioso e ribelle che finora non ha trovato grandi spazi nella nostra letteratura, se si eccettuano casi isolati (Noi credevamo su tutti). La trama sarà svelata a tempo debito; è sufficiente dire che è la storia di tre fratelli che fanno scelte opposte negli anni turbolenti della contrapposizione tra “briganti” e “piemontesi”. Ribadisco che non è un libro che vuole propugnare un'ideologia o un revirement della vulgata storiografica; a me interessa più il lato umano, il tema delle scelte contrapposte. In questo senso, nelle mie intenzioni il romanzo dovrebbe avere una valenza universale, che va al di là della contingenza storica. Voglio dire che la storia è ambientata in un'epoca (1863) e in un luogo (Cilento) precisi, ma il suo significato più profondo potrebbe valere per ogni momento storico in cui gli uomini si sono trovati a fare scelte estreme e radicali, spesso divisive per le stesse famiglie. La storia potrebbe essere traslata nel Nord Italia post 8 settembre 1943, oppure nel Cile del golpe Pinochet: il senso non cambierebbe.
Il mio corrispondente mi ha dunque domandato quando verrà pubblicato il romanzo. Candidamente ho ammesso di non avere una risposta neppure sul se verrà pubblicato. Per quanto lo giudichi una buona prova, sono estremamente autocritico. È un libro necessario, di cui non si può fare a meno? No! È un libro che intercetta gli umori e i desideri della nostra epoca? Men che meno. È un romanzo che cavalca le mode del momento? Neanche per idea. È un romanzo che può interessare a qualcuno? Certamente sono di più quelli che sbadiglierebbero dopo il primo capitolo. Eppure non è questo il punto. Sempre più spesso mi chiedo perché qualcuno dovrebbe leggere il mio romanzo, se a mia volta non incentivo gli scrittori cosiddetti emergenti. Lo dico senza nascondermi: non acquisto mai opere di autori emergenti, perché la mole dei grandi autori del passato è sterminata ed è arduo trovare tempo per i contemporanei, specie se sconosciuti. Purtroppo si pubblica troppo e a prezzi non competitivi. Per quale ragione dovrei acquistare a quattordici euro il romanzo di uno sconosciuto, quando i classici si trovano a meno o persino a due lire nelle librerie dell'usato? Servirebbe una diversa politica delle case editrici, sia sui prezzi che sulla selezione delle opere da pubblicare. Sono queste le riflessioni che ho fatto con il mio interlocutore, lasciando tante domande aperte e un indefinibile sapore di auto-boicottaggio.
Ciò ovviamente non significa che non tenterò la strada della pubblicazione. Scrivere un romanzo non è solo l'esigenza di far uscire una parte della propria sensibilità, né l'effimero piacere di vedere la pila di fogli ingrossarsi. È innanzitutto una fatica, un lavoro che sottrae tempo e risorse ad altre attività più piacevoli o necessarie. Pertanto, inutile nascondersi, il punto di approdo di ogni autore è lo scaffale di una libreria. Pur con tutti i dubbi e le incertezze delle mie riflessioni, ci proverò ancora una volta.
Le tentazioni di Sant'Antonio di Domenico Morelli (particolare):
un'idea di copertina per il mio prossimo romanzo

