28 maggio 2022

"La Cripta dei Cappuccini" di Joseph Roth: cronache da un mondo dissolto

La Cripta dei Cappuccini (1938) è indubbiamente uno dei più significativi romanzi del XX secolo, uno straordinario compendio delle nevrosi e del senso di smarrimento dell'uomo del Novecento. Allargando il discorso, il libro è il nostalgico e partecipato resoconto della fine di un'epoca irripetibile, l'impietoso racconto della dissoluzione di un antichissimo sistema sociale.
La storia si svolge al crepuscolo dell'Impero austro-ungarico, negli anni a cavallo della Prima guerra mondiale. La guerra, più evocata che narrata, assume nel romanzo il ruolo centrale di spartiacque tra due epoche e due mondi, tra la spensieratezza della Belle Époque e la depressione socio-economica che segue al conflitto. Protagonista e io narrante è Francesco Ferdinando Trotta, ultimo discendente di una famiglia aristocratica slovena, fedelissima alla casata degli Asburgo. Vive a Vienna, dove conduce un'esistenza spensierata, oziosa, gaudente e senza responsabilità. Anche i suoi migliori amici appartengono alla potente nobiltà dell'Impero; non avendo necessità di lavorare, sperperano tempo e denaro nei caffè e nelle osterie. Sono giovani vagamente anarchici, classisti, miscredenti fino al midollo, insofferenti alle regole del buon costume e al buon senso borghese, intolleranti persino nei confronti dell'amore.
Le giornate di Francesco Ferdinando trascorrono all'apparenza serene e senza pensieri, uguali a quelle dei suoi coetanei. Tuttavia, egli possiede una consapevolezza profonda della realtà che lo circonda. A differenza dei suoi amici, non disprezza gli umili e anzi ama circondarsi di persone appartenenti alle classi meno abbienti, come il cugino Branco, caldarrostaio ambulante. Soprattutto, egli sente che il mondo in cui è nato e cresciuto è moribondo, destinato a dissolversi a causa di drammatici cambiamenti che si profilano all'orizzonte.
«Allora non sapevamo che la morte stava già incrociando le sue mani ossute sopra i calici da cui bevevamo.»
La morte è una presenza ricorrente e inquietante che attraversa dall'inizio alla fine le pagine del romanzo. Il suo soffio freddo spazza le strade di Vienna, si insinua nei caffè e nei postriboli dove gli ultimi discendenti dell'Impero cercano un alito di vita, bussa alle porte scrostate dei nobili in declino e dei lacchè del sovrano. La grandezza di Roth sta proprio nella magistrale descrizione di un mondo in declino, il fragile Impero austro-ungarico dei mille popoli in eterna contrapposizione. L'unico a non provare timore è proprio Francesco Ferdinando Trotta, che anzi invoca la morte come una liberazione; il suo è cupio dissolvi, il desiderio di scomparire assieme alla decrepita società asburgica. Per questo, pur scevro di condizionamenti politici, accoglie la guerra con sollievo.
«A quell'epoca non sapevamo più se agognavamo la morte o ci auguravamo la vita. In ogni caso, per me e per quelli come me, furono le ore della massima tensione vitale: quelle ore in cui la morte non ci appariva come un abisso in cui un giorno si precipita, bensì come la riva opposta che si cerca di raggiungere con un balzo.»
E invece egli fallisce persino nell'obiettivo di farsi ammazzare. Fatto prigioniero dai russi, torna vivo e vegeto a Vienna dopo quattro anni e immediatamente ha la drammatica consapevolezza che tutto è cambiato in peggio. Proprio lui che avrebbe preferito morire piuttosto che assistere alla fine di un'epoca aurea, si ritrova a essere l'impotente spettatore del disastro.
«Ogni mattina quando aprivamo gli occhi, ogni notte quando ci mettevamo a dormire imprecavamo alla morte che invano ci aveva attirato alla sua festa grandiosa. E ognuno di noi invidiava i caduti. Riposavano sottoterra e la primavera ventura dalle loro ossa sarebbero nate le violette.»
La Cripta dei Cappuccini si è guadagnato a ragione la palma di classico moderno. È un'opera grandiosa, eppure non sufficientemente ricordata e celebrata. Pochi autori come Joseph Roth hanno saputo descrivere la fine di un'epoca con tanta cinica lucidità e al tempo stesso con sentita partecipazione. Una lettura che non può mancare in un'ideale biblioteca del Novecento.

