29 ottobre 2018

Sui sentieri della storia: il castello di Capaccio Vecchio

Affrontare il sentiero che attraversa i boschi del monte Calpazio per raggiungere i ruderi del castello di Capaccio Vecchio, nel Cilento, significa immergersi negli scenari di uno degli eventi più importanti della storia del Mezzogiorno: la cosiddetta “congiura di Capaccio”. Senza voler entrare nel merito di un avvenimento così complesso, basti sapere che nel 1246 alcuni tra i principali notabili del Regno ordirono una congiura per uccidere l’imperatore Federico II di Svevia e suo figlio Enzo. Grazie ad alcuni fedelissimi, l’imperatore scoprì la cospirazione e i rivoltosi furono costretti a rifugiarsi nel castello di Capaccio, ritenuto inespugnabile. La fortezza fu cinta d'assedio per tre lunghi mesi dalle truppe di Federico II, fin quando capitolò nel luglio del 1246 per mancanza di approvvigionamenti. La punizione inflitta ai congiurati fu crudele e commisurata alla colpa di cui si erano macchiati. Avendo tentato di uccidere il sovrano, vennero considerati alla stregua di parricidi e condannati secondo la lex Pompeia, che prevedeva orrende mutilazioni e l’introduzione del condannato in sacchi di cuoio da gettare in mare. Per chi volesse approfondire l’argomento, consiglio la lettura di un esauriente articolo sul sito dell’Istituto Enciclopedico Treccani.
A completamento della damnatio memoriae, l’imperatore ordinò anche la distruzione del castello e dell’abitato di Capaccio Vecchio, all’epoca sede vescovile. La fortezza non venne però rasa al suolo e continuò ad essere utilizzata nei secoli successivi, anche come carcere, per cadere infine nell’oblio. Oggi di quel grandioso passato rimangono pochi resti che resistono strenuamente agli anni, sufficienti però a farci comprendere l’importanza del sito. Da un lato, i ruderi dominano la piana del Sele, consentendo di godere, nei giorni sereni, di uno straordinario panorama. D’altro canto, la difficile accessibilità del sito conferma la fama di inespugnabilità che il castello si era conquistato nel glorioso passato. Raggiungere quel che resta del maniero non è più complicato come un tempo, grazie ad un sentiero piuttosto agevole anche per chi non pratica escursionismo.
Il punto di partenza è il Santuario della Madonna del Granato, da cui inizia la strada asfaltata che conduce alla frazione di Crispi. Poco prima di arrivare al piccolo centro abitato, si raggiunge uno slargo con una fontana, dove è possibile lasciare le automobili. Da qui parte un sentiero che si inerpica lungo le pendici del monte Calpazio. Il percorso è largo e ben tracciato, leggermente faticoso nel primo tratto. Superata la salita, si può sostare in un punto panoramico che domina la valle del Sele; il castello è visibile sulla destra, abbarbicato alle rocce. È sufficiente un altro quarto d’ora per raggiungerlo. In tutto, il percorso dovrebbe essere coperto in meno di un’ora. Il maniero è in gran parte diruto; sopravvivono, avviluppate dalla macchia mediterranea, due robuste torri e il muro di cinta. Degli spazi interni, invece, si può avere solo una vaga idea. L’escursione è piacevole e adatta a tutti, ma soprattutto consente di immergersi nella natura e di conoscere un pezzo importante di storia d’Italia.
Ringrazio Sara Nigro per le fotografie che seguono.
Il primo tratto del sentiero
La splendida vista della Piana del Sele
Il maniero come appare da lontano
I ruderi del castello

14 ottobre 2018

"Le menzogne della notte" di Gesualdo Bufalino: l’inestricabile garbuglio del reale

