31 marzo 2020

"Among my swan": istantanee da un pianeta malinconico

È facile innamorarsi di Hope Sandoval. Bisognerebbe avere il cuore di pietra per non capitolare di fronte al suo sguardo di enigmatica innocenza, essere senz'anima per non lasciarsi vincere dalla sua voce suadente e dai testi malinconici. È lei «l'angelo caduto in volo» di battistiana memoria. Il suo canto, direbbe Battiato, «incatena come il coro delle sirene di Ulisse». Eppure non possiamo dimenticare l'altro deus ex machina del progetto, il polistrumentista Dave Roback, recentemente scomparso. Senza la sua chitarra, i Mazzy Star sarebbero stati ricordati al massimo come un buon gruppo di revival folk. E invece sto parlando di una band di grande valore, sebbene di piccolo culto, attiva dal 1987 al 1996 e poi di nuovo dal 2011 fin quasi ai giorni nostri; sconosciuta ai più, sorprenderà chi avrà voglia di cimentarsi nell'ascolto.
L'idea della premiata ditta Sandoval/Roback era tanto semplice quanto efficace: mescolare nello stesso calderone il revival folk e la corrente psichedelica degli anni Sessanta con il dream pop di fine Ottanta. Il risultato è esoterico e conturbante, a metà strada tra Fairport Convention e Velvet Underground, il tutto però nell'epoca del grunge e dello shoegaze. Tralasciando il profluvio di termini inglesi e definizioni più o meno calzanti, basti dire che erano un ensemble originale, che proponeva una musica intimista e crepuscolare, in netto contrasto con la “guerra del volume” imperante all'epoca.
Among my swan è il terzo e ultimo album della loro prima stagione, pubblicato nel 1996 per la Capitol. Seguiva l'esordio di She hangs brightly (1990) e il successivo So tonight that I might see (1993). Dodici tracce, tutte scritte dal duo Sandoval/Roback, dodici gemme di matrice folk attraversate da un impalpabile nervosismo elettrico. Non è niente di assolutamente nuovo, eppure i brani parlano un linguaggio innovativo, sì che è arduo trovare precedenti. Il tocco femminile e tormentato della Sandoval emerge nel canto sommesso, sussurrato, frutto di naturale e invincibile ritrosia. Roback si divide invece tra chitarre elettriche e acustiche, tastiere e “other instruments”, come riportato nelle note di copertina; i suoi virtuosismi strumentali sono il necessario completamento dell'anima a due volti dei Mazzy Star. Gli altri musicisti coinvolti nelle registrazioni di Among my swan erano Keith Mitchell alla batteria, William Cooper alla chitarra e Jill Emery al basso, con un cameo di William Reid in Take everything.
Non amo l'analisi traccia per traccia, ma in questo caso aiuta a comprendere la ricchezza di spunti e ispirazioni di un album vario eppure omogeneo. L'apertura di Disappear ricorda smaccatamente i Velvet Underground di Sunday morning, grazie al tappeto lisergico delle tastiere su cui si staglia la voce della Sandoval, dolce come il miele e pericolosa come veleno. Flowers in December è invece un perfetto brano folk, con tanto di armonica e violino; predominano atmosfere brumose e malinconiche, vero e proprio marchio di fabbrica della band. Una splendida versione dal vivo del brano è disponibile su You Tube. Rhymes of an hour richiama i migliori Fairport Convention; i Mazzy Star però sapevano andare oltre, regalandoci un brano sognante a metà strada tra la Scozia e l'India. Tastiere languide e chitarra acustica dominano nella successiva Cry, cry, ottimo gioiello pop. La quinta traccia, Take everything, è forse la vetta dell'album. L'insinuante voce della Sandoval stavolta sale di tono, e mette i brividi la coda strumentale, arricchita dalla chitarra acida di un ospite d'eccezione, William Reid dei Jesus and Mary Chain. Still cold, che inizia al ritmo di percussioni tribali, ha quasi un'attitudine punk, almeno secondo i canoni dei Mazzy Star; ci ricorda che non ci troviamo di fronte ad un album della “summer of love”. C'è ancora spazio per la piacevole parentesi country di I've been let down, prima che Hope Sandoval indossi i panni di Nico nella meravigliosa Roseblood. È qui che passato e presente trovano un perfetto connubio, tra Velvet Undergound e chitarre alla JAMC. Il tutto però filtrato ed etereo, come se la musica provenisse da un'altra dimensione, o forse al di là dello specchio. Nel trittico finale spicca Look on down from the bridge, una struggente ballata perfetta per ogni addio; è la summa dell'arte dei Mazzy Star, vero e proprio manifesto di una musica inquieta e nostalgica.
I primi tre album del gruppo americano non possono mancare in una collezione che si rispetti. A dover scegliere, si può cominciare proprio da Among my swan, che può essere definito il disco della maturità, nonché quello di maggior successo. Acquistatelo senza indugi; male che vada, vi innamorerete di Hope Sandoval.
L'essenziale copertina di Among my swan (1996)
Particolare del libretto interno del CD 