16 maggio 2022

Questione di cover...

Qualche giorno fa in un programma radiofonico si discuteva su quali fossero le migliori cover di canzoni italiane e straniere. Senza alcuna pretesa di esaustività e seguendo i miei gusti personali, anche io ho fatto una selezione, che riporto in rigoroso ordine alfabetico per artista. Chi volesse ascoltarle, può fare un salto su YouTube.


Affinity – All along the watchtower. Come si può incidere una nuova versione di un brano di Bob Dylan, quando è stato già reinterpretato da Jimi Hendrix? In pochi avrebbero accettato la sfida di confrontarsi con due mostri sacri, eppure gli Affinity ci hanno messo la faccia. Si tratta di una delle formazioni più esoteriche della scena inglese dei primi anni Settanta, un quintetto prodigioso che proponeva un jazz-rock colto, contaminato da venature progressive. La loro versione di All along the watchtower è una cavalcata elettrica di oltre undici minuti, nove in più rispetto all'originale. Tutto è magico: la voce eterea di Linda Hoyle, la precisa sezione ritmica, le divagazioni alla tastiera di Lynton Naiff. In parole povere, un viaggio d'altri tempi.

Blondie – Hanging on the telephone. Uno di quei casi in cui la cover è più famosa dell'originale. In pochi conoscevano i Nerves, seminale band losangelina a cavallo tra la psichedelia e il punk. Pertanto, Hanging on the telephone era passata quasi sottotraccia, finché non fu ripresa da Debbie Harry e soci, che la trasformarono in una sorprendente hit.

Buffalo Tom – Age of consent. Il gruppo guidato da Bill Janovitz ha attraversato in punta di piedi e senza grandi clamori la stagione del grunge e del rock alternativo dei primi anni Novanta, producendo una manciata di ottimi album. Sebbene il loro sound sia distante anni luce dall'algida wave a marchio New Order, hanno deciso di cimentarsi in una cover di Age of consent. Nella sua versione originaria, il pezzo viaggia su tonalità synth-wave, col basso di Peter Hook a reggere le fila. I Buffalo Tom l'hanno rivisitato completamente, trasformandolo in una ballata acustica e introspettiva impreziosita dalla voce “sporca” di Bill Janovitz. Da brividi.

Andrea Chimenti – Vorrei incontrarti. Una delle canzoni più ispirate degli ultimi cinquant'anni interpretata dalla migliore voce della new wave italiana. Andrea Chimenti omaggia l'Alan Sorrenti “progressivo” degli esordi con un arrangiamento in chiave rock. Meraviglioso il videoclip, in cui Chimenti mostra i suoi mille volti.

Consorzio Suonatori Indipendenti – E ti vengo a cercare. Ogni volta che si ascolta una cover viene da chiedersi se sia migliore dell'originale. Quando però il pezzo è di Battiato, è un'eresia persino porsi la domanda. Eppure i C.S.I. ci sono riusciti, e viene da dire che solo loro potevano realizzare l'impresa. E ti vengo a cercare è una potentissima gemma incastonata in quell'album epocale che è Linea gotica. Il Consorzio rivisita a modo suo la canzone di Battiato, la rende solenne grazie al canto salmodiante di Giovanni Lindo Ferretti e al controcanto di Ginevra Di Marco. E nel finale, a suggellare il capolavoro, compare persino Battiato, che presta la sua voce nel verso conclusivo.

Marlene Kuntz – Impressioni di settembre. Ci sono opinioni contrastanti su questa cover. C'è chi la ama e chi giudica inarrivabile l'originale e quasi un sacrilegio ogni tentativo di un diverso arrangiamento. C'è chi ritiene migliore la versione di Battiato e chi trova quella dei Marlene Kuntz troppo simile all'originale, quasi non fosse una vera e propria cover. Eppure, ad ascoltarla bene, sembra cucita addosso a Godano & co., come se fosse stata scritta per loro.