9 novembre 2021

"I fuochi del Basento" di Raffaele Nigro: un secolo di lotte contadine

La storia del Mezzogiorno è un succedersi di lotte sociali, ribellioni, rivoluzioni riuscite o abortite. Il vento del cambiamento ha sempre soffiato sul Meridione, nonostante la sua posizione periferica rispetto ai centri europei del pensiero liberale, Londra e Parigi su tutti. Si pensi al periodo murattiano, oppure alle cicliche rivolte antiborboniche che infiammarono il Regno negli anni 1820-21, 1848, 1857. Com'è noto, l'unificazione nazionale non placò il fuoco della ribellione, che anzi si rinvigorì nei confronti del nuovo nemico, identificato nei Savoia invasori. La letteratura meridionale del Novecento ha sempre guardato con interesse a questo fermento, tentandone un'analisi dal punto di vista politico, economico e sociologico. E se pure ci sono autori che hanno approfondito l'incidenza del pensiero liberale e carbonaro nel Meridione, il tema portante è da sempre la dicotomia tra baroni e braccianti, declinata nelle sue varie forme: galantuomini e cafoni, civili e zappaterra, giamberghe e zampitti, signori e servitori. Tanti sono i romanzi che hanno affrontato la tematica; tra i più importanti, Le terre del Sacramento e Signora Ava di Francesco Jovine, L'eredità della priora di Carlo Alianello, ma anche Fontamara di Ignazio Silone.
Il melfitano Raffaele Nigro nel 1987 aggiunse un altro tassello alla già lunga e nobile lista. Il suo tentativo sembrava fuori tempo massimo, in un'epoca che aveva esaurito la spinta della prima ondata meridionalistica ed era ancora molto lontana dal revisionismo storiografico dei giorni nostri. E invece I fuochi del Basento incontrò il favore di pubblico e critica, con la vittoria dei premi Campiello e Napoli. La ragione del successo è presto detta: è scritto bene ed è appassionante e labirintico come tutte le grandi storie. É un romanzo corale, una vera e propria saga familiare che racconta le vicende di quattro generazioni della famiglia Nigro, dalla seconda metà del XVIII secolo fino al 1863. I personaggi attraversano da protagonisti uno dei periodi più travagliati della storia del Mezzogiorno, che vede avvicendarsi sul trono di Napoli i Borbone, i Francesi con Re Murat, poi di nuovo i Borbone con la Restaurazione e infine i Savoia. Non ci sono però soltanto le grandi lotte per il potere: in basso c'è tutto un mondo contadino in fermento, che segue con interesse e partecipazione le vicende politiche, nella speranza che le rivoluzioni conducano finalmente alla tanto desiderata spartizione delle terre.
I fuochi del Basento racconta proprio il sogno di una repubblica contadina, un governo equo retto dalle migliori menti e dalle braccia più robuste, l'utopia di una società in cui a comandare siano gli intellettuali più illuminati assieme a chi lavora la terra. Questo è il sogno di Francesco Nigro, protagonista del romanzo, che da bracciante si fa capobrigante, coltivando il sogno di imparare a leggere e scrivere per affrancarsi dalla schiavitù. Sulla stessa lunghezza d'onda si muovono altri personaggi, che infiammano le terre di Puglia e Basilicata per affermare la propria libertà. Sull'altro versante della barricata ci sono gli aristocratici, reazionari che vogliono mantenere lo status quo e provano orrore per un governo fatto di "cafoni e cacacarte". Raffaele Nigro ha ricostruito con dovizia certosina un territorio e un'epoca spesso ignorati dai libri di storia; è un romanzo denso e corposo, che "pesa" più delle duecentocinquanta pagine che lo compongono. C'è dentro tutto un mondo, una mole straordinaria di personaggi e vicende, che lo rendono un classico contemporaneo. Per quanto sia arrivato tardi rispetto ad altre pietre miliari della letteratura meridionale (e meridionalistica), è riuscito comunque a ritagliarsi un posto d'onore. Altre opere forse hanno raccontato la rivoluzione con maggiore approfondimento politico; penso a Il resto di niente di Striano o a Noi credevamo della Banti. Tuttavia, I fuochi del Basento può vantare una narrazione di più ampio respiro, che abbraccia oltre un secolo di storia locale ed europea.
Per quanto riguarda il linguaggio, Nigro optò per l'uso dell'italiano in luogo del dialetto. Una scelta non facile, che tuttavia si è rivelata felice. Il rischio di una tale scelta è quello di sacrificare la credibilità dei personaggi, rendendo innaturale il loro modo di esprimersi. Invece i braccianti di Nigro parlano una lingua accurata ma semplice, perfettamente verosimile grazie al sapiente inserimento di dialettismi e costruzioni lessicali mutuate dal linguaggio informale del ceto contadino. Un libro che non può mancare in una piccola biblioteca di letteratura meridionale.
Prima edizione Camunia del 1987