20 marzo 2020

Cavalcare la "nuova onda": l'omonimo disco d'esordio degli Psychedelic Furs

Ho scritto altrove che la new wave britannica accomunava gruppi dalle anime differenti. C'era chi esplorava umori plumbei (Joy Division; The Sound), chi non aveva rotto i ponti con il punk (Echo & The Bunnymen), chi proponeva soluzioni raffinate (Japan; The Comsat Angels; The Chameleons), chi giocava con l'elettronica (New Order), chi coltivava nevrosi urbane (Magazine). In questo calderone ribollente di idee, un posto di spicco era occupato da The Psychedelic Furs, sestetto londinese nato nel 1977, che pubblicò il primo omonimo LP nel 1980. Proprio di questo lavoro intendo parlare, facendo una dovuta precisazione. Il disco pubblicato in Inghilterra è composto da nove tracce, mentre la versione americana diverge per una copertina alternativa, ma soprattutto per la scelta e l'ordine dei brani. In particolare, l'edizione per il mercato statunitense conta dieci tracce, per effetto dell'eliminazione di Blacks/Radio e l'aggiunta di Susan's strange e Soap commercial. La mia recensione si riferisce a quest'ultima versione.
La formazione era composta da sei elementi: Richard Butler (voce), il fratello Tim al basso, John Ashton e Roger Morris alle chitarre, Vince Ely (batteria) e il sassofonista Duncan Kilburn. Il sestetto era ben collaudato: l'intreccio tra chitarre e sassofono ne era il marchio di fabbrica, assieme all'inconfondibile voce di Richard Butler, così simile ad una cantilena. L'aggettivo "psychedelic" non è scelto a caso, ma richiama la corrente di metà anni Sessanta, sebbene la band londinese adottasse un linguaggio moderno, con pochi agganci al passato. Bowie è forse il più immediato punto di riferimento, con echi alla Kinks e Velvet Underground. Il punk occhieggia dietro l'angolo, ma la sua furia selvaggia è ammansita da un linguaggio più raffinato e colto.
Il disco vive di fasi alterne, intervallando pezzi destinati ad entrare nella storia della new wave a momenti trascurabili. Alla prima categoria appartiene certamente l'iniziale India, che cala l'ascoltatore nelle atmosfere tipiche della band; è una sorta di disordine ragionato, in cui gli unici punti di riferimento sono le chitarre effettate e la voce grave di Richard Butler. I livelli restano altissimi con la plumbea Sister Europe, a cui è legato un divertente aneddoto. Secondo il racconto di Richard Butler, fu il produttore Steve Lillywhite a suggerirgli il modo di cantare: “vai in un pub e scolati due birre; quando tornerai, ti voglio sentire cantare come farebbe uno che parla al telefono alle tre del mattino”. Ma il capolavoro del disco rimane l'iconica Imitation of Christ: musica e testo raggiungono l'apice, in un crescendo di immagini vivide che lasciano senza fiato. Susan's strange è invece una traccia presente solo nella versione statunitense, ma sarebbe sbagliato definirla un mero riempitivo. L'incedere è lento e sognante, regala momenti di placida spensieratezza rispetto agli altri brani citati. Egualmente valida è l'altra canzone presente solo sulla versione a stelle e strisce, Soap commercial. Il resto scorre via senza particolari sussulti, con brani che avrebbero forse meritato una scrittura più meditata (su tutti, Wedding song e Flowers).
Molte riviste e siti specializzati lo considerano un lavoro imprescindibile per chiunque voglia approcciarsi alla new wave. Non nego che si tratti di un disco di agevole assimilazione, quantomeno rispetto a lavori maggiormente complessi e innovativi. Questo però ne è anche un evidente limite; se è vero che vi sono gemme di altissima qualità, resta pur sempre una tracklist poco omogenea, che risente pesantemente del tempo passato nei pezzi di minore valore assoluto. A mio avviso, è più che altro un necessario completamento, destinato a quanti abbiano voglia di approfondire un genere che ha dato la stura a tutta la produzione successiva, compresa quella contemporanea.
 Copertina dell'edizione statunitense
Retro dell'edizione statunitense (LP)