Miura – Il cielo in una stanza. È una delle canzoni italiane più celebri, oggetto di innumerevoli rivisitazioni. La versione dei Miura, tratta dal secondo album Croci, è forse la più originale. Il gruppo guidato da Diego Galeri e Illorca ne fa una sorprendente rielaborazione dalle tinte hard rock. Terminato l'ascolto, si rimane stupefatti e quasi increduli delle potenzialità nascoste del capolavoro di Gino Paoli.

Neon – Burning of the midnight lamp. I Neon sono uno dei (pochi) grandi nomi della dark-wave italiana. Il loro album Rituals è un caposaldo del genere, grazie anche ai richiami alla scena elettronica anglosassone. Tutti i brani sono originali, eccezion fatta per questa cover di Jimi Hendrix. Stavolta siamo di fronte a una vera e propria riscrittura secondo i canoni di una electro-wave fruibile eppure avanguardistica. È come rileggere Hendrix attraverso un filtro di sintetizzatori e drum machine: un'esperienza straniante ma di sicuro fascino.

Ronnie Spector e Joey Ramone – You can't put your arms round a memory. Impossibile fare meglio dell'originale: è una delle canzoni più ispirate che siano mai state scritte, perché c'è dentro tutto il dolore e il male di vivere dell'anima tormentata di Johnny Thunders. Ci vuole rispetto per reinterpretare un brano così, bisogna avvicinarsi con umiltà, in punta di piedi. Ronnie Spector realizza l'impensabile grazie al vibrato tellurico della sua voce, che riveste ogni parola di una potenza nuova. Commovente il cameo finale di Joey Ramone. Per me è la migliore cover in circolazione. Ascoltatela qui.

Johnny Thunders – As tears go by. John Anthony Genzale è conosciuto prevalentemente come l'antesignano del punk, prima con le New York Dolls e poi con i compagni di eccessi degli Heartbreakers. Eppure lui era molto di più, un'anima fragile e sensibile che si illuminava negli arrangiamenti semplici voce e chitarra, come nello splendido album Hurt me del 1984. C'è però una canzone, una cover per l'appunto, in cui più che altrove viene fuori la sua sensibilità unica: As tears go by dei Rolling Stones. Thunders non si limita a rivisitarla, il suo non è né un omaggio né un compitino eseguito bene. Johnny prende il brano e se lo cuce addosso, ci butta dentro il suo travaglio e il dolore di una vita vissuta senza compromessi. Qui siamo oltre la cover, è come se questo pezzo non fosse mai esistito prima che Johnny ci mettesse le mani sopra. L'esecuzione è commovente, perfetta nella sua imperfezione.

Eddie Vedder – Girl from the north country. Registrata in occasione del tour in solitaria del 2008, è una cover intima e personalissima. Il merito di Vedder sta nell'essere rimasto fedele alla versione originaria, arricchendola però della sua inconfondibile voce. Il risultato è stupefacente: la poesia di Bob Dylan brilla di una nuova luce.

The Voidoids – Walk on the water. L'originale dei Creedence Clearwater Revival non mi ha mai entusiasmato, è come se il vero potenziale della canzone non venisse fuori. La versione di Richard Hell e dei suoi Voidoids è invece semplicemente spaziale. Il testo parla di un tizio che di notte va a fare una passeggiata in riva al fiume e vede un uomo camminare sulle acque e venirgli incontro. Al di là dei possibili simbolismi religiosi o esoterici, sono parole visionarie e inquietanti, che solo le chitarre lancinanti di Quine e Julian e la voce sgraziata di Hell hanno saputo rendere al meglio.
Ronnie Spector: è sua la migliore cover

4 maggio 2022

"Donna al piano" di Bernard MacLaverty: un manifesto sul potere salvifico della musica