28 ottobre 2021

"Hibernation": suoni dalla città di ghiaccio

Tempo fa, recensendo il primo e unico disco dei Mercenaries di Claudio Dentes, utilizzai l'espressione “nostrani ma strani”, a significare l'eccentricità del gruppo nel panorama musicale italiano. La definizione ben si adatta ai Chrisma (poi Krisma), forse il più celebre e riuscito esperimento del synth-pop nazionale, un nome che non ha bisogno di presentazioni. La vicenda è nota: Maurizio Arcieri, già icona beat coi New Dada e modello di fotoromanzi, conobbe e sposò la svizzera Christina Moser; il duo prese il nome di Chrisma, dalle loro iniziali. Esordirono con un repertorio leggero di gusto danzereccio, per essere poi folgorati dal punk in quel di Londra. Il resto è storia: la pubblicazione di Chinese restaurant, il tentativo di portare in Italia il genere elettronico, l'equivoco di chi li scambiò per filonazisti, Maurizio che si tagliò un dito durante un concerto come risposta alle contestazioni. Al di là degli aneddoti, è indubbio che il duo abbia avuto una certa popolarità e diversi passaggi televisivi, a differenza di altri gruppi wave nostrani che pure cantavano in inglese, come Neon o Frigidaire Tango. Al successo ha contribuito molto la fama di coppia inossidabile, lei meravigliosa come una diva d'altri tempi, lui un bello da fotoromanzo. Ma i Chrisma erano tutt'altro che apparenza: sostanza pura e talento limpidissimo.

Si ascolti Hibernation, anno di grazia 1979, il loro secondo disco. Dentro c'è tutta l'essenza dei Chrisma: il punk, l'elettronica, i cosmici tedeschi, la new wave più algida e sperimentale. Una combinazione vincente, un suono al contempo decadente e futurista che oscilla tra Londra e fascinazioni mitteleuropee. Hibernation appunto, a indicare una musica fredda, spersonalizzata, algida. Il disco fu prodotto da Niko Papathanassiou, fratello del più noto Vangelis, con Dave Marinone quale ingegnere del suono, già collaboratore de Le Orme e Vecchioni. La copertina di Mario Convertino è splendida, sensuale e futuristica, tra le migliori del rock italiano. In sala di registrazione, oltre a Maurizio (voce e tastiere) e Christina, c'erano Ezio Vevey alla chitarra (dalla Locanda delle fate), Papathanassiou ai sintetizzatori e il grande Lucio Fabbri col suo violino (in Rush '79 e We r.).  
L'esordio di Calling è un perfetto esempio di electro-punk: un tappeto sghembo di sintetizzatori e la voce salmodiante di Arcieri, un andamento incalzante che potrebbe andare avanti all'infinito. Aurora B., la seconda traccia, è un capolavoro. Da dove cominciare? Dal piano su cui si innestano rimasugli di elettronica, dalla voce di Christina che è essa stessa un'interpretazione del testo, dagli struggenti violini o dalla fisarmonica che fa capolino in coda? Le parole non possono rendere l'idea: basti dire che è un brano raffinatissimo, dalle tonalità new romantic, forse il vertice della produzione italiana. Il primo lato si chiude con Hibernated nazi, in cui i Chrisma giocano con l'equivoco e ci regalano un pezzo che non avrebbe sfigurato in Before and after science di Brian Eno. A sorpresa, la seconda facciata alza ancora l'asticella. Fenomenale Gott gott electron, che all'epoca fu lanciato come singolo. L'incedere è marziale e algido, nello stile dei Kraftwerk; la voce di Maurizio è robotica, mentre Christina aggiunge un tocco caldo, umanissimo. La successiva We r. è un'evoluzione del sexy sound che li lanciò nel 1976, virato stavolta verso territori elettronici. Il testo è intrigante e due versi rendono bene l'idea: «she looks so chaste / putting on the leather mask». Infine, So you don't e Lover sono due cavalcate elettriche con la chitarra di Vevey in evidenza; è post-punk ai massimi livelli, che anticipa una tendenza che un paio d'anni dopo sarà il marchio di fabbrica dei primi Sound di Jeopardy.
Il disco è stato ristampato in vinile nel 2015 dalla Spittle Records, per cui è facilmente reperibile senza svenarsi. In un'epoca come la nostra, così povera di fantasia, Hibernation può ancora dire la sua. Electro-punk e synth-pop sembrano appartenere a epoche remote, eppure questo LP viene direttamente dal futuro.
La celebre copertina di Mario Convertino
Retro del 33 giri

15 ottobre 2021

"La Bibbia al neon" di John Kennedy Toole: ombre dalla provincia americana

Fino a una settimana fa non sapevo neppure chi fosse John Kennedy Toole, né l'avevo mai sentito nominare. Faccio ammenda e riconosco che la mia conoscenza della letteratura americana della seconda metà del XX secolo è piuttosto limitata: Kerouac, Fante, Burroughs e qualcun altro. Il nome di Toole si è aggiunto alla ristretta schiera dopo la lettura de La Bibbia al neon, pescato per caso su una bancarella di libri usati. La scelta, per quanto casuale, si è rivelata così azzeccata che ho deciso di procurarmi l'altro suo libro, Una banda di idioti, recensito entusiasticamente da critica e pubblico. Ho scritto “l'altro” e non “un altro” suo libro, perché John Kennedy Toole è autore di due romanzi, per giunta pubblicati postumi. Si suicidò nel 1969, all'età di trentadue anni, senza aver dato alle stampe un solo volume; fu per la caparbietà della madre e l'intercessione dello scrittore Walker Percy se nel 1980 Una banda di idioti vide finalmente la luce nelle librerie americane.

