23 novembre 2022

Smarrire la fede: "I sovversivi"

Nella ricchissima produzione cinematografica nostrana degli anni Sessanta e Settanta alcune pellicole sono invecchiate benissimo, altre risentono un po' degli anni e infine ci sono quelle che non hanno più niente da dire. Le prime vanno guardate con l'occhio del critico, le seconde si adattano ai nostalgici, le terze possono stimolare al più qualche velleità archeologica. Personalmente ritengo di non appartenere a nessuna di queste categorie: quando guardo un vecchio film, cerco semplicemente qualcosa che possa incoraggiare una riflessione, magari in relazione al presente. E invero sono tanti i lungometraggi, sia pure figli del proprio tempo, che a distanza di oltre quarant'anni sono ancora in grado di dirci qualcosa, se non addirittura di interpretare angosce e sentimenti dell'uomo contemporaneo. Questo è forse il tratto distintivo di molte opere dei fratelli Taviani che dialogano egregiamente con il tempo presente, pur occupandosi di eventi storici lontani. Tre esempi su tutti: San Michele aveva un galloAllonsafàn e I sovversivi.
Proprio di quest'ultimo vorrei parlare, facendo una premessa: per uno strano paradosso è forse il film che appare più "datato". Ho parlato di un paradosso perché, dei tre, è ambientato in un anno a noi più vicino, il 1964. Ciononostante, i protagonisti degli altri due film, Giulio Manieri e Fulvio Imbriani, pur essendo uomini dell'Ottocento, mi sono sembrati più vicini alla sensibilità contemporanea per un tormento indefinito che non sa trasformarsi in azione e forza propulsiva. San Michele aveva un gallo, Allonsafàn e I sovversivi sono, sia pure a livelli e intensità diverse, opere magistrali sul disinganno e il disimpegno, sulla fine degli ideali e l'amara scelta di mettere i sogni in disparte. I sovversivi è stato il primo lavoro in cui i fratelli Taviani hanno affrontato queste complesse tematiche; uscito nel 1967, è stato il loro esordio in tandem alla regia, dopo aver collaborato assieme a Valentino Orsini.
Fine agosto 1964, in una Roma torrida e confusa si celebrano i funerali del segretario del PCI Palmiro Togliatti, morto pochi giorni prima a Jalta, in Crimea. La camera ardente e le esequie sono un momento di partecipazione e lutto collettivo che coinvolge giovani e vecchi militanti, donne e uomini provenienti da ogni parte del mondo. Tra questi, ci sono i personaggi del lungometraggio. Ne I sovversivi non c'è un solo protagonista, perché il film si compone di più storie tra loro slegate che tuttavia si riuniscono nella scena finale dell'incedere del feretro tra due ali di folla. Sebastiano è un piccolo funzionario di partito, devoto alla causa, dotato di una fede politica incrollabile, da lui vissuta come e più di una religione: pur essendo un comunista, ha atteggiamenti e pensieri piccolo-borghesi. Durante il viaggio a Roma scopre che la moglie Giulia ha tendenze omosessuali e in pochi giorni il suo castello di certezze granitiche va in fumo. Lo stesso contrasto tra conservazione e rivoluzione contrappone Muzio a Ermanno. Il primo è un fotografo incaricato di fare un reportage sui funerali di Togliatti; anche lui, come Sebastiano, vive la fede politica e la professione senza dubbi, nel pieno conformismo di tecniche e idee. Ermanno, l'amico e collaboratore interpretato da Lucio Dalla, è invece critico verso il partito e, più in generale, verso tutto ciò che è considerato socialmente accettato o auspicabile. È sposato con una donna più grande contro la volontà dei genitori e inoltre ha idee innovative e antiaccademiche anche sull'arte e la fotografia. Poi c'è Ettore, interpretato da Giulio Brogi, un oppositore politico venezuelano nascostosi a Roma per sfuggire alla polizia del suo Paese. Dopo due anni lontano da casa ha quasi dimenticato le ragioni che l'hanno portato a essere un latitante, la sua fede è smarrita o comunque affievolita. Con l'arrivo dei compagni venezuelani a Roma, si troverà a dover scegliere tra la fedeltà a ideali che gli appaiono superati e l'amore puro e incondizionato di Giovanna. Infine c'è Ludovico (un bravissimo Ferruccio De Ceresa), regista impegnato a ultimare un film su Leonardo da Vinci. Ludovico vorrebbe dirigere un lavoro all'avanguardia, ma le sue precarie condizioni di salute e gli inestricabili dubbi esistenziali lo bloccano in una gabbia.
Per tutti i personaggi del film il viaggio a Roma non è soltanto un atto di omaggio o cordoglio: ognuno ha un motivo diverso per andare ai funerali di Togliatti, ciascuno ha una crisi d'identità da dipanare, un dramma personale da affrontare. Devono fare i conti con se stessi, perché la morte del segretario segna lo smarrimento dei loro ideali. Nel film Togliatti non è un politico, né il segretario del PCI e neppure semplicemente un uomo: egli è il monolite delle certezze, rappresenta il pilastro degli ideali immutabili a cui i protagonisti del film cercano disperatamente di aggrapparsi. Le lacrime che versano davanti alla bara non sono un omaggio d'addio al leader, piuttosto la manifestazione tangibile, si potrebbe dire corporale, di uno smarrimento che è al tempo stesso collettivo e individuale.
Una locandina del film

