25 agosto 2020

"Nelle terre estreme" di Jon Krakauer: la tragedia di un Thoreau dei nostri giorni

Chi era davvero Chris McCandless? È il quesito a cui Jon Krakauer cerca di dare una risposta nel suo celebre reportage Into the wild, tradotto impropriamente in italiano come Nelle terre estreme. Il giornalista e alpinista americano non dà una risposta, né sembra propendere per una tesi, dimostrando grande onestà intellettuale e sincera compassione per McCandless. Rimangono in piedi tre ipotesi, che poi sono quelle da subito sostenute dai lettori della rivista Outside, che per prima dedicò ampio risalto alla vicenda. Secondo una prima tesi, forse superficiale e assolutista, Chris aveva problemi psichici, o comunque era un temerario, un dilettante allo sbaraglio che “se l'è cercata”. Altri invece accostano la sua scelta alla disobbedienza civile di Thoreau, sostenendo che il giovane desiderasse soltanto fuggire da dogmi e catene della società contemporanea, in cui non si riconosceva. C'è poi chi sostiene il cliché del giovane di buona famiglia che si lancia in un'avventura rischiosa per vincere la noia e superare i limiti di una quieta esistenza borghese. Qual è la verità? Forse è nel mezzo delle tre interpretazioni. 
Chris McCandless era un giovane americano che nel 1990, subito dopo la laurea, decise di abbandonare la civiltà per vivere sulla strada e infine raggiungere da solo, a piedi e portando con sé il minimo indispensabile, la vetta del monte McKinley (o Denali) in Alaska. Prima di intraprendere il viaggio verso le terre estreme – o meglio, “nel selvaggio”, come suggerisce il titolo originale –, Chris abbandonò ogni bene materiale, lasciando la sua auto nel deserto e donando in beneficenza i risparmi. Più che l'avventura, sarà la morte in solitaria a renderlo celebre.
Nelle terre estreme, di Jon Krakauer, è il resoconto di questa straordinaria esperienza, purtroppo conclusasi tragicamente il 18 agosto 1992. L'autore è un giornalista e alpinista che, subito dopo il ritrovamento della salma del ragazzo, scrisse un articolo sulla rivista Outside, che ebbe vasta eco e diede fama postuma a McCandless. La mole di reazioni dei lettori e il dibattito che seguì, spinsero Krakauer a documentarsi meglio sulla vicenda per scrivere una biografia del giovane, diventata presto best-seller. Si tratta dunque di un'appassionata inchiesta giornalistica che cerca di indagare le cause della tragedia di McCandless. Il libro è tutto sommato avvincente, invero più per la straordinarietà della storia che per l'abilità letteraria di Krakauer. Il giornalista, nello sforzo di ricostruire a tutto tondo la figura di McCandless, si dilunga in particolari sulla vita, la famiglia, le amicizie e l'infanzia del ragazzo, aspetti che talvolta appesantiscono il ritmo della narrazione e poco aggiungono al nucleo centrale della storia. Quando invece si concentra sulle peregrinazioni del ragazzo nel cuore dell'Alaska, il libro sa lasciare il segno nella memoria dei lettori, pur non perdendo mai il taglio giornalistico di stretta aderenza alla realtà. Per questo non concordo con quanti sostengono che si tratti di un romanzo; è lo stesso Krakauer a mantenere i toni dell'inchiesta, disseminando le pagine di interviste a quanti conobbero il ragazzo, ritagli di giornale, precisi riferimenti storici, geografici, medici e botanici.
Al di là dei limiti, Nelle terre estreme è un libro che merita di essere letto, perché rende giustizia a una figura tragica e ribelle, altrimenti destinata all'oblio. Novello Thoreau o lupo che segue per istinto il richiamo della foresta, Chris McCandless è stato un ragazzo in grado di operare una scelta controcorrente, spingendosi sino alle estreme conseguenze.
Copertina dell'ultima edizione italiana (Corbaccio, luglio 2020)

