25 dicembre 2020

Dieci anni del blog, lunga vita al blog!

Questa è una delle rare occasioni, se non l'unica, in cui il blog parla di sé. Lungi da qualsivoglia intento celebrativo, sono felice di annunciare che tra pochi giorni Inveni portum taglierà il simbolico traguardo dei dieci anni. Il primo post è datato gennaio 2011, in concomitanza con la presentazione del mio primo romanzo, Percezione dell'inverno. La promozione della mia modesta produzione letteraria è stata la molla che mi ha spinto ad aprire questo piccolo approdo nel mare magnum della rete. 
Nel corso degli anni il blog ha cambiato veste, grafica, contenuti e nome, fino ad assumere la forma attuale. Finora ho pubblicato circa duecentocinquanta articoli, per oltre ottantamila pagine visitate. Numeri forse modesti, se si pensa che qualsiasi famoso influencer riesce a raggiungerli in pochi giorni (e con poco sforzo), ma la cosa non mi preoccupa. Inveni portum sa tenersi a galla, sa farsi apprezzare, riesce a farsi notare, anche nel lungo periodo. Basti pensare alle volte che, cercando la recensione di un libro o di un disco, il blog appare nella prima pagina dei motori di ricerca. Piccole soddisfazioni, che danno lo stimolo per andare avanti. 
Alcuni articoli hanno avuto un certo successo, tanto da essere citati da siti ben più autorevoli, altri hanno ricevuto apprezzamenti sui social o dai soggetti direttamente coinvolti. Ho poi avuto l'onore di intervistare personaggi del calibro di Massimo Zamboni, Lee Fardon, Miro Sassolini, Dante Maffia e altri. E ancora, su Inveni portum vengono spesso pubblicati contenuti lontani dalle mode del momento, contribuendo a far luce su autori, musicisti, pellicole e luoghi dimenticati o meno noti. 
Inveni portum dichiara orgogliosamente di professare un “pensiero non allineato”. Massima libertà di contenuti, dunque, e nessuna preclusione ideologica. Così è stato nei primi dieci anni e così sarà in futuro. E allora, ringraziando tutti i lettori, i commentatori, i detrattori, gli estimatori, e quanti sono stati ospitati idealmente e concretamente su queste pagine, posso solo dire: “Tanti auguri al blog, lunga vita al blog!”. 
Ne approfitto per augurare a tutti voi un buon Natale e un felice anno nuovo.