Lo scrittore nordirlandese Bernard MacLaverty non ha raggiunto una grande popolarità in Italia, sebbene i suoi romanzi brillino per capacità introspettiva e profondità di analisi su argomenti spinosi. Ciò in parte è dipeso dallo scarso interesse mostrato dalla nostra opinione pubblica verso i cosiddetti Troubles, come viene chiamato in gergo il conflitto combattuto in Irlanda del Nord tra il 1969 e il 1998. I romanzi che affrontano il conflitto dell'Ulster non hanno mai avuto grande seguito in Italia, sebbene si tratti di vicende solo all'apparenza lontane. 
D'altro canto, MacLaverty sconta il fatto di non essere uno scrittore molto prolifico: quattro romanzi appena e una manciata di raccolte di racconti. Esordì con Lamb (1980), seguito da Cal (1983) e da un lungo periodo di silenzio editoriale, interrotto nel 1997 con la pubblicazione di Donna al piano, edito in Italia da Guanda. Si tratta di un romanzo profondo e finanche "difficile", una storia amara attraversata da un dolore strisciante che fuoriesce quasi dalle pagine, insinuandosi nell'animo del lettore. MacLaverty racconta l'inquietudine, il male di vivere, l'innominato dolore esistenziale. Lo fa attraverso una vicenda minima e claustrofobica che si dipana quasi integralmente nella mente della protagonista. Lei è Catherine McKenna, una compositrice originaria dell'area di Belfast, trasferitasi a Glasgow per affinare la sua preparazione musicale. Più che un trasferimento, la sua è stata una fuga dalle convenzioni sociali, dalla mentalità ristretta dell'Ulster e dalle spire di un cattolicesimo opprimente incarnato dai genitori, con cui ha infine tagliato i contatti. Il romanzo si apre con il ritorno di Catherine a casa, in occasione della morte del padre. Nella città natale nulla o quasi è cambiato: Belfast è ancora divisa in fazioni e la sua famiglia è una gabbia forse addirittura più soffocante. Quando Catherine svela alla madre di aver partorito da poco una bambina, la frattura diventa un abisso. Si apre così la seconda parte del romanzo, che ripercorre le vicende che precedono il ritorno a Belfast. 
MacLaverty fa uso di una particolare struttura narrativa: il tempo del romanzo non segue l'ordinario andamento cronologico, insegue piuttosto il flusso incoerente dei pensieri di Catherine. Ogni tanto emergono flashbacks, ricordi di quando era ancora bambina ma già sentiva i prodromi dei pensieri ossessivi e colpevoli. Passato e presente si inseguono e si alternano, il tempo si capovolge e si riavvolge senza una regola unitaria. Anche le due parti simmetriche di cui si compone il libro seguono un ritmo inverso: la prima parte narra eventi successivi alla seconda, mentre il finale si ricongiunge idealmente alle pagine iniziali. È in questo continuo gioco di rimandi che sta l'abilità del grande narratore; MacLaverty non si fa sopraffare dal meccanismo, che anzi conduce magistralmente, aggiungendo a ogni pagina nuovi pezzi che si vanno a incastrare nella complessiva tessitura del romanzo.
Ho già accennato alla grande capacità di approfondimento psicologico dell'autore. In effetti la sua penna scava nella psiche della protagonista, mettendo in luce paure, ossessioni e pensieri che Catherine fatica persino a riconoscere come propri. Donna al piano è un romanzo sulla depressione, anzi su quella forma estrema e devastante di depressione che colpisce alcune madri dopo il parto. É come un pugno nello stomaco, la stessa sensazione che si prova leggendo Cal, l'altro bel romanzo di MacLaverty. Diverse sono però le ragioni. Cal è un atroce resoconto dei Troubles, dell'odio feroce che in Irlanda del Nord ha visto contrapporsi cattolici e protestanti. In Donna al piano, invece, la vicenda politica è solo una cornice: le bombe ci sono, ma sembrano più che altro uno sbiadito ricordo del passato. Il dolore di Catherine non ha nulla a che vedere col dramma collettivo di un'intera nazione: è strettamente personale, è il pozzo nero della disperazione in cui può cadere una donna dopo aver partorito. Anche in questo romanzo c'è dunque una guerra, non meno dolorosa: è la lotta di una giovane madre contro i pensieri ossessivi e ansiosi che le avviluppano l'anima come un rampicante. È come se Catherine avesse interiorizzato le contraddizioni, i conflitti e la confusione della sua terra martoriata.
Al tempo stesso, Donna al piano è un manifesto sul potere salvifico della musica. Sono arrivato alla conclusione di questa recensione e mi sorprendo di non averne ancora parlato. La musica è per Catherine l'altra forza dirompente della sua vita, stavolta positiva e creatrice. E sarà proprio la musica a salvarla infine, insegnandole che la mente umana non è solo una forza distruttiva, ma ha in sé un potere immenso, quello di saper creare armonia e bellezza.