30 gennaio 2024

"La rivincita" di Michael Curtin: gli ultimi saranno i primi

Inizio la recensione in maniera insolita, mettendo subito le mani avanti: questo romanzo non mi ha convinto. Ciò non significa che non valga la pena leggerlo; semplicemente, ha deluso le mie aspettative. L'editore italiano lo presenta in quarta di copertina come «un classico della letteratura comica». E invece, salvo nelle pagine finali, è proprio la comicità a mancare. O forse è un umorismo tipicamente irlandese, lontano dai nostri canoni. La rivincita (titolo originale, The replay) è un romanzo del 1981 di Michael Curtin, irlandese di Limerick. Scrittore amato in patria, in Italia è ricordato specialmente per La lega anti-Natale, sempre per i tipi di Marcos y Marcos.
C'è da premettere che l'idea alla base della trama è avvincente. La rivincita è quella che gli ex allievi dell'Istituto chiedono agli avventori del Nook. Quindici anni prima le due squadre si erano sfidate a calcio e i secondi avevano vinto, sia pure in maniera non del tutto limpida. La sfida era stata epica anche per ragioni extracalcistiche di rivalsa sociale: l'Istituto era la scuola privata dell'alta borghesia cittadina, mentre il Nook era un pub proletario, frequentato da giovani squattrinati. La vittoria del Nook non è mai stata digerita da quelli dell'Istituto, che dopo tre lustri organizzano una rivincita. Unica regola: i giocatori devono essere gli stessi di quindici anni prima, senza eccezioni o possibilità di sostituzioni. Il romanzo offre un interessante spaccato di vita irlandese alla fine degli anni Settanta, che emerge attraverso la meticolosa descrizione dei preparativi della partita. L'organizzazione dell'evento copre infatti buona parte del libro, mentre all'incontro vero e proprio sono dedicate soltanto le pagine finali.
La sinossi promette molto, ma a mio avviso l'esito non è sempre all'altezza. Il libro viaggia a due velocità: alcuni capitoli sono gustosi e strappano qualche sorriso, mentre altri sono prolissi e rallentano il ritmo della narrazione. Curtin si diffonde in interminabili dialoghi tra i personaggi, conversazioni che spesso è difficile comprendere fino in fondo o comunque calare nel contesto della narrazione. Preda dei fumi alcolici, i suoi personaggi intavolano lunghe chiacchierate seduti agli sgabelli del Nook, sicché dopo qualche pagina l'attenzione del lettore scema e si ha la tentazione di saltarle. Detto brutalmente, per quanto possa essere una considerazione superficiale e poco tecnica, credo che qualche decina di pagine in meno avrebbero giovato al ritmo e alla godibilità del libro. Alcuni capitoli sembrano quasi dei riempitivi. A titolo di esempio, mi vengono in mente le parti in cui si raccontano nei minimi dettagli le biografie dei calciatori del Nook. È il caso di Stevie Mack, personaggio tutto sommato secondario di cui vengono narrate le peripezie londinesi, sebbene siano quasi del tutto ininfluenti rispetto alla storia. Quanto all'umorismo, i momenti davvero divertenti si contano sulle dita di una mano; prevale un tono cinico e disincantato che al più strappa qualche amaro sorriso. Ciò è coerente con il contesto in cui si muovono i personaggi: una provincia irlandese lenta e sonnacchiosa, la cui unica magra possibilità di evasione consiste nel trascorrere qualche ora ad alta gradazione alcolica in pub sordidi. Chi è appassionato di questo stile di vita potrà sicuramente apprezzare le lunghe scene al Nook, fatte di dialoghi semiseri con le lingue impastate dalla birra. Quanti invece, come il sottoscritto, non abbiano familiarità con il contesto, potrebbero non essere in grado di cogliere sottigliezze e sottintesi in cui si cela lo spirito più squisitamente comico del romanzo.
Se questi sono gli aspetti deboli, La rivincita presenta anche dei punti di forza. In primis, come già accennato, è un vivido resoconto della vita in Irlanda qualche anno fa, con abbondanza dei classici stereotipi. Curtin, sia pure tra le righe, denuncia il peso della rigida morale cattolica nella vita dei suoi conterranei, il sotterraneo conflitto tra ossequio alla religione e desiderio di trasgressione, i drammi dell'alcolismo e della disoccupazione, la miseria di interi quartieri, il rapporto ambiguo con la vicina Inghilterra, egualmente temuta e odiata. È forse questo profilo di velata critica sociale il punto di forza del libro, più ancora dell'umorismo di cui si parla in quarta di copertina. Anche perché, pur non avendolo apprezzato particolarmente, alla fine mi sono trovato comunque a fare il tifo per gli ex ragazzi del Nook, da Stanley Callaghan a Jack O'Dea, passando per Dara Holden e lo sfortunato Gabriel. La loro vicenda di fantasia ci insegna che a volte gli ultimi possono essere davvero i primi.