La prima edizione de La Bibbia al neon risale invece al 1989, anche se in realtà è il primo libro di Toole in ordine cronologico. L'autore lo ultimò all'età di sedici anni, giudicandolo troppo acerbo e ingenuo per poter essere pubblicato. Sorge dunque un dilemma: se sia giusto dare alle stampe un volume contro la volontà del suo autore. Se infatti Toole tentò di far pubblicare Una banda di idioti, chiuse invece in un cassetto il suo precoce esordio. Ovviamente non è possibile dare una risposta univoca; di certo l'iniziativa fu presa dalla madre, per cui si presume che abbia fatto la scelta più rispettosa della memoria del figlio. Al di là di questo aspetto, è fuor di dubbio che sarebbe stato un peccato se questo libro non fosse mai esistito. Certo ci sono delle ingenuità, sicuramente si nota una giovanile esuberanza senza freni, eppure, se venisse offerto in lettura a scatola chiusa, sono certo che nessuno lo bollerebbe come un prodotto adolescenziale. La Bibbia al neon forse non è un grande romanzo, nondimeno è egualmente memorabile. Sfido molti degli autori a noi contemporanei a diffondersi in pagine di così sofferta intensità emotiva, nella descrizione lucida e commossa di un travaglio interiore che non ha risposte.
Io narrante e protagonista è David, un bambino che vive in una piccola contea della Louisiana, nella bigotta e sonnolenta provincia americana. A vegliare sui costumi e sulla moralità degli abitanti ci sono le supreme autorità di un ancien régime stantio e polveroso, eppure ancora duro a morire: lo sceriffo, il pastore protestante e gli insegnanti. Simbolo materiale di questa oppressione del pensiero è una grande bibbia al neon piazzata sopra il tetto della chiesa, che di notte spande la sua luce artificiale per tutta la valle, intimando ai nottambuli di pentirsi e orientare i propri pensieri verso ciò che è giusto e casto. La famiglia di David è malvista, perché ha in sé i marchi del peccato: nessuno è iscritto nei registri parrocchiali e la zia Mae aveva un passato come ballerina e cantante in locali di terz'ordine. Il romanzo inizia quando la zia Mae va a vivere a casa di David, ancora bambino, e si conclude con la fine dell'adolescenza di quest'ultimo. È dunque un romanzo di formazione, anche se inquadrarlo entro un genere non rende pienamente giustizia. La Bibbia al neon è in primis un romanzo corale e una feroce critica alla provincia americana a cavallo del secondo conflitto mondiale: una società ripiegata su se stessa, razzista, classista, incapace di slanci vitali, conformista fino alla fobia del diverso. In questo contesto uno come David non può che soccombere. D'altronde, lui proviene da una famiglia modesta, a cui si aggiunge una donna scandalosa come la zia Mae. É un ragazzino immaginoso e solitario, che guarda il mondo da una prospettiva eccentrica rispetto al comune sentire, in una società che non accetta siffatte deviazioni.
Il romanzo può essere agevolmente diviso in due parti. La cesura è rappresentata dalla morte del padre in guerra, nella lontana Italia. Se nella prima parte predominano i toni ironici e soffusi, nella seconda c'è un vero e proprio climax drammatico, che culmina nel doloroso finale. La Bibbia al neon è un'opera che nelle prime pagine ti accarezza docilmente, per poi colpirti senza pietà come un pugno allo stomaco. Affrontata l'ultima riga, si rimane tramortiti. È giusto trattare così il lettore? Una risposta non c'è, ma una cosa è certa: questo è l'effetto della vera letteratura.

2 ottobre 2021

I giganti silenziosi del Monte Stella

Il Monte Stella (o della Stella) è un rilievo del Subappennino lucano che ha rivestito un ruolo centrale nella storia locale, sebbene non appartenga alla schiera dei giganti del Cilento, ossia il Cervati (1.899 m), il Panormo (1.742 m), il Faiatella (1.710 m) e il Gelbison (1.705 m). Nonostante la ridotta altezza di 1.131 metri, "la Stella" ha una centralità storico-antropologica che la rende più importante dei rilievi citati.

