26 luglio 2023

"Too close to the fire", l'album italiano di Lee Fardon

Nella fiera delle banalità non può mancare l'affermazione tranchant secondo cui nella vita conta più la fortuna che il talento, oppure che l'intraprendenza e la faccia tosta fanno più del genio. Amenità che andrebbero evitate, eppure quando si parla di artisti come Lee Fardon è impossibile sfuggirne. Di Lee ho già scritto tanti anni fa e l'ho anche contattato per una bella e sincera intervista. L'acquisto di Too close to the fire, il suo quarto disco pubblicato nel 1992, è l'occasione per parlarne di nuovo.
Chitarrista e cantante londinese, nel 1980 diede alle stampe Stories of adventure assieme ai fidi Legionaries, album dal sapore marcatamente rock, cui seguì l'ottimo The God given right, dalle tinte wave. Il successivo The savage art of love (1985), stampato anche in Italia dalla Ricordi, chiuse la sua prima stagione con un pop-rock d'autore. Da quel momento di Fardon si persero un po' le tracce: il grande successo non era arrivato, nonostante le buone recensioni sulle riviste di settore e un discreto seguito anche fuori dalla Gran Bretagna, Italia in testa. Vicissitudini varie e periodi trascorsi all'estero lo tennero lontano dalle sale di registrazione, mentre nel frattempo gli anni Ottanta finivano seppelliti dallo shoegaze, dal grunge, dal britpop.
Quando nel 1992 varcò le soglie del "Room with a view Studio", Lee aveva quasi quarant'anni e una manciata di ottime canzoni in tasca. Le incise con un gruppo di fedelissimi musicisti: Mick Cox alle chitarre, Chris Childs (oggi coi Thunder) al basso, Steve Smith alle tastiere e Paul Beavis alla batteria. Completavano la band un pugno di brave coriste, tra cui Jo Garrett che per qualche tempo è stata parte del Lee Fardon Trio assieme al chitarrista Cox. A dare fiducia al nuovo progetto dopo sette anni di silenzio discografico, fu una piccola etichetta nostrana, la Musique Records di Courmayeur. Un progetto tutto italiano coordinato da Aldo Pedron, come dimostra la foto sul retro scattata in Valle d'Aosta e il missaggio presso il BMS Studio di Castelfranco Emilia. La prova tangibile che il bravo musicista inglese era ancora amato e stimato nel nostro Paese.
Too close to the fire è un disco vario e ispirato, tra il pop d'autore e il soft rock. Le dodici tracce raccontano di amori lontani, desolazioni del presente e nostalgiche rimembranze del passato. Una soffusa malinconia aleggia su tutti i brani, specie quando Fardon racconta il dolore di una donna costretta a prostituirsi (Saturday night) o la poesia di un amore perduto (New State 51). I testi sono semplici eppure suggestivi, scarni ed essenziali come frammenti di vita vissuta.
Il brano di apertura, Someone like you, è un gioiellino pop di pregevole fattura, arricchito da un dialogo continuo tra pianoforte e organo. Deliziose sono poi le soluzioni ritmiche di Heaven can wait, di Strangeland e della title track. Il disco non conosce cali di ispirazione e si mantiene sullo stesso buon livello dall'inizio alla fine. Sono canzoni curate negli arrangiamenti, scritte e suonate bene, segno di una stagione particolarmente ispirata. Non si grida al capolavoro, eppure si percepisce lo spessore di un musicista che avrebbe meritato di più. La voce di Lee è l'assoluta protagonista: calda, avvolgente, lievemente arrochita, mai sopra le righe, assistita dall'ottima corista Jo Garrett (solista in Don't tie me down). Lee non è il classico cantautore voce e chitarra; nelle sue canzoni sa dare spazio agli altri musicisti, curando in particolare la sezione ritmica e le parti di chitarra.
È un album che conquista alla distanza. Dopo qualche ascolto "di rodaggio", le canzoni entrano in testa e si nota che, dietro l'apparenza dimessa, c'è la sostanza di un songwriter di razza: nessuna traccia dà l'idea di essere stata messa per riempitivo, come spesso fanno persino musicisti più celebri. 
Per chi volesse acquistare il disco, inutile girarci intorno: è di difficile reperibilità, perché l'unica stampa è la prima in cd e LP del 1992 (numeri di catalogo mrcd1191 e mr1191). Paradossalmente, gli album precedenti in vinile sono più facili da trovare, specialmente The God given right e The savage art of love. Too close to the fire uscì invece per una intraprendente ma piccola etichetta italiana, per cui bisogna cercare bene, ovviamente in un vero negozio di dischi e non nella grande distribuzione.
«But we were wrong, we are forever,
wherever two walls meet between two rooms,
wherever a father is crying
and soldiers are burning the homes.
Wherever the pressure makes a leader a liar,
wherever a child reaches out too close to the fire.»