18 gennaio 2024

Uomini o lupi? Una pellicola dimenticata del cinema italiano

Il significato più profondo di Lupi nell'abisso, film del 1959 per la regia di Silvio Amadio, è riassunto già nei titoli di testa. Anzi, si può affermare che rappresentino una vera e propria lettera d'intenti.
«La vicenda che vedrete è assolutamente estranea alla cronaca. I personaggi sono di pura fantasia. L'equipaggio di questo sommergibile non appartiene ad alcuna marina del mondo, come è evidente dalle divise, dagli emblemi, dall'armamento, che sono del tutto arbitrari. Per lo stesso motivo i personaggi non hanno nomi, né si fa riferimento a località od epoca.»
L'intenzione del regista e degli sceneggiatori era quella di raccontare una vicenda umana a valenza universale che potrebbe accadere o essere accaduta a qualsiasi latitudine. Per questo motivo, Lupi nell'abisso è un film di guerra anomalo. La trama è tanto semplice quanto appassionante. Un sommergibile sta navigando a pelo dell'acqua per fare ritorno alla base dopo una pericolosa missione. Nulla di più ci è dato sapere: né quale guerra stia combattendo, né quale Paese stia servendo. All'improvviso viene attaccato da tre aerei nemici ed è colpito da una bomba nonostante la subitanea immersione. Seriamente danneggiato, si inabissa fino ad adagiarsi sul fondo del mare a centocinquanta metri di profondità. Una parte del sottomarino non è invasa dall'acqua grazie alle porte a tenuta stagna; è in questo angusto spazio che si trovano gli unici dieci superstiti, tre ufficiali e sette marinai. La situazione è drammatica, ma non senza speranze: il sommergibile è infatti dotato di uno scafandro di salvataggio che può tuttavia ospitare solo una persona alla volta. Sarebbe sufficiente organizzare dei turni per fuggire dalla trappola mortale, se non fosse per un terribile imprevisto. Il cavo di recupero è stato spezzato dall'esplosione; ciò significa che lo scafandro può essere utilizzato un'unica volta. Dopo l'emersione non sarà più possibile farlo rientrare nel sottomarino per salvare gli altri marinai. In parole povere, solo uno potrà salvarsi: gli altri dovranno morire.
Constatata l'impossibilità di riparare il cavo d'acciaio, il resto del film narra la guerra di nervi tra i membri dell'equipaggio per scegliere chi potrà salvarsi. È girato tutto in interni, nello spazio ristretto di un sottomarino mezzo allagato, con i dieci protagonisti che si muovono in pochi metri quadri. Il rischio era quello di una pellicola noiosa, e invece la storia avvince e non c'è neppure un momento di stasi. Il comandante e il nostromo, interpretati rispettivamente dai bravissimi Massimo Girotti e Folco Lulli, vorrebbero una scelta equa, fondata sulla solidarietà e non sull'egoismo. Gli altri marinai, tra cui spiccano attori del calibro di Piero Lulli, Alberto Lupo e Jean-Mark Bory, sono in preda alla paura, accecati dal risentimento verso gli altri e dalla meschinità. Nessuno è disposto a morire lasciando vivere un unico fortunato. La situazione a un certo punto sfugge di mano e il film si trasforma in un thriller con finale a sorpresa.
Il punto di forza della pellicola è nella capacità di generare nello spettatore un sentimento di viva partecipazione rispetto agli eventi, nonché una grande tensione emotiva senza l'uso di effetti speciali. L'avessero fatto gli americani, un film del genere sarebbe stato probabilmente un kolossal, ma non sarebbe stata la stessa cosa. Amadio invece ha confezionato un ottimo esempio di cinema "artigianale" che si regge solo sulla bravura di un grande cast, senza necessità di ricorrere a espedienti spettacolari. La pellicola fu presentata al Festival di Berlino del 1959 ed ebbe una buona accoglienza da parte della critica. E invero, come ho detto, Lupi nell'abisso non è solo una storia di guerra, è qualcosa di più. È un film sulle tendenze bestiali che albergano nel cuore dell'essere umano, tendenze ferine e istintive che emergono prepotentemente quando sono in gioco interessi fondamentali. Nella drammatica lotteria su chi debba salvarsi, sorge la necessità di una scelta più profonda: siamo uomini o lupi? Questa è la domanda che il coraggioso comandante rivolge ai suoi marinai impauriti.
Qualcuno ha accusato la pellicola di nazionalismo, se non addirittura di vuoto sciovinismo. Mai critica fu più ingenerosa. Se esiste un film anti-retorico, questo è proprio Lupi nell'abisso. Al regista e agli sceneggiatori interessava raccontare una vicenda umana e non italiana, una vicenda che sarebbe potuta accadere a qualsiasi equipaggio. Di qui la scelta, precisata nei titoli di testa, di non dare bandiera, nazionalità e neppure nomi ai sommergibilisti. I marinai non hanno alcuna cadenza dialettale e non vengono mai menzionati luoghi reali, proprio per dare valenza universale al racconto. Certamente alcune scene (e dialoghi) risentono un po' degli anni – si pensi alla preghiera finale –, ma questo è un film intelligente e toccante da riscoprire senza indugio.
Massimo Girotti (il comandante) e Folco Lulli (il nostromo)

