29 agosto 2018

"Il gruppo" di Joseph O’Connor: solo una sporca storia di rock and roll

Le storie di rock and roll, inutile nasconderlo, possiedono sempre un certo fascino. La sete di aneddoti sulla vita dei musicisti è tale da sconfinare nel feticismo. Sarà che è diffusa la convinzione che le rockstar siano tali anche giù dal palco, nel quotidiano che si pensa non possa essere banale come quello di noi comuni mortali. “Iggy Pop è sempre Iggy Pop, anche quando si gratta le palle”, diceva un mio amico, riassumendo efficacemente il concetto.
Lo scrittore irlandese Joseph O’Connor ha trasformato questa passione in un avvincente romanzo. Ha inventato un gruppo, gli Ships in the night, e ne ha raccontato l’ascesa e la caduta. Questa, in sintesi, la trama. I quattro musicisti, Rob, Fran, Sean e Trez, partono dalla modesta periferia di Luton, per scalare le classifiche mondiali vendendo milioni di dischi. La vicenda è di fantasia, ma O’Connor è riuscito a darle verosimiglianza, soprattutto per aver miscelato sapientemente i personaggi inventati con quelli reali: Patti Smith, John Peel, Elvis Costello e altri fanno infatti capolino tra le pagine. Il libro può essere letto secondo una duplice prospettiva. Da un lato, è una rievocazione dell’Inghilterra thatcheriana degli anni Ottanta, stremata dalle lotte di classe e dalla mai risolta questione irlandese. D’altro canto, è una sorta di antologia del rock britannico di quegli anni gloriosi. La storia degli Ships è simile a quella di una miriade di gruppi del periodo post-punk, famosi o sconosciuti. O’Connor ricostruisce umori e suoni della grande stagione della new wave inglese, riprendendone inquietudini e riti ad uso di chi non ha avuto la fortuna di viverla.
La lenta scalata al successo degli Ships e la repentina caduta sono i temi centrali del libro, che non a torto è stato inquadrato nel genere dei romanzi di formazione. E in effetti O’Connor non si dilunga tanto sulla descrizione della fase finale della band, quella del successo. La parte più luminosa della carriera del gruppo viene liquidata in poche pagine, poiché all’autore interessa soprattutto indagare il percorso umano ed esistenziale dei personaggi, la loro crescita emotiva e professionale. Ma Il gruppo è anche una commovente storia di amicizia e redenzione, un’invettiva contro la seduzione del denaro e la spietatezza del mercato discografico, nonché un ammonimento sulla pericolosità del successo, capace di alterare gli equilibri delle persone più fragili.
La psicologia dei personaggi è sufficientemente approfondita, anche se alcuni passaggi risultano un po’ frettolosi. Si pensi a Fran, l’ambiguo e carismatico leader degli Ships, una sorta di icona glam punk a mezza strada tra Bowie e Morrissey. O’Connor è abilissimo nel tratteggiarne la personalità nella prima parte del volume, quella dell’inquieta adolescenza; il successivo profondo cambiamento, che porterà il cantante a scelte dolorose e discutibili, non è invece analizzato con la perizia che sarebbe stata necessaria.
Il gruppo è una lettura piacevole e agevole, ma ritengo non sia adatta a tutti. I romanzi che parlano di musica condividono la medesima sorte, ovvero di essere apprezzati soprattutto dagli appassionati, gli unici in grado di cogliere i tanti riferimenti a gruppi o dischi disseminati qui e lì. Ne consiglio pertanto la lettura a chi ha amato la new wave inglese o a chi, più semplicemente, si è immedesimato almeno una volta nelle vicende dei propri beniamini fino a volerne incarnare le sorti.

18 agosto 2018

Roscigno Vecchia, il paese abbandonato e i ricordi di un mondo che non c'è più

Sono tanti i villaggi abbandonati disseminati lungo lo Stivale. Alcuni sono stati lasciati dagli abitanti per cause naturali, come frane, inondazioni, alluvioni o terremoti; altri, invece, hanno subito eventi umani quali guerre, invasioni o decisioni d’imperio delle autorità. Roscigno, nel Cilento, rientra nella prima ipotesi. Costruito sul margine di una frana attiva, nei secoli è stato riedificato in due occasioni, fino al definitivo e graduale abbandono dopo l’ultima Guerra Mondiale. Il paese nuovo è stato ricostruito a circa un chilometro di distanza dall’antico centro storico, a cui è stato poi attribuito il nome di Roscigno Vecchia. Negli anni molte abitazioni sono crollate e altre hanno subito pesanti lesioni, eppure “il paese che cammina” (altresì detto la “Pompei del Novecento”) è ancora lì ad accogliere visitatori e curiosi.
Come tutti i luoghi abbandonati, anche Roscigno Vecchia ha un fascino particolare e straniante, ma soprattutto mantiene intatta la propria identità di borgo rurale del Mezzogiorno. Arrivare nel villaggio significa avere la possibilità di immergersi, sia pure per pochi minuti, in un mondo contadino che non esiste più. Tutto è rimasto com’era: la piazza con la fontana e gli abbeveratoi per gli animali, le case dalle imposte in legno e i muri scrostati raccolte in crocchio intorno alla chiesa di San Nicola, il vecchio cimitero, il pergolato del Bar Roma con l’insegna che riporta l’anno 1946, la bottega del ciabattino, le stalle e le stanze misere in cui vivevano famiglie numerose. Uno sguardo più attento potrà poi riconoscere i portali decorati dei palazzetti nobiliari e ciò che rimane delle cappelle private con le nicchie per le statue.
Per ragioni di sicurezza quasi tutte le abitazioni sono chiuse, ma a proprio rischio e pericolo è comunque possibile intrufolarsi in qualche casa e camminare sui solai retti da vecchie travi che si piegano al passaggio degli ospiti.
Più delle parole, sono le immagini a rendere l’idea dell'amenità del luogo.
 Scorcio della piazza (in fondo, la chiesa dedicata a San Nicola)
 Altro scorcio della piazza
 Una via del paese
 Interno della chiesa di San Nicola, con il soffitto ligneo dipinto
 Facciata della chiesa del villaggio
 La via principale, con gli abbeveratoi per gli animali
 Case dirute
 L'ingresso del Bar Roma
 Una via del paese, con un palazzetto nobiliare sulla destra
 Altro scorcio della piazza
Case abbandonate sul margine della frana