13 agosto 2020

Quando Venere omaggiò il Cilento con una ciocca dei suoi capelli

Il Cilento è terra del mito, forse più di ogni altra in Italia; basti pensare alla vicenda del nocchiero Palinuro, oppure alla sirena Leucosia. C'è un'altra leggenda, forse meno nota delle altre perché conosciuta soltanto a livello locale, eppure ugualmente affascinante. Si racconta che la dea Venere fosse di passaggio nel basso Cilento, quando un pastore notò la sua straordinaria bellezza e ne rimase folgorato. L'innamoramento si tramutò in ossessione, al punto che il giovane, nottetempo, tagliò una ciocca di capelli alla dea addormentata. Venere, furente per la mancanza di rispetto, in un primo momento pensò di punire in modo esemplare il pastore, mutando infine il suo intendimento per compassione. Trasformò allora la ciocca di capelli in una cascatella di acqua cristallina, e il giovane in una pianta sempreverde adagiata sul fondo del rivo, consentendogli di sublimare il suo amore in un eterno presente.
Nacquero così, secondo la leggenda, le cascate chiamate “Capelli di Venere”, che oggi si trovano nel territorio del comune di Casaletto Spartano, nel primo entroterra del basso Cilento, non lontano dalle celebri località costiere di Policastro e Sapri. Per custodirle e renderle visitabili è stata creata una meravigliosa oasi, accessibile al modico prezzo di tre euro. L'oasi si trova in località Capello, poco prima dell'ingresso al paese, lungo la strada che porta alla frazione Battaglia. Il corso d'acqua che dà vita alle cascate è il Rio Casaletto, altresì noto come torrente Bussentino perché è un affluente dell'importante fiume Bussento.
Diversi i punti di interesse, che rendono la visita al sito una tappa obbligata per chi si trova in Cilento. L'attrazione principale sono ovviamente i “Capelli di Venere”, le delicate e sottili cascatelle che l'acqua del Bussentino disegna scorrendo sopra le piante di capelvenere, che crescono direttamente sulle rocce. Le cascate sono sovrastate da un esile ponte in pietra, probabilmente di origine medioevale, non percorribile. Gli escursionisti più esperti possono decidere di risalire il corso sassoso del Bussentino, magari saltando da una pietra all'altra, in un vallone costeggiato da ombrosi boschi. I meno temerari possono invece visitare un antico mulino ad acqua, recentemente restaurato, che conserva alcuni cimeli di storia locale, come le testimonianze del passaggio di Garibaldi e Pisacane. Proseguendo il corso del torrente in direzione della foce, si arriva a una cascata artificiale, nei cui dintorni sono sistemati tavoli e sedili per la sosta.
L'Oasi Capelli di Venere è un sito silenzioso e selvaggio, lontano dai grandi flussi turistici eppure ricco di storia e suggestioni. Soprattutto, è la dimostrazione che il Cilento non è solo mare, e che anzi le radici del suo passato mitico si trovano anche nell'entroterra.
Ringrazio Sara Nigro per le fotografie.
L'ingresso all'Oasi

Le cascate dette "Capelli di Venere"

Il ponte medioevale sul Bussentino

Il corso del torrente
La cascata artificiale

2 agosto 2020

I ruggenti anni Ottanta di Francesco Nuti: una classifica personale

Di recente ho rivisto tutti i film girati da Francesco Nuti negli anni Ottanta, ad eccezione di Son contento, che mi sono ripromesso di reperire. Li avevo già visti da adolescente ed ero rimasto affascinato dalla comicità scanzonata e malinconica di Nuti, sebbene non avessi ancora la capacità di comprenderla fino in fondo. A distanza di tanti anni ho scelto di riassaporare le pellicole del periodo 1981-1989, che secondo critica e pubblico sono le  migliori dello sfortunato attore e regista toscano. Auspicando che qualcuno voglia esprimere nei commenti il suo punto di vista, questa è la mia personale classifica.

1. Caruso Pascoski di padre polacco (1988). Il mio preferito, sin dal titolo. Una trama non banale e tante scene da ricordare. Forse il film più celebre di Nuti, anche se non tutti concordano nel ritenerlo il più riuscito. Eppure non conosce momenti di calo, riesce a mantenersi sul medesimo livello dall'inizio alla fine. Cast azzeccatissimo, che dà il giusto risalto al mattatore Nuti.
Scena da ricordare: le irresistibili gag di Caruso al cinema, che cerca di intrufolarsi nel bagno delle signore.