6 gennaio 2024

"Paso doble" di Giuseppe Culicchia: cronaca di un'Italia precaria

Paso doble (1995) è il seguito di Tutti giù per terra, fortunato esordio di Culicchia da cui fu tratto un film nel cui cast figuravano perfino i componenti del Consorzio Suonatori Indipendenti. Ciò tuttavia non significa che il romanzo non possa essere apprezzato da chi non conosce il precedente. È vero che la storia riprende da dove si era interrotta; tuttavia può essere letta in autonomia, senza che ciò ne pregiudichi la comprensione, anche perché i personaggi sono diversi. A dirla tutta, dalla lettura di Tutti giù per terra sono passati così tanti anni che non rammento quasi nulla, salvo il nome del protagonista e vaghi ricordi delle sue peripezie alla ricerca di un'occupazione, in un'Italia che iniziava a conoscere il dramma del precariato.
In Paso doble ritroviamo Walter alle prese col suo nuovo impiego di commesso in una videoteca/edicola di Torino. Il manager del punto vendita è un tipo ottuso, ossessionato dal bilancio e intimorito dai capi della sede centrale di Milano. Vorrebbe essere come i dirigenti d'azienda americani, rispetto ai quali è una misera macchietta, una copia riuscita male. Egli non ha reali competenze manageriali e crede di legittimarsi agli occhi dei dipendenti usando in continuazione parole e modi di dire anglosassoni. I colleghi di Walter sono invece dei personaggi strampalati usciti da un campionario di casi umani: Super Mario sogna di diventare un modello nonostante non ne abbia il fisico, mentre Egidio ha i modi di un lord inglese ma è un leghista convinto. La trama ruota intorno alle vicende umane, lavorative e sentimentali di Walter. La grigia routine delle sue giornate viene stravolta quando entra in scena Tatjana, una conturbante tedesca naturista, vegana ed ecologista, non si comprende bene se per moda o convinzione. Walter crede di trovare in lei il modo per uscire dal cerchio sempre uguale della sua esistenza, salvo doversi ricredere nell'amaro finale.
Culicchia si avvale del registro umoristico per raccontare una vicenda tragica, quella della prima generazione che si è trovata a fare i conti con il fantasma del precariato, abilmente mascherato dietro l'ipocrisia della "flessibilità" da chi detiene il potere e le redini dell'economia. La Torino in cui si muovono i personaggi di Culicchia è una città in stagnazione dopo la felice stagione del boom. In verità è lo stesso Paese a essere in profonda crisi, con tutte le avvisaglie dei problemi che esploderanno nel decennio successivo: la recessione, il lavoro sottopagato, i costi esorbitanti degli alloggi, la tv spazzatura, il regresso culturale, l'immigrazione. Culicchia coglie inoltre l'occasione per lanciare feroci strali contro quanti nascondono la propria ignoranza dietro l'uso di un inglese modaiolo e di circostanza; in particolare, contro quei manager che infarciscono i loro discorsi di parole come skills, problem solving, misunderstanding e simili.
Lo stile è semplice, immediato e scorrevole, diretto come il linguaggio di tutti i giorni. C'è una forte prevalenza dei dialoghi e ogni capitolo è suddiviso in brevi paragrafi numerati. Poco meno di centocinquanta pagine che si leggono d'un fiato in poche ore. Tirando le somme, si tratta di un romanzo gradevole, divertente, senza troppe pretese, che tuttavia stimola la riflessione offrendo un'accurata ricostruzione di un'età – la metà degli anni Novanta – che ci appare quasi preistorica, dati i rivoluzionari cambiamenti dell'ultimo ventennio. In verità, l'Italia raccontata in Paso doble non è il Paese aureo che spesso rimpiangiamo nostalgicamente, anzi non è poi così diversa da quella a noi contemporanea. L'ossessione per l'apparenza, le ingiustizie del quotidiano, lo sfruttamento del lavoro giovanile, la precarietà, l'avanzare di una tecnologia selvaggia col rischio dello smarrimento dei valori più profondi, l'ambizione di molti e il fallimento di altrettanti, sono aspetti quanto mai attuali. Ecco perché si potrebbe parlare di una valenza "archeologica" della rilettura di Paso doble a quasi trent'anni dalla sua pubblicazione: perché in fondo l'Italia ivi descritta è quella in cui è stato gettato il seme dello smarrimento e della miseria umana del presente.