In primo luogo, va ricordato che l'area che si estende alle sue pendici corrisponde ai confini originari del Cilento, il cosiddetto "Cilento antico". Nei tempi passati, la regione era identificata con il territorio "al di qua del fiume Alento", dunque in prossimità del monte. Non è un caso che gli unici paesi a cui sia stato aggiunto nel nome il suffisso "Cilento" siano quelli che si trovano alle pendici o nelle vicinanze della Stella: Sessa, San Mango, Laureana, San Mauro, Prignano, Ogliastro, San Martino. Secondo alcune ricostruzioni storiche, sulla cima del monte sorgeva Petilia, mitica capitale della confederazione dei Lucani, circondata da mura megalitiche e inespugnabili di cui tuttora rimangono tracce. Secondo altri quei massi sarebbero i resti di una fortezza di epoca medioevale, nota come Castrum Cilenti; anche in questo caso ritorna il legame tra la montagna e l'area di riferimento.
Oggi la vetta è raggiungibile percorrendo a piedi numerosi sentieri, oppure seguendo una comoda strada asfaltata di sette chilometri che parte dall'abitato di Omignano. Arrivati in cima si gode un magnifico panorama che spazia dalla Piana del Sele a Capo Palinuro, nonostante la presenza di un'ingombrante base radar di proprietà Enav. Sulla vetta troneggia inoltre la chiesa della Madonna del Monte della Stella, una delle "sette sorelle" della tradizione locale, oggetto di secolare devozione.
Panorama dalla vetta
Tra i tanti punti di interesse storico-naturalistico del monte, segnalo un percorso breve, agevole e facilmente raggiungibile, che conduce a tre alberi di castagno millenari. I cosiddetti castagnoni cilentani sono dei veri e propri monumenti naturali. Sono tra i castagni più antichi d'Europa, in quanto la loro messa a dimora sarebbe avvenuta tra il V e il X secolo dopo Cristo, oltre mille anni fa. I tre giganti hanno una circonferenza alla base che va dai quindici ai ventuno metri; le parole e le fotografie danno un'idea, ma soltanto vedendoli dal vivo è possibile comprenderne davvero l'eccezionalità. La strada più agevole per raggiungerli è quella asfaltata che parte da Omignano e arriva sulla vetta; i castagnoni si trovano più o meno a metà del percorso, a circa tre chilometri dal centro abitato. L'imbocco del sentiero si trova presso un tornante ed è ben segnalato da un cartello in legno e da alcuni massi scolpiti che raffigurano la Madonna del Monte. Il sentiero è stretto ma facilmente percorribile e i tre castagnoni sono a breve distanza l'uno dall'altro, sulla sinistra. Come ho detto, le parole e le immagini non rendono l'idea di cosa significhi trovarsi di fronte a esseri viventi che hanno attraversato epoche e mutamenti storici, che erano lì ai tempi dei Longobardi e degli Angioini. Se i tronchi rugosi potessero parlare, potrebbero chiarirci tanti punti oscuri della storia cilentana, raccontarci del Castrum Cilenti, dei monaci basiliani e finanche dei briganti che cercavano rifugio nei boschi della Stella. Purtroppo questi giganti serbano gelosamente il loro silenzio e chiedono che venga rispettato, almeno per altri mille anni.
Ringrazio Irene Nigro per avermi accompagnato e per le fotografie. Le immagini sono liberamente utilizzabili, purché venga indicata la fonte.
Il tornante da cui parte il sentiero per i castagnoni
Il cippo all'imbocco del sentiero


Il primo castagno gigante


Il secondo castagnone



Particolare del tronco del terzo albero

22 settembre 2021

La riconciliazione è una conquista: "La seconda volta"

«Colpirne uno per educarne cento. Dove sono i cento che avete educato colpendo me?» 