Tra i diversi titoli che Bufalino aveva pensato per questo romanzo, prima di prediligere Le menzogne della notte, uno in particolare lo aveva a lungo tentato, senza riuscire però a sedurlo. Qui pro quo era il titolo provvisorio, che a ben vedere si adattava ai temi più profondi del romanzo: l’equivoco, il nascondimento della verità, la perfetta sovrapponibilità tra sincerità e menzogna.
In un’isola-carcere del Mediterraneo quattro condannati a morte trascorrono l’ultima notte prima dell’esecuzione. Un poeta, un nobiluomo, un soldato e uno studente, rei confessi di lesa maestà e attentato contro la vita del Sovrano, sodali di una setta liberale e carbonara guidata da un misterioso burattinaio che si fa chiamare Padreterno. Il governatore del penitenziario, consapevole che l’esecuzione dei quattro non sarà sufficiente per estirpare il seme ribelle dal Regno, fa loro una proposta conveniente: la rivelazione dell’identità del Padreterno in cambio della vita. Il tradimento di un solo anonimo sarà sufficiente per graziare tutti dalla forca. Le coordinate spazio-temporali non sono individuate con certezza, ma sono perfettamente intuibili: il Regno delle Due Sicilie negli ultimi anni di Ferdinando II. Il carcere potrebbe essere quello dell’Isola di Santo Stefano, effettivamente destinato ai detenuti politici.
L’attesa della fine (o dell'infame salvezza) viene ingannata dai quattro concedendosi un’ora di tempo ciascuno per raccontare l’episodio più significativo della propria vita, il momento di perfetta felicità che li lasci morire senza rimpianti. L’espediente del racconto è ovviamente ispirato al Decamerone, che pure presenta dei personaggi in pericolo di vita che trovano nella narrazione un rifugio al male che li circonda. Come tuttavia osservato dallo stesso Bufalino, la differenza con l’opera di Boccaccio sta nel fatto che ne Le menzogne della notte la vicenda che fa da cornice alle storie è una «cornice forte, cornice fiume coi racconti come affluenti».
Tema centrale, come ho anticipato, è la perfetta sostituibilità del vero e del falso, che finiscono per avere il medesimo valore, essendo finanche intercambiabili. Il raccontare ha così la duplice valenza dell’intima confessione e dell’estremo tentativo di falsificare le carte per tentare un ultimo scacco al potere. La prossima decapitazione dovrebbe indurre i protagonisti a non nascondere nulla, non avendo un moribondo interesse o guadagno da una menzogna. E invece le ultime pagine rovesciano completamente la prospettiva, mettendo in discussione quanto oramai si dava per certo e assodato. La stessa causa liberale è controversa, tanto che non si comprende quale sia il confine, nell’agire dei congiurati, tra l’ideale e l’opportunismo, tra il martirio e la giusta condanna. Sceverando il bianco e il nero nell’animo dei protagonisti, si scoprono motivazioni personali futili e spesso bieche, camuffate da sete di giustizia sociale per un sottile gioco di ambiguità. Vale la pena precisare che nessuna retorica risorgimentale anima il libro, poiché il tema centrale è di portata universale e avrebbe potuto essere affrontato a qualsiasi latitudine o epoca storica. Difatti a Bufalino non interessa chiarire se i suoi personaggi siano eroi o ciarlatani: le loro vicende sono funzionali a rivelare il garbuglio del reale, e tanto basta.
Due parole sullo stile, che, come in tutti i romanzi dello scrittore siciliano, è colto e ricercato. L’autore gioca con parole rare, desuete o arcaiche; se ne potrebbe agevolmente riempire un quaderno per arricchire il nostro povero lessico quotidiano. Inoltre il testo è disseminato di citazioni storiche e letterarie, nonché di rimandi ad altre opere. A solo titolo di esempio, si pensi ad Agesilao, il nome scelto per il personaggio del soldato, sicuramente ispirato a quell’Agesilao Milano, militare anch’egli, che nel 1856 attentò alla vita di Ferdinando II.
Il libro, definito dallo stesso autore «fantasia storica, giallo metafisico e moralità leggendaria», si è aggiudicato il Premio Strega nel 1988.

2 ottobre 2018

Lo sguardo impietoso di Ken Loach e la famiglia come "istituzione totale"