7 marzo 2020

"Fame" di Knut Hamsun: la povertà è la suprema dannazione

Inizio con una considerazione banale: la fame è la vera protagonista di questo celebre romanzo del Premio Nobel norvegese Knut Hamsun (1859-1952). Andando più a fondo, si scopre che la “fame” del titolo non è intesa solo in senso materiale, ma anche spirituale, come fame di vita, di sapienza, di emozioni. Il protagonista, vero e proprio alter ego dell'autore, è un giovane letterato, narciso ed egocentrico, convinto di essere una mente eletta ma incompresa dai contemporanei, tacciati di grettezza e conformismo. Per campare scrive articoli su un paio di quotidiani, ma deve fare i conti con due nemici implacabili: la scarsa ispirazione e la povertà. Gli unici beni che possiede sono un mozzicone di matita e un fascio di fogli bianchi, su cui riversa pensieri torrenziali e confusi sull'arte, la società, la politica, la morale e persino la religione. I suoi scritti non sempre incontrano il favore degli editori, perché considerati incendiari e rivoluzionari, inadatti ad un pubblico addomesticato e piccolo-borghese. Dopo una serie di rifiuti, esaurite anche le poche corone rimediate occasionalmente, egli scivola lentamente nella miseria più nera, arrivando persino a scucirsi i bottoni della giacca nella speranza di poterli dare a pegno. Si ritrova così a vagare per Christiania (vecchio nome di Oslo), la città «che nessuno può lasciare senza portarne addosso le cicatrici», alla ricerca spasmodica di denaro e ispirazione.
Il romanzo narra con un ritmo serrato le peregrinazioni dello squattrinato protagonista per le vie della capitale norvegese, gli innumerevoli tentativi di raggranellare qualche spicciolo per riempire la pancia o pagare la pigione della misera stanza presa in locazione. Sono vicende spesso grottesche o al limite del paradosso, che catapultano il lettore in una realtà di amaro disinganno, dove conta quanto si possiede in tasca e non quanto si ha in testa. La povertà è dunque la suprema dannazione, più ancora della pazzia. Si pensi ad uno dei punti cruciali del romanzo, l'incontro tra il protagonista e una misteriosa ragazza che in un primo momento si innamora di lui, per poi abbandonarlo quando si avvede della sua miseria. Ella è pronta a perdonargli tutto, ma non la povertà. Il suo sentimento vacilla credendolo un pazzo o un criminale, eppure resiste; crolla infine quando si avvede che l'uomo che le sta di fronte è uno straccione.
Fame è soprattutto un libro di sensazioni fisiche, visive e tattili; l'immedesimazione col protagonista è in questo senso totale. Il romanzo si sviluppa su due piani, il “fisico” e lo “psicologico”. Sotto il primo profilo, Hamsun riesce a trasmettere al lettore le medesime sensazioni provate dal protagonista: la nausea, la debolezza estrema, il dolore agli arti, il senso di vuoto allo stomaco che cerca di colmare masticando trucioli di legno. Quanto al piano psicologico, si tratta di un impeccabile resoconto della graduale ma inesorabile discesa verso la follia. I due piani si compenetrano: il protagonista impazzisce perché affamato, ma al contempo soffre la fame perché ossessionato dai mostri di un pensiero non conforme, che lo relega ai margini della società civile, in cui non c'è spazio per i suoi scritti visionari. 
Il libro ha i tratti del romanzo picaresco, sebbene si tratti di una definizione riduttiva. Anche il picaro ha “fame di vita”, ma vive allegramente la propria condizione; da ottimista qual è, sa che ogni giorno riuscirà a mettere insieme il pranzo con la cena, senza troppo penare. La sua è essenzialmente fame di pancia. Il protagonista di Hamsun, invece, non sa darsi pace, perché la sua è fame di successo, desiderio di vedersi riconosciuto un posto privilegiato nel mondo. Non è spensierato, ma porta addosso tutte le nevrosi e le ossessioni dell'uomo moderno, prima fra tutte quella per il dio denaro. In ciò somiglia a Gordon Comstock, il protagonista di Fiorirà l'aspidistra, con la differenza che Fame è stato scritto circa quarant'anni prima del capolavoro di Orwell. Impossibile allora non riconoscere la straordinaria modernità di Hamsun, che ha avuto la capacità di precorrere i tempi; per stile, tematiche e sensibilità, Fame è a tutti gli effetti un libro novecentesco, sebbene sia stato pubblicato nel 1890.