La spietata analisi di una parentesi drammatica della storia italiana del Novecento è racchiusa nelle poche parole pronunciate dal professor Alberto Sajevo sul finale de La seconda volta, film del 1995 per la regia di Mimmo Calopresti. Sajevo (Nanni Moretti) è un professore universitario di Torino, vittima nel 1985 di un attentato brigatista. Il professore si è salvato, sebbene da quel giorno terribile sia costretto a vivere con un proiettile conficcato nel cranio, che per un soffio non l'ha ucciso. Durante una pausa pranzo riconosce per caso Lisa Venturi, una brigatista che ha partecipato al suo attentato. Lisa, interpretata da una eccellente Valeria Bruni Tedeschi, sta scontando una condanna a trent'anni di reclusione col beneficio della semilibertà: di giorno lavora per reinserirsi nella società e di sera torna in carcere. Per Sajevo l'incontro con la donna diventa un'ossessione: la segue, tenta di mettersi in contatto con lei, adotta quasi una strategia da corteggiatore. Il suo obiettivo non è però la vendetta: egli vuole capire, indagare le ragioni di tanto odio, comprendere per quale motivo volevano ammazzarlo senza neppure conoscerlo. 
La seconda volta è un film importante, anche se oggi quasi dimenticato. Mimmo Calopresti, all'epoca quarantenne, era al suo esordio in un lungometraggio; fino ad allora il regista calabrese si era dedicato ai documentari con tematiche sociali. Sulla scia dell'impegno civile, optò per una storia dura e divisiva, senza il timore di toccare col bisturi un nervo scoperto. Scelse come protagonisti Nanni Moretti, perfetto nei panni dello schivo professor Sajevo, e Valeria Bruni Tedeschi, autrice di un'intensa interpretazione fatta soprattutto di parole sommesse, sguardi e gesti. Il film vinse numerosi premi, tra cui il Ciak d'oro e ben cinque David di Donatello, oltre alla nomination per la Palma d'oro a Cannes.
Calopresti mette in campo un uomo dolente, Alberto Sajevo, che non accetta di essere una vittima del caso, vuole indagare le ragioni del suo sacrificio. E allora legge i libri degli ex brigatisti, tenta di assumere un atteggiamento il più possibile distaccato e obiettivo. Quando però ha modo di parlare con la sua carnefice, si rende conto che nessun dialogo è possibile. Bolla come “cazzate” le idee degli ex terroristi, li accusa di aver contribuito a costruire un mondo peggiore di quello che avrebbero voluto combattere. La Venturi non si scusa, non reagisce alle provocazioni, si chiude in un impenetrabile mutismo. Il tocco di Calopresti è morbido e intimo, nonostante la delicatezza della materia. Le inquadrature indugiano sui volti dei protagonisti, accentuandone l'impressione di persone sole e irresolute, destinate a portare, per il resto della vita, il peso di croci diverse ma complementari. 
La seconda volta è un film coraggioso, lo era venticinque anni fa e lo è tuttora. Del terrorismo si è scritto tanto, le biblioteche sono piene di analisi storiche, politiche e sociologiche; anche gli ex terroristi hanno scritto saggi e articoli, presenziato a eventi e conferenze, generando inevitabili polemiche. La ferita è ancora da rimarginare, venticinque anni fa era addirittura fresca. Il film di Calopresti si addentrava appunto in questo terreno scivoloso, nella piena consapevolezza che nessuna risposta definitiva potesse essere data. Ecco allora la giustificazione del finale aperto, che è il punto di forza del film. Gli sceneggiatori avrebbero potuto optare per un consolante e irreale lieto fine, condito dalla retorica del perdono e della riconciliazione. E invece scelsero di lasciare aperta ogni strada. Ne La seconda volta non viene affermato apertamente che la riconciliazione sia un'utopia, ma che nessuna pacificazione è possibile se non si è disposti a fare impietosamente i conti col passato e con i propri errori. La giustificata rabbia di Alberto è speculare al parziale pentimento di Lisa: due esseri umani a metà, irrisolti, destinati forse un giorno a incontrarsi di nuovo.

9 settembre 2021

"Scala a San Potito" di Luigi Incoronato: a cosa serve un intellettuale?