11 novembre 2022

"Villa di delizia" di Carlo Castellaneta: un dramma borghese

Castellaneta pubblicò Villa di delizia nel 1965, a trentacinque anni, quando aveva già alle spalle due significativi romanzi di formazione, Viaggio col padre e Una lunga rabbia. Mentre questi ultimi guardavano al presente, all'Italia del dopoguerra tra lotta politica e boom economico, Villa di delizia era invece un romanzo storico in controtendenza. Si tratta di un racconto ambientato al tramonto dell'età umbertina, fino ai tragici moti del maggio 1898. Di lì a due anni, come noto, la mano vendicatrice di Gaetano Bresci chiuderà definitivamente una stagione di chiaroscuri.
Il libro si snoda su due piani, il collettivo e l'individuale, la vicenda pubblica e quella privata. Gli scontri di piazza e le rivolte popolari non sono il fulcro della narrazione, piuttosto costituiscono la cornice storica entro cui Castellaneta fa muovere i suoi personaggi. Soltanto le ultime pagine sono dedicate ai moti che condurranno alla strage ordita dal generale Bava Beccaris. Lo scrittore meneghino conferma dunque la sua predilezione verso il mondo anarchico, socialista e operaio, sublimata qualche anno dopo ne La paloma. Se pure emerge la sua vocazione a raccontare gioie e dolori dei ceti popolari, Villa di delizia è prima di tutto il romanzo dell'alta borghesia milanese della fine del secolo decimonono. Il titolo è una vera e propria dichiarazione d'intenti: erano infatti chiamate "ville di delizia" le residenze estive di campagna dell'aristocrazia e della rampante borghesia industriale e finanziaria milanese. La vicenda scandalosa raccontata da Castellaneta si dipana proprio tra il grande appartamento nel centro cittadino e la lussuosa magione di Canonica Lambro, nella verde Brianza.
«Da mesi, la sera, ci corichiamo in tre.»
Luigi e Fernanda Solbiati sono una coppia perfetta e senza macchie, almeno all'apparenza. Ricchissimi, ancora giovani, ben inseriti nella società e con amicizie influenti, sono rispettati e invidiati. In realtà, dietro la facciata delle convenzioni borghesi, si nasconde una torbida verità. Fernanda è vittima delle perversioni erotiche e dei tradimenti del marito. Sebbene anche lei abbia un amante, è Luigi a tenere saldamente in mano i fili del gioco, piegando la moglie a ostinati capricci e incontenibili voglie. Il culmine dell'abiezione è raggiunto quando Luigi si invaghisce di Celestina, una popòla appena sedicenne, figlia di un portinaio e sorella di un fervente socialista. La ragazza viene coinvolta in un peccaminoso rapporto a tre che fa precipitare i protagonisti in un abisso di depravazione e perversione. La condotta di Luigi non è dettata semplicemente da lussuria e concupiscenza, ma cela un progetto ben preciso, tanto abietto proprio perché tenacemente perseguito. Umiliando Celestina, vuole punire la moglie e imporre il suo potere sulle classi inferiori, affermarsi come uomo e come padrone in spregio alla morale corrente e al di sopra delle leggi umane e naturali. Eppure anche la sua ribellione, come tutte le cose umane, sarà destinata ad annegare nel gorgo del tempo, questo sì spietatamente egualitario più di qualsiasi rivoluzione.
«Assisteremo dai nostri posti numerati ad altre regate e rivoluzioni, a concorsi ippici e tumulti plebei, per altre estati spierò dal terrazzo il suo schiocco di frusta alla curva del Lambro, avremo tutto meno la cosa che insieme abbiamo distrutto, avremo mille false ragioni di vivere, e di nuovo andando saremo immobili, senz'altro sollievo di saperci salvi, nel gran vuoto che ci circonda, per arrivare illesi alla morte.»
In merito allo stile, ci sarebbe da fare un discorso lungo e articolato, per il quale non ho le necessarie competenze. Semplificando all'osso, in Villa di delizia si alternano due diversi registri linguistici, quello raffinato della ricca borghesia e quello popolare delle classi meno abbienti, spesso infarcito di errori o espressioni grossolane. Castellaneta fa ampio uso del dialetto, a cui attribuisce una funzione di livellamento sociale, in quanto è parlato da tutti i suoi personaggi. Se l'uso del dialetto è naturalmente il modo esclusivo di esprimersi delle classi popolari, padroni e aristocratici non lo disdegnano, magari per dare maggiore veemenza ai concetti che intendono esprimere. Non si contano le volte in cui si ripetono parole come ligera, tosa, popòla, cadrega, oppure verbi come barbellare e simili.
Villa di delizia è dunque il romanzo meneghino per eccellenza. D'altronde, Milano è assoluta protagonista in tutti o quasi i libri di Castellaneta, dai già citati volumi d'esordio a opere più mature come La paloma e Notti e nebbie. Al contempo, si tratta di un libro che ha i toni impietosi del j'accuse contro l'alta borghesia milanese di fin de siècle, destinata a costituire l'ossatura della classe dirigente del Paese dal fascismo fin quasi ai giorni nostri. Una borghesia arrivista, cinica, vuota, malata di ostentazione e onnipotenza, che coltiva i propri sogni di prevaricazione nel chiuso di un appartamento o nel dorato sepolcro di una villa di campagna.
Edizione B.U.R. 1975