8 agosto 2018

Gino D’Eliso, un rocker italiano tra santi ed eroi

Non si può negare che il successo segua sovente strade imprevedibili. Certo, il talento e la fortuna rivestono un ruolo decisivo, ma non sono gli unici elementi in gioco. In un Paese dalle molte periferie qual è l’Italia, nascere ed esprimersi artisticamente al di fuori dei grandi centri può essere un handicap; se poi la proposta musicale è pure atipica, raggiungere il grande pubblico diventa una chimera. Questo è successo a Gino D’Eliso, chitarrista e cantautore nato a Trieste nel 1951. Un rocker nostrano con quattro LP all'attivo: Il mare (1976), Ti ricordi Vienna? (1977, con echi new-wave), Santi ed eroi (1979) e l’ultimo Cattivi pensieri (1983).
Il terzo disco, Santi ed eroi, fu pubblicato dall’etichetta sussidiaria della Philips, la Phonogram, nel 1979. Accattivante la copertina in stile fumettistico, con l'artista in primo piano in posa da duro, chitarra elettrica bianca e sigaretta tra le dita. A leggere i crediti c’è da rimanere stupiti della qualità dei musicisti coinvolti, a dimostrazione della stima di cui godeva il bravo cantante triestino. Il disco si avvale della collaborazione di musicisti di primissimo piano della scena rock italiana degli anni Settanta: Walter Calloni alla batteria, Claudio Dentes alla chitarra, Paolo Donnarumma e Bob Callero al basso, Tony Soranno alle chitarre elettriche, Claudio Pascoli ai fiati, nonché il grande Lucio “Violino” Fabbri. Stiamo parlando di musicisti sopraffini, gente che suonava con artisti del calibro di PFM, Area, Fossati, Finardi, Camerini, Daniele, De Andrè, Battisti, Dalla, Stratos, Bennato. Secondo le parole dello stesso D'Eliso, il disco venne suonato in un festoso «clima da jam session», cosa di cui non dubitiamo data la straordinaria qualità degli strumentisti.
Santi ed eroi è un lavoro originale e interessante, tuttavia di difficile classificazione. Già dai primi solchi emergono i punti di riferimento di D’Eliso, che sono in egual misura la canzone italiana e il rock and roll americano, entrambi filtrati attraverso una sensibilità mediterranea e balcanica, tipica di una Trieste crocevia di identità e culture differenti. Una musica in continua evoluzione e in cerca di una definizione, che lo stesso artista chiamerà poi mitteleurock, come il titolo di un singolo pubblicato nel 1980.
Il lato A è decisamente ispirato e vario. I due pezzi forti sono marcatamente rock, con le chitarre elettriche in evidenza: la pimpante Quelli più belli e l’inno ribelle L’età migliore. Altrettanto efficaci e intriganti sono L’ora del tè e Iole antica Iole, che ricorda un po’ lo stile di Ivan Graziani, mentre La notte si esalta in un azzeccato ritornello. I cinque brani mostrano i vari volti di un artista originale e non classificabile, che sapeva passare con eguale disinvoltura dalla rock song alla canzone d’autore.
La seconda facciata inizia con la riflessiva Come sempre primavera, all’epoca lanciata come singolo. La canzone che dà il titolo all’album, Santi ed eroi, si apre con ritmi balcanici, per poi espandersi in un efficace riff di chitarra elettrica. Ricordi di vita triestina emergono invece nella commovente Povera gente, nella ironica Capitan Domenico, nonché nella riflessiva Casa mia (Cuĉa moja).
Non bisogna farsi ingannare dal fatto che in pochi ricordino l’artista triestino: Santi ed eroi è davvero un bel disco, suonato bene e con testi sopra la media. In un panorama piuttosto desolante quanto a rocker nostrani, Gino D’Eliso avrebbe meritato molto più spazio. Se riuscite, procuratevi questo 33 giri o il successivo Cattivi pensieri.
La copertina di Santi ed eroi e il retro del 33 giri