«Gli avvenimenti e i personaggi di questo romanzo sono immaginari. Nella realtà esiste solo la Scala a San Potito, dove negli anni 1944-47 abitarono esseri umani.»
Questa l'annotazione che Luigi Incoronato (1920-1967) inserì in calce al suo celebre romanzo Scala a San Potito, la cui prima edizione risale al 1950. La Scala che dà il titolo all'opera si trova a Napoli: «quattro o cinque rampe di gradini bassi di pietra scura», che nell'ultima fase del secondo conflitto mondiale accolsero un numero considerevole di sfollati. In tanti persero la casa sotto i bombardamenti alleati; chi non aveva parenti o altri luoghi dove andare, fu costretto a cercare riparo alla meno peggio, sotto i ponti, nelle tante gallerie che corrono sotto la città, in palazzi occupati. La Scala a San Potito fu uno dei luoghi che offrirono riparo a numerose famiglie durante la guerra e nei difficili anni successivi. Come è facile immaginare, alla Scala si viveva in condizioni di degrado morale e materiale, in pericolosa promiscuità negli angusti anditi sotto le rampe, dormendo distesi sui freddi e scomodi pianerottoli. Era una situazione oltre lo stesso concetto di miseria, un abbrutimento e un degrado cui erano costrette intere famiglie, anziani, donne e bambini. Di giorno gli uomini si muovevano alla ricerca di un lavoro, lasciando sempre qualcuno sui gradini a vigilare che altri disperati non usurpassero lo spazio. Perché alla Scala anche questo poteva accadere, che al degrado si aggiungesse lo squallore dei litigi per accaparrarsi un angolo coperto sopra un umido pianerottolo. Di sera la Scala si animava di uomini vestiti di stracci, alcuni adusi alla sempiterna povertà, altri immiseriti dalla guerra e dai bombardamenti.
Luigi Incoronato fu il cantore di questa umanità dispersa, delusa, senza voce né speranza. La parola “esseri umani”, utilizzata nell'annotazione, assume dunque un preciso significato politico, di pungolo alle coscienze. Com'è possibile, sembra dire lo scrittore, che nella civile Europa ci siano esseri umani costretti a vivere come bestie? Senza questo indimenticabile romanzo, forse nessuno oggi ricorderebbe una delle pagine più dolorose e amare della nostra storia recente.
Incoronato era napoletano solo d'adozione. Era nato a Montreal nel 1920, ma nelle sue vene scorreva sangue meridionale: il padre era originario di Ururi, in provincia di Campobasso. Militante comunista, entrò nella Resistenza e fu membro del Comitato di liberazione nazionale di Campobasso. Dopo la guerra si stabilì a Napoli, dove lavorò come insegnante e giornalista, fino al suicidio nel 1967. Come redattore e fondatore della rivista Le ragioni narrative, strinse una solida amicizia con altri intellettuali dell'area partenopea, tra i quali vale la pena ricordare Pomilio, Prisco, Rea e Compagnone.
Scala a San Potito è un vero e proprio caposaldo della letteratura d'impegno civile del Novecento e si inserisce in quella corrente meridionalistica che cercava di indagare le cause delle secolari problematiche del Mezzogiorno e di proporre soluzioni per la sua gente. La lotta per il riscatto delle genti del Sud diventa la spinta ideale e al contempo il tormento dell'intellettuale, la cui scrittura si fa azione politica. Incoronato, da giornalista qual era, avrebbe potuto scrivere un reportage da pubblicare su un quotidiano nazionale; scelse invece la forma del romanzo, utilizzando tuttavia un espediente narrativo. L'io narrante della vicenda è un giornalista che ogni sera all'imbrunire si reca alla Scala a San Potito per far conoscere all'opinione pubblica ciò che ivi accade. Col passare dei giorni, lo sguardo inizialmente distaccato del giornalista diventa partecipe, l'analisi sociologica cede il passo alla compassione ed egli tenta coi suoi poveri mezzi di aiutare i miserabili della Scala. L'esito è tuttavia infausto e non potrebbe essere diversamente: il crudo realismo vince, non c'è alcuna speranza per un'umanità misera e diseredata. Cosa può fare allora l'intellettuale? La risposta è amara: nulla. Non a caso l'ultimo racconto di Incoronato si intitolava proprio A che serve uno scrittore? L'intellettuale comunista impersonato dal giornalista tenta di indagare le cause, di risvegliare le coscienze e persino di aiutare, ma deve arrendersi di fronte all'evidenza dei fatti. Egli parla un linguaggio diverso rispetto alla gente della Scala; la sua condizione di uomo di cultura lo rende un alieno e neppure la sua ideologia politica può offrire soluzioni che non siano un temporaneo palliativo. E persino quando resta senza lavoro, gli abitanti della Scala non lo considerano uno di loro: egli sa leggere, scrivere, ha amicizie influenti, prima o poi un lavoro lo troverà. Nel romanzo di Incoronato si scontrano allora impegno civile e evidenza del reale, spinte progressiste e drammatiche involuzioni. Alla fine, purtroppo, saranno queste ultime ad avere il sopravvento. Pessimismo e disillusione sono i marchi della poetica di Incoronato, che lo rendono diverso e critico rispetto ad altri intellettuali con cui pure condivideva il medesimo sostrato ideologico.
Vorrei aggiungere una notazione sullo stile. In Scala a San Potito prevalgono i dialoghi brevi, secchi, diretti. A differenza di altre opere dello stesso genere, Incoronato non usò il dialetto, quasi a voler attribuire al racconto una valenza universale, perché i poveri della Scala napoletana sono il simbolo di tutti i derelitti del mondo.
Ristampa 1988 - Tullio Pironti Editore