Basta guardare i primi fotogrammi di Family life (1971) del regista britannico Ken Loach per comprendere l’essenza più profonda del film, ovvero la feroce critica alla media borghesia inglese e alla sua standardizzata way of life. La telecamera indugia sulle case a schiera di un quartiere residenziale, tutte perfettamente identiche. Lo sguardo si sposta da una strada all’altra: ovunque file di abitazioni indistinguibili, di mattoni rossi o grigi. Dentro le case, facile immaginarlo, migliaia di esistenze tutte uguali si arrabattano giorno dopo giorno nella pudica anestesia del benessere borghese.
Janice ha poco più di vent’anni e proviene da una di queste periferie. I genitori sono la quintessenza del conformismo, lo specchio di una società che ha sacrificato le individualità ad un apparente benessere collettivo, che tende ad emarginare ogni diversità, ad annichilire ogni tentativo di uscire dal cerchio. Una società all’apparenza tollerante, ma che in realtà esclude e segrega chiunque appaia diverso: psicolabili, omosessuali, ribelli, artisti, sognatori. Il primo, terribile strumento di cui il sistema si serve, è proprio la famiglia, che Loach dipinge coi toni claustrofobici di un’istituzione totale. La repressione dell’individualità non avviene però, lo si badi bene, attraverso la violenza fisica, quanto piuttosto mediante l’imposizione di divieti e regole morali che portano chiunque voglia divergere a sentirsi colpevole, sbagliato, fuori controllo. Janice è praticamente privata di ogni facoltà decisionale: è la madre a pensare per lei, a sapere cosa le faccia bene e cosa male. Il disagio psichico, già latente, esplode quando la ragazza rimane incinta ed è costretta dai genitori ad abortire per salvare l’onore della famiglia, compromesso da una gravidanza al di fuori del matrimonio. Janice avrebbe voluto tenere il bambino e lo shock per un’imposizione così tremenda le scatena una crisi che la condurrà ad un ricovero in clinica psichiatrica. Le cose sembrano migliorare grazie all’innovativo approccio del dottor Donaldson, che si oppone alla psichiatria tradizionale e vuole curare i pazienti con il dialogo e il confronto. Egli comprende l’origine sociale e familiare del disturbo di Janice, ma proprio quando sta per raccogliere i primi frutti viene esonerato dall’incarico per mancanza di fondi. Orfana dell’unico in grado di comprenderla, Janice è affidata alla psichiatria tradizionale, che cura i sintomi ma non indaga le cause. Imbottita di farmaci e sottoposta persino all’elettroshock, scivola progressivamente verso uno stato catatonico, che le nega identità, gioventù, sogni e felicità.
Il lungometraggio è una critica feroce alla vecchia concezione della psichiatria, la “buona battaglia” che in Italia ha trovato in Basaglia il più importante promotore. Loach è chiaro e non accetta compromessi: il manicomio è un’istituzione totale, un campo di concentramento senza scampo, che annulla l’individuo anziché orientarne i comportamenti in senso terapeutico. Nell’ospedale psichiatrico si ripetono riti e ossessioni della famiglia borghese, in primis la condanna dell’eros, tanto che non si comprende se sia più castrante il primo o la seconda. E alla fine si compie un terribile paradosso: mentre lo psichiatra illuminato Donaldson ha compreso quanto il germe della follia possa insidiarsi proprio nelle famiglie apparentemente “perfette”, la psichiatria ufficiale nega la connessione tra malattia e ambiente sociale, usando come dimostrazione il caso di Janice, schizofrenica nonostante sia nata e cresciuta in una “famiglia bene”.
Family life è un pugno nello stomaco e un colpo al cuore. Loach, al terzo lungometraggio, già imposta i caratteri del suo stile: predominano i toni scuri, ad accentuare il senso di oppressione e disagio che la visione della pellicola provoca nello spettatore. Sicuramente si è portati ad immedesimarsi in Janice, la prima e più dolorosa martire del sistema; ma in fondo anche i genitori meritano la nostra pietà, carnefici inconsapevoli e vittime di un amore malato. In questo universo di chiusura e lacerazione, pochissime figure brillano. Certamente lo psichiatra innovatore Donaldson, che viene però emarginato dalla comunità scientifica per la eterodossia dei suoi metodi. Infine c’è il fidanzato di Janice, Tim, che tenta invano di aprirle gli occhi e di sottrarla al futuro che le è stato riservato. E voglio chiudere proprio con le sue profetiche parole, pronunciate in uno dei momenti più toccanti del film.
«Ecco cosa piace a tuo padre e a tua madre. Guarda. Squallore e convenzionalismo. Fa come ti dicono e ridurranno così anche te. Questa è la norma, ma resta da provare che sia anche giusto. Per me non lo è. Tutti in fila e ognuno al suo posto. Così è più facile scattare per correre ogni giorno al lavoro in fabbrica. Questo si chiama norma. Questo è il mondo e queste sono le famiglie: un campo di concentramento. Ecco il posto che hanno scelto per te nel mondo, un mondo dove non potrai cambiare niente, dare a niente la tua impronta.»

Il regista Ken Loach e l’attrice Sandy Ratcliff, che interpreta Janice. 
Foto di scena tratta dal sito https://www.critikat.com/