14 luglio 2023

"Il conto dell'ultima cena" di Andrea G. Pinketts: il prezzo dell'eterna adolescenza

Non amo le saghe letterarie, perché se un romanzo mi piace non ho il desiderio di scoprire che ne è stato del protagonista una volta chiuso il libro. Se un capolavoro è davvero tale non ha senso scriverne un seguito, perché il capolavoro è un'opera perfettamente compiuta che non tollera aggiunte. Lo sappiamo tutti, sebbene sia difficile da ammettere: di solito il sequel è una delusione e il terzo fa sempre schifo. A parte Rambo, ma questa è un'altra storia.
Per Pinketts ho fatto un'eccezione, leggendo i primi quattro volumi della saga di Lazzaro Santandrea, vero e proprio alter ego dell'autore. Iniziai nel 2006 con Il senso della frase, che poi è il terzo in ordine di pubblicazione. Per quindici anni non ho più letto nulla dello scrittore milanese, fino a quando, in piena seconda ondata covid, nel dicembre 2020 ho scovato su una bancarella Il vizio dell'agnello. L'esordio della serie, Lazzaro, vieni fuori, l'ho letto l'anno scorso a giugno, mentre Il conto dell'ultima cena l'ho terminato in questi giorni. Ci sono voluti tanti anni perché nulla è stato programmato e neppure ho seguito l'ordine giusto. Poco male, perché si possono leggere anche senza rispettare l'ordine di uscita.
Il conto dell'ultima cena (1998) è il quarto volume con protagonista Lazzaro. È un romanzo molto ambizioso, come si evince dalle quasi cinquecento pagine e dalle tematiche trattate. Ho avuto l'impressione di un'opera diversa dalle precedenti, come se Pinketts avesse voluto imprimervi il timbro della maturità. L'incipit è in proposito eloquente.
«Cercavamo di ammazzare il tempo prima che il tempo ammazzasse noi.»
Lazzaro Santandrea ha trentatré anni, la stessa età in cui sono morti Gesù Cristo e John Belushi. Il mondo intorno cambia e persino il suo più caro amico, Pogo il Dritto, sembra aver messo la testa a posto dopo la nascita del figlio. Lazzaro invece non ha ancora deciso cosa fare da grande: è sempre uguale a se stesso e cerca di prolungare artificiosamente una spensierata, infinita adolescenza. Ha ereditato una casa di proprietà, ma vive quasi sempre nell'appartamento di famiglia assieme alla madre, alla nonna e alla donna di servizio filippina. Di lavorare non se ne parla, nonostante abbia ancora in tasca il tesserino scaduto dell'ordine dei giornalisti da esibire come passepartout. Le sue giornate tuttavia non sono noiose: veleggia in taxi da un bar all'altro e i guai sembrano avere una speciale predilezione per lui. Non aggiungo altro della trama: basti sapere che Lazzaro vedrà la Madonna e a seguito dell'apparizione si troverà coinvolto, come al solito, in storie di sangue che rivelano la parte più torbida dell'animo umano.
Quantunque l'assoluto mattatore della vicenda sia lui, Il conto dell'ultima cena è un romanzo corale. Lazzaro è circondato dal gruppo di amici storici del Giambellino, la sua corte dei miracoli, a cui per l'occasione si aggiungono personaggi indimenticabili: il senzatetto Marinoni, la lesbica militante Grandine Lomax, il timido rappresentante di biancheria intima Monfiorito, e soprattutto il roccioso professor Terulli, eroe di guerra nostalgico del ventennio. È un caravanserraglio di personaggi e storie che si intrecciano, si interrompono e poi vengono riprese quando il lettore è quasi sul punto di dimenticarle. Pinketts in questo romanzo della maturità ha dimostrato di saper trattare con grande maestria la materia narrativa: non è da tutti inserire nelle stesse pagine visioni mistiche e bevute epiche, Madonne che salvano e altre che uccidono, sinceri credenti e incalliti bestemmiatori. Ecco perché non ha senso incasellarlo in un genere: giallo, noir, picaresco, umoristico o romanzo di formazione, poco importa. Anche gli omicidi sono un pretesto, perché Lazzaro non è un detective e in fondo a noi lettori interessa poco la soluzione del mistero. La verità è che Pinketts voleva semplicemente raccontare il mondo che amava e persino un delitto (di fantasia) poteva essere un ottimo pretesto.
Ripeto quanto ho già scritto a suo tempo nella recensione de Il vizio dell'agnello, perché è valido anche per questo romanzo: Pinketts ci restituisce con vivide pennellate gli umori e i dolori di una Milano nevrotica e nera, nonché lo spirito di un'epoca, la metà degli anni Novanta, che oscillava tra gli ultimi palpiti di un passato dorato e l'avanzare del futuro scialbo e impoetico che costituisce ormai il nostro presente. Le scene si svolgono nei luoghi che lo scrittore conosceva bene: appartamenti signorili del centro, palazzoni informi di periferia, bar, caffè, discoteche, locali notturni e persino chiese e oratori.
Se avete letto altri romanzi dello scrittore milanese, Il conto dell'ultima cena non può mancare alla collezione. Scoprirete un Lazzaro maturo, più riflessivo, permeato finanche da un sincero afflato religioso. Per chi invece non ha mai letto Pinketts, consiglio di iniziare dal primo volume della saga, Lazzaro, vieni fuori. Sul blog non ne ho parlato, ma vi assicuro che è un libro straordinario, il fulminante esordio di uno scrittore di razza che ci manca tanto.
Ultima edizione Oscar Gialli (2018)