28 agosto 2021

Percorsi cilentani: la Preta Perciata e il punto panoramico Postiglione

Il percorso “Magliano Nuovo – Postiglione” è uno dei più suggestivi itinerari naturalistici del Parco Nazionale del Cilento. Parte da Magliano Nuovo, frazione di Magliano Vetere, casale arditamente aggrappato a una cresta rocciosa, teatro nel 1863 di uno degli episodi più drammatici della storia locale, ossia lo scontro tra i legittimisti guidati dall'avvocato/brigante Giuseppe Tardio e le truppe unitarie e della Guardia nazionale. Il sentiero termina alle Gole del Calore, altro gioiello naturalistico situato nel territorio comunale di Felitto.

Il percorso è suddiviso in quattro tratti, di lunghezza e difficoltà variabili. Il primo va dal paese di Magliano al passo di Preta Perciata, il secondo arriva fino al punto panoramico detto Postiglione, il terzo giunge al ponte medievale di Magliano e l'ultimo si conclude alle Gole del Calore. Per ragioni di tempo ho potuto percorrere solo i primi due tratti, che presentano alcuni punti di sicuro interesse naturalistico: il valico della Preta Perciata e l'area panoramica del Postiglione.

In cilentano “preta perciata” significa “pietra bucata”, toponimo che potrebbe avere due differenti origini. In primis, il nome deriverebbe dal fatto che il passo è scavato nella roccia e che anticamente si trattava di un breve tunnel, fino all'epoca in cui la copertura di pietra è stata rimossa per favorire la moderna viabilità veicolare. In alternativa, il toponimo potrebbe essere un riferimento dialettale all'adiacente piccola grotta, per l'appunto una “roccia bucata”. La cavità è visitabile ed è possibile sostare su uno spiazzo con area ristoro da cui si gode una splendida vista; il valico infatti separa le valli di due importanti fiumi cilentani, il Calore Salernitano e il nobile Alento (come lo definì Cicerone).
Il passo della Preta Perciata

La grotta
L'area di ristoro adiacente al passo

Dal passo ha inizio la seconda parte del percorso, immerso in una natura rigogliosa e selvaggia. Per i primi duecento metri il sentiero è pavimentato in pietra, poi diventa sterrato. Si arriva quindi a un primo bivio. Svoltando a sinistra si va verso il punto panoramico del Postiglione, mentre a destra si entra in un bosco di castagni e si intraprende il lungo itinerario in discesa che porta al ponte medievale e infine alle Gole del Calore.
Come dicevo, ho optato per il punto panoramico, svoltando a sinistra. Subito dopo il bivio c'è un rifugio in legno, con la porta aperta, che offre ricetto agli escursionisti. Superata la costruzione, il sentiero si restringe e si entra nella macchia. Da questo punto la stradina prosegue sotto l'ombra degli alberi ad alto fusto. Il percorso è abbellito da alcune teste scolpite in pietra ed è segnalato da provvidenziali staccionate, che oltre a offrire un sostegno nei punti più impervi, servono anche a delimitare il sentiero, azzerando il rischio di smarrirsi. Dopo una discesa di mezz'ora circa, si arriva al punto panoramico Postiglione, che conclude questo tratto dell'itinerario. Per chi volesse proseguire verso il ponte medievale, l'unica soluzione è quella di risalire e tornare al bivio. L'area panoramica ha la forma di un vasto emiciclo irregolare sgombro di vegetazione; vi sono alcuni spalti in legno dove è possibile sedersi e riposare. Il panorama che si gode dalla terrazza abbraccia la valle del Calore, le montagne intorno, i crinali boscosi e i centri abitati del Cilento interno. La spettacolare visuale spazia dal cielo al fondovalle, dove scroscia il placido fiume Calore.
Ringrazio Sara Nigro per le fotografie.
Particolare del sentiero verso il punto panoramico
Il punto panoramico Postiglione
Particolare del panorama