12 dicembre 2020

"Eureka Street" di Robert McLiam Wilson: la voce della maggioranza silenziosa

Leggendo Eureka Street (1996) mi sono reso conto di quanto fosse superficiale la mia conoscenza dei cosiddetti Troubles. È una parola generica e pregna di un'ironia tipicamente britannica, traducibile come “problemi” o “disordini”, che indica in gergo il conflitto nordirlandese che si è combattuto tra il 1969 e il 1998. Le ragioni storiche del lungo bagno di sangue che ha opposto cattolici e protestanti, repubblicani i primi e lealisti i secondi, sono complesse e non basta un romanzo per spiegarle fino in fondo. Purtuttavia, il libro di McLiam Wilson è riuscito a darmi un'idea più precisa della guerra a bassa intensità combattuta in Ulster, grazie anche a un utile glossario aggiunto dai curatori dell'edizione italiana. 
Nel caleidoscopio di personaggi che popolano le pagine di Eureka Street, Jake e Chuckie sono i principali. Il primo è cattolico e tira a campare con lavoretti occasionali, cercando un amore che dia un senso profondo alla sua esistenza. Il secondo è protestante e ha una personalissima e strampalata vena per gli affari, che lo porterà inaspettatamente al successo. Nonostante la differente confessione religiosa, sono amici da una vita e non hanno mai sentito la necessità di scontrarsi sul terreno della politica. Le loro giornate sono scandite da tappe fisse e uguali da anni: il lavoro, le serate al pub con gli amici di sempre, i goffi tentativi di conquistare le ragazze. 
Eureka Street cala il lettore nell'atmosfera infuocata di Belfast; è un viaggio nei quartieri borghesi e nei sobborghi proletari, entrambi teatro di un conflitto che non è solo religioso, ma anche economico e sociale. McLiam Wilson racconta l'anima profonda della città e nulla nasconde: i murales, le sigle sui muri, gli scontri, la strisciante miseria, la violenza fisica e verbale, le bombe. Belfast è di fatto la vera protagonista del romanzo; nelle pagine di maggiore intensità lirica, assume quasi le sembianze di un essere vivente, dotato di una propria sensibilità. E non è un caso che il romanzo sia di fatto diviso in due parti, il cui spartiacque è il crudele episodio della bomba a Fountain Street. L'attentato, descritto in tutti i suoi particolari più crudi, segna una cesura narrativa e stilistica. La prima parte si mantiene su toni leggeri e umoristici perché i Troubles sono sullo sfondo: le scritte sui muri, i posti di blocco, i bollettini alla radio che elencano i feriti del giorno. Nella seconda parte, invece, irrompe la Storia, che ha il volto violento di una terribile esplosione. Immediatamente la narrazione cambia: il romanzo assume toni plumbei, mentre una cortina di dolore e amaro stupore cala sul cuore dei personaggi. Il dolore è palpabile e colpisce come un pugno allo stomaco persino i lettori meno impressionabili. 
Eureka Street è un libro profondo, e non solo per l'impegno civile che traspare dalle sue pagine. La lezione di McLiam Wilson va oltre il dato socio-politico: lo scrittore nordirlandese vuole dirci che esiste una maggioranza silenziosa, fatta di cattolici e protestanti, che desidera solo vivere la propria vita in pace, senza impantanarsi nelle ragioni – spesso astruse – del conflitto. È una maggioranza fatta di tanti Jake e Chuckie, che non propugna idee oltranziste, che non predica la morte sui muri e non semina odio per le strade e nei pub. Questa maggioranza risponde solo alla legge universale dell'amore e della fratellanza, a cui anela. Ecco perché alla notizia del cessate il fuoco, anche le pagine del libro recuperano i toni ariosi e umoristici della prima parte, sino al sofferto ma catartico lieto fine. 
Le recensioni e i commenti della critica sono pressoché unanimi, spesso addirittura entusiastici. La mia opinione è in parte diversa: lo ritengo un buon libro, che fa sorridere e riflettere, ma non ha l'appeal di un'opera di culto. L'ho trovato un po' lontano dalla nostra esperienza, strettamente legato a una realtà locale che, per quanto nota a tutti, non può avere una valenza universale. Semplificando, si potrebbe dire che è un romanzo dalla forte impronta ideologica, che non potrà mai essere compreso fino in fondo da chi non ha vissuto sulla propria pelle la realtà di Belfast, città divisa da un odio secolare. È dunque il grande affresco di un'epoca che (si spera) non tornerà più, di sicuro interesse per quanti vogliano approfondire una delle pagine più sanguinose della storia recente europea.

30 novembre 2020

Roma da (ri)scoprire n. 2: luoghi di raccoglimento immersi nel verde

Come ho scritto nella prima puntata di questa rubrica, a Roma ci sono innumerevoli tesori che si collocano ai margini dei consueti giri turistici. Sono chiese, monumenti, edifici e manufatti dal grande valore intrinseco, che tuttavia patiscono la concorrenza di altre e più blasonate opere d'arte. Oggi vorrei consigliare un breve itinerario, poco noto ma di grande impatto emotivo. 
Via di Porta Latina e Via di Porta San Sebastiano sono due strade silenziose (quando sono chiuse al traffico veicolare) e immerse nel verde, che corrono quasi parallele e si incrociano in Piazzale Numa Pompilio, in prossimità della casa di Alberto Sordi, oggi museo. Percorrendo le due strade in un giro quasi circolare si incontrano così tanti punti di interesse – anche se meno noti di altri – che appare incredibile una tale ricchezza di attrattive in poco più di un chilometro. In questo angolo di verde, che segue l'antico tracciato della Via Appia, sembra di essere fuori città. Si incontrano tre sedi diplomatiche (ambasciate di Canada e Norvegia, residenza dell'ambasciatore del Giappone), due ville con alberi secolari (Parco degli Scipioni e Parco San Sebastiano), due siti archeologici (Sepolcro degli Scipioni e Casina del cardinal Bessarione), il Museo delle Mura e tre edifici religiosi (San Cesario in Palatio, San Giovanni in Oleo e San Giovanni a Porta Latina). Vorrei parlare proprio di queste ultime due, che costituiscono la parte più interessante della visita. 
Il lungo viale del Parco San Sebastiano