2. Io, Chiara e lo Scuro (1982). La coppia Nuti/De Sio funziona alla perfezione, regalando una storia d'amore non convenzionale. Il film è celebre perché racconta il mondo del biliardo all'italiana, con la straordinaria partecipazione di Marcello Lotti. Girato quasi tutto in notturna in una Roma spettrale, tra bische, tram e appartamenti da bohémien, è un film leggero e godibile, attraversato da una sottile malinconia.
Scena da ricordare: quando il Toscano spiega a Chiara perché è innamorato del biliardo.

3. Madonna che silenzio c'è stasera (1982). È il secondo lungometraggio della carriera di Nuti, all'epoca ventisettenne. Sconta forse una certa ingenuità di fondo, ma rimane un film bellissimo e malinconico, in grado di fotografare un'epoca (gli Ottanta del riflusso ideologico), una città emblema della provincia italiana (Prato), un'intera generazione disillusa e stanca. E per quanto possano essere diversi i tempi e le circostanze, ciascuno di noi potrà trovare nel protagonista una parte di sé.
Scene da ricordare: la lotta di Francesco con il telaio meccanico; il botta e risposta col barista Chiaramonti.
Battuta da ricordare: “Le cose importanti nella vita sono tre: o tu vai in Perù, o tu sposti la chiesa o tu vinci al Totocalcio”.

4. Willy Signori e vengo da lontano (1989). È forse l'opera della maturità di Nuti, il vertice di una produzione che purtroppo andrà declinando assieme alla fine degli anni Ottanta, di cui è stato uno dei migliori narratori. L'attore, qui anche nelle vesti di regista, sa passare abilmente dal registro drammatico a quello comico, costruendo una vicenda ironica e profonda, che non cede mai a facili patetismi.
Scena da ricordare: gli alterchi tra Willy (Nuti) e il suo fratello disabile Ugo (Haber).

5. Ad ovest di Paperino (1981). L'esordio sul grande schermo di Nuti, qui assieme ad Alessandro Benvenuti e Athina Cenci (i Giancattivi). Pellicola surreale, picaresca e anarchica, che racconta le quotidiane peregrinazioni di tre giovani sfaccendati alla ricerca di un posto nella vita. La forza sta nella spontaneità dell'interpretazione.
Scena da ricordare: il pranzo a casa di Novello Novelli.

6. Casablanca, Casablanca (1985). Ritorna la coppia Nuti/De Sio, trattandosi del seguito di Io, Chiara e lo Scuro. Inferiore al precedente, perché non ne possiede la freschezza e la spontaneità. Resta comunque una pellicola raffinata e godibile, che dà una pista a tante commediole contemporanee.
Scena da ricordare: l'uomo che dorme sul pianerottolo dell'albergo di Casablanca, utilizzato come sfogatoio e da prendere liberamente a schiaffi.

7. Tutta colpa del paradiso (1985). È il primo del felice sodalizio artistico con Ornella Muti. È ricordato per la meravigliosa ambientazione (la Val d'Aosta) e perché affronta con grande tatto un tema spinoso, l'allontanamento di un minore dai propri genitori per intervento dei servizi sociali. Molti lo considerano il film migliore di Nuti, o comunque quello della piena maturità artistica, che si manifesta nel saper maneggiare una storia toccante senza toni lacrimevoli e facili pietismi.
Scena da ricordare: Romeo che entra nel desolante bar del paese e cerca di raccogliere informazioni sul figlioletto.

8. Stregati (1986). Superba la fotografia, che esalta una Genova notturna e maliziosa. È la pellicola che mi è piaciuta di meno, perché si percepisce un certo narcisismo nella recitazione da parte di Nuti, che fu peraltro la principale accusa dei suoi detrattori all'uscita del film. Lorenzo, il protagonista, non riesce mai a entrare nel mio cuore, forse perché mi risulta difficile una sia pur parziale identificazione con il personaggio. La sceneggiatura è debole, un gradino sotto le altre commedie.
Scena da ricordare: lo scherzo architettato alla povera Clara da parte di Lorenzo e i suoi amici.
Locandina di Caruso Pascoski di padre polacco