22 settembre 2022

Que viva, que viva, el bandido Litfiba!

Finora sul blog avevo parlato dei Litfiba in un'unica occasione. La ragione è presto detta: sulla band fiorentina è stato detto tutto, si sono espresse così tante voci che non potrei aggiungere nulla di nuovo o di utile al dibattito. Poi è maturata un'idea legata a un personalissimo anniversario: sono passati esattamente venticinque anni dal giorno in cui acquistai il mio primo disco. Nel settembre del 1997 comprai la musicassetta di Mondi sommersi, dopo aver visto a ripetizione il videoclip di Goccia a goccia su Videomusic e MTV. Ho consumato quel nastro con un vecchio walkman Philips e un altrettanto obsoleto mangianastri Panasonic, finché un giorno fatale si è spezzato con mia somma disperazione. Ventisettemila lire mi sembravano un'enormità e rinunciai a ricomprarlo, anche perché nel frattempo stavo recuperando i precedenti album dei Litfiba, avvicinandomi contemporaneamente ad altri gruppi che in quegli anni portavano alta la bandiera del rock italiano, come Marlene Kuntz, C.S.I. e Bluvertigo.
In occasione di questo anniversario, e in previsione dell'annunciato definitivo scioglimento della band, ho deciso di fare una personale classifica dei loro album in studio. Sono esclusi da questo elenco i live (come lo splendido 12.5.87: aprite i vostri occhi), le colonne sonore (Eneide), le raccolte, gli EP e i tre dischi senza Piero Pelù (con Cabo alla voce). Ovviamente è una classifica personale, un gioco che non ha nessuna pretesa di verità o esaustività. Mi piacerebbe però conoscere il vostro parere nei commenti.

10. Grande nazione (2012). È stato il disco del ritorno dopo il primo scioglimento del 1999 e la parentesi con Cabo alla voce. Inevitabilmente era circondato da grandi attese, ma è sempre sbagliato aspettarsi miracoli da artisti che hanno già dato tantissimo alla musica. Nessuna divagazione pop, solo buon rock fatto con tanto mestiere: le migliori tracce sono Elettrica e Tra te e me. A mio modesto avviso non è invece all'altezza Squalo, pezzo lanciato come singolo radiofonico.

9. Eutòpia (2016). Probabilmente resterà l'ultimo album in studio a marchio Litfiba. Grafica di copertina e libretto interno in stile cyberpunk, dieci pezzi piacevoli tra cui spiccano Oltre, Maria coraggio e Straniero. L'impossibile è invece un singolo trascinante che ricorda i vecchi tempi. Secondo me potrebbe essere considerato il seguito ideale del discorso interrotto con Mondi sommersi.

8. Mondi sommersi (1997). Il disco che ha fatto nascere la mia passione, tuttavia non uno dei miei preferiti. Si caratterizza per un tocco elettronico che mancava nei lavori precedenti; ne risulta un muro di suono pieno, corposo, eppure meno duro rispetto al passato. Ci sono dentro canzoni che hanno ottenuto ottimo riscontro radiofonico, ma sono Dottor M., Si può e soprattutto Sparami a valere da sole il prezzo del biglietto.

7. Infinito (1999). Sono molto legato a questo album, perché è il primo di cui attesi con ansia l'uscita, precipitandomi al negozio di dischi già il primo giorno di vendita. Ascoltarlo fu uno shock: era un disco di pop-rock, così diverso dai precedenti. Alcuni fan di vecchia data gridarono al tradimento, soprattutto per il successo radiofonico de Il mio corpo che cambia. Si disse che i Litfiba erano diventati "commerciali", accusa che negli anni Novanta poteva costarti una buona fetta di pubblico cosiddetto "alternativo". Anche le recensioni dei critici di professione non furono lusinghiere. Lo ascoltai qualche volta e poi lo chiusi in un cassetto. A distanza di oltre vent'anni l'ho rivalutato e oggi lo ascolto spesso. Infinito va letto come una parentesi nella storia della band, quasi una sperimentazione. Anzi, a dirla tutta, è un ottimo disco di pop-rock. Prendi in mano i tuoi anni, I nuovi rampanti, Vivere il mio tempo e Incantesimo sono gioielli che si fanno apprezzare alla distanza.

6. El diablo (1990). Album di transizione, l'inizio della cosiddetta Tetralogia degli elementi, il primo dopo la dissoluzione della formazione originaria a causa della fuoriuscita di Maroccolo e della morte di Ringo De Palma. È il disco che inaugura gli anni Novanta e infatti non c'è più traccia del sound del decennio precedente; anche il modo di cantare di Pelù diventa più personale e perde quell'aura new wave della Trilogia del potere. Dentro ci sono veri e propri inni come Proibito, Gioconda e Woda woda. Tuttavia si avverte una malinconia di fondo in brani come Il volo e Ragazzo.

5. Litfiba 3 (1988). Nella sua autobiografia intitolata Perfetto difettoso, Piero Pelù non parla bene del suono di questo disco, registrato in digitale a sedici bit quando questa tecnica era ancora agli albori. Lo possiedo sia in cd che in LP e devo dire che il vinile suona decisamente meglio, nonostante la registrazione in digitale. Litfiba 3 segna un primo, parziale cambio di passo, che si accentuerà nel live Pirata del 1989. Il gruppo abbandona le atmosfere dei primi due lavori per abbracciare un discorso politico e di impegno civile. Straordinarie Santiago, Louisiana e Tex, quest'ultima col basso di Maroccolo in evidenza. Il vero capolavoro è secondo me Paname, un carnevale in musica in cui è evidente la commistione tra lingue e generi diversi, marchio di fabbrica dei primi Litfiba.

4. Terremoto (1993). Il disco più duro, politico e arrabbiato. Ci sono feroci strali contro i poteri forti, attacchi diretti alla mafia, al Vaticano, allo Stato italiano, all'ipocrisia della società, al consumismo, alla guerra. Senza dubbio, è l'album che ha contribuito a definire l'immagine dei Litfiba come vere e proprie rockstar, cosa che fino a quel momento in Italia era mancata. Per la prima volta si sentono di meno le tastiere di Aiazzi, mentre le chitarre di Ghigo Renzulli e Poggipollini diventano le assolute protagoniste. Disco comunque variegato: c'è spazio sia per l'impegno civile (Prima guardia, Dimmi il nome) che per l'ironia pungente (Firenze sogna, Il mistero di Giulia, Soldi).

3. Desaparecido (1985). Uscito un anno dopo Siberia dei Diaframma, è stato il primo vero banco di prova alla lunga distanza. Esame decisamente superato, perché ad ascoltarlo attentamente sembra opera di un gruppo con molta più esperienza. D'altronde, erano già cinque anni che giravano l'Italia e mezza Europa in tour, per cui l'affiatamento era perfetto. È l'inizio di un grande percorso nonché l'apripista della Trilogia del potere, considerata la loro fase più creativa. Eroi nel vento, Tziganata, Istanbul e La preda sono brani immortali, che vanno oltre il concetto di new wave a cui il gruppo è stato associato in questa prima fase. In realtà i Litfiba portavano avanti un discorso personalissimo, che prendeva spunto dalle mode provenienti da terra d'Albione, rielaborate però secondo una sensibilità tutta mediterranea.

2. Spirito (1994). Metterlo sul podio è davvero una scelta personalissima, che immagino non sarà condivisa da molti lettori. Eppure, secondo il mio modesto parere, Spirito è un disco piacevolissimo dall'inizio alla fine, armonioso, fantasioso, ricco di spunti interessanti. Per quanto possa sembrare un'affermazione eretica, è un album che mette di buonumore. Dopo l'impegno civile di Litfiba 3 e gli attacchi a testa bassa di Terremoto, Pelù & soci decisero di invertire la rotta: Spirito parla di amore, conflitti interiori, viaggi immaginari, "diavoli illusi di possedere il male". Animale di zona, Lo spettacolo e No frontiere i pezzi migliori.

1. 17 re (1986). Vincitore per distacco. Album doppio, sedici tracce, una più bella dell'altra. Il vertice della nostra new wave assieme a Siberia dei Diaframma. Uno dei più grandi dischi di rock cantato in italiano, se non addirittura il migliore. Imprescindibile, obbligatorio possederlo. La band in stato di grazia: la teatralità del canto di Piero, il basso pigliatutto di Maroccolo, gli inconfondibili fraseggi esotici delle tastiere di Aiazzi, la precisa sezione ritmica di Ringo e la chitarra dalle tinte wave di Ghigo. Impossibile dire quali siano i pezzi migliori, bisognerebbe citarli tutti. L'incipit di Resta è una bomba, la conclusione di Ferito è un colpo al cuore. E ancora, Re del silenzio, Pierrot e la luna, Vendette, Gira nel mio cerchio, Apapaia, Univers. Con questo lavoro i Litfiba hanno elaborato una personalissima miscela di new wave d'Oltremanica, ritmi mediterranei e balcanici, post-punk e cantautorato all'italiana. Irripetibile.
Il mio podio: 17 re, Spirito e Desaparecido

9 settembre 2022

"Conservatorio di Santa Teresa" di Romano Bilenchi: i turbamenti del giovane Sergio

In un'autorevole recensione di Chiamalo sonno di Henry Roth che ho letto tempo fa, l'articolista sosteneva che nella nostra letteratura non se ne rinverrebbe un equivalente, ossia un romanzo narrato così puntualmente attraverso gli occhi di un bambino. In verità tale romanzo esiste, è stato pubblicato nel 1940 ed è considerato il capolavoro di Romano Bilenchi, scrittore e giornalista senese nato nel 1909 e morto nel 1989. Conservatorio di Santa Teresa non è semplicemente un libro sull'infanzia: è prima di tutto una grande prova narrativa. Bilenchi si è calato con delicatezza e maestria nella mente del suo protagonista bambino, sviscerandone pensieri, punti di vista ed emozioni.
La vicenda è ambientata in un territorio caro a Bilenchi e che egli conosceva bene: la zona brulla e collinare delle Crete senesi. In questo fazzoletto di terra, in un'antica magione detta semplicemente "la villa", il piccolo Sergio vive assieme ai genitori, alla nonna e all'amata zia Vera. La nonna Giovanna è una donna saldamente ottocentesca che cerca vanamente di imporre la sua autorità sul figlio Bruno, padre di Sergio. Bruno è un impulsivo, un socialista convinto di appartenere a un'umanità eletta che muterà le sorti del mondo. E invece anche lui è costretto a scendere nelle trincee del primo conflitto mondiale, da cui uscirà irrimediabilmente cambiato. La nonna e il padre sono per Sergio i due poli di un conflitto ideologico che egli subisce senza comprenderne fino in fondo le ragioni. I due fari luminosi della sua esistenza sono invece la madre Marta e la zia Vera, dispensatrici di un amore totalizzante, a tratti soffocante. Sono proprio loro a iscrivere Sergio al Conservatorio di Santa Teresa, convitto e scuola privata tra i più rinomati della provincia.
L'ingresso nella scuola è l'evento che segna il passaggio di Sergio dall'inconsapevole infanzia all'età delle prime delusioni e responsabilità. Il Conservatorio di Santa Teresa è la capitale di un microcosmo che riflette virtù, piccolezze ed egoismi della società di fuori. Sergio è inizialmente affascinato da questo luogo, da lui identificato come un simbolo di rigore e purezza; quando però comprende che persino la scuola è uno specchio del mondo, inizia un'operazione mentale di distruzione e distacco. Il lettore segue passo dopo passo la crescita di Sergio e la sua acquisizione di consapevolezza, come nei più classici romanzi di formazione.
Sergio si impone come una delle figure infantili meglio tratteggiate della nostra letteratura. È un bimbo buono, immaginoso, ansioso, dotato di una sensibilità spiccata che si accende in slanci romantici. È naturalmente portato all'introspezione, a chiudersi in sé per osservare con occhio critico la realtà e mutarla nella fantasia secondo i propri intendimenti. Sergio presta grande attenzione ai particolari del mondo intorno e sa perdersi nella beatitudine della natura che circonda la villa. Bilenchi non nasconde tuttavia i difetti del suo protagonista, spinto a volte da una fanciullesca ostinazione che lo porta a eccedere nel suo intransigente rigore morale. In ciò assomiglia ad Agostino, il protagonista dell'omonimo romanzo di Moravia, egualmente ossessionato dal pensiero che qualche uomo potesse insidiare la madre. Sergio è sconvolto dalla esuberante femminilità della madre e della zia, arrivando così ad attuare forme più o meno consapevoli di boicottaggio nei confronti delle due donne. Le pagine più intense del romanzo sono proprio quelle dedicate al conflittuale rapporto del ragazzino con l'altro sesso e più in generale con la sensualità. Qui si esalta la capacità introspettiva dell'autore, la totale identificazione del narratore onnisciente con il protagonista bambino.
Spesso si esagera nel parlare di libri e autori "da riscoprire". Ebbene, non è questo il caso. Conservatorio di Santa Teresa è davvero un grande libro che negli anni ha acquisito la dignità di un classico. Ciononostante, quando si parla di pietre miliari della nostra letteratura del Novecento, non di rado viene colpevolmente ignorato.