L'Oratorio di San Giovanni in Oleo si trova subito dopo il passaggio della Porta Latina, sulla sinistra. È un piccolo edificio ottagonale, che già dalle ridotte dimensioni dà l'idea del raccoglimento e della preghiera. Secondo la tradizione, sorge sulle rovine di un martyrium, edificato nel secolo V nel luogo dove il Santo sarebbe stato immerso in un recipiente di olio bollente (in oleo), uscendone miracolosamente illeso. Al tempo di Giulio II venne rinnovato su progetto di Antonio da Sangallo il Giovane, per assumere infine la forma attuale nel 1658 ad opera del Borromini, su incarico del cardinale Francesco Paolucci. Il Borromini si occupò del piccolo oratorio subito dopo aver completato il progetto di restauro del Battistero lateranense, tanto che uno dei disegni preparatori del battistero sarebbe stato utilizzato come base per la progettazione dell'oratorio. All'interno è un ciclo di affreschi con Storie di S. Giovanni Evangelista, opera di Lazzaro Baldi. Caratteristica la copertura, perché al tamburo è stato sovrapposto un attico circolare decorato con fregi e sormontato da una croce. L'oratorio è quasi sempre chiuso, ma una finestrella consente di ammirarne con sufficiente completezza l'interno. Purtroppo i muri perimetrali vengono periodicamente imbrattati da vandali. 
L'oratorio visto da Porta Latina
Proseguendo lungo Via di Porta Latina, una svolta a destra ci conduce a un ameno e silenzioso spiazzo, in cui si erge la Basilica di San Giovanni a Porta Latina, protetta da una cancellata che si apre su un grazioso giardino con un caratteristico pozzo. Risalente al V secolo, è stata più volte trasformata, fino al recente restauro degli anni 1940-1 che ne ha ripristinato le forme medievali. Sulla facciata si aprono tre finestroni, ed è preceduta da un austero portico a cinque arcate su colonne in marmo e granito con capitelli ionici. Sotto il portico ci sono frammenti romani e paleocristiani, nonché resti di affreschi medievali. Sulla sinistra si slancia il campanile romanico a bifore e trifore. L'interno è a tre navate, suddivise da antiche colonne di spoglio, l'una diversa dall'altra. La navata centrale è decorata da un ciclo di dipinti risalenti alla fine del XII secolo, con scene dei Testamenti.
È una passeggiata silenziosa e rilassante, che consiglio di intraprendere di domenica, quando i rumori della città sono attutiti e (spesso) le strade sono chiuse al traffico.
Le informazioni storico-artistiche sono tratte dalla Guida rossa del T.C.I., volume su Roma. Le fotografie sono del sottoscritto.
La facciata di San Giovanni a Porta Latina

18 novembre 2020

"L'amore non guasta" di Jonathan Coe: le tante voci di un romanzo corale

Leggendo questo romanzo giovanile di Coe ho avuto l'impressione di un divario tra le probabili intenzioni dell'autore e il risultato finale. Cercherò di spiegare meglio il concetto, sicuramente opinabile al pari di ogni altra considerazione personale. L'amore non guasta è un romanzo ambizioso, che cerca di affrontare a gamba tesa e senza giri di parole alcune tematiche tra le più dibattute e controverse: la depressione, il suicidio, il senso profondo dell'amore, l'amicizia tradita, il fallimento individuale e collettivo. E lo fa con una storia cruda e amara, che lascia poco all'immaginazione e si impone sul lettore come un pugno allo stomaco, volutamente. Prima ancora della trama, si consideri brevemente la struttura dell'opera: la storia è raccontata da almeno sei punti di vista differenti, come pezzi di un puzzle di ardua composizione. L'intreccio è complicato da continue analessi e veri e propri “racconti nel racconto”, che forniscono ulteriori punti di vista, a volte confondendo persino il lettore scrupoloso. In questo senso è un romanzo ambizioso, perché Coe non si è accontentato di vestire i panni del narratore tradizionale, ma ha voluto affrontare tematiche spinose in maniera innovativa, o comunque non banale. Sembra quasi che la struttura del libro si adatti alla multiforme complessità del reale
Terminata la lettura, ci si interroga se la scelta dell'autore sia stata felice; la risposta non può che essere interlocutoria, almeno secondo il mio punto di vista. Prevale forse una certa confusione di fondo, l'impressione di non aver capito tutto, di aver solo parzialmente approfondito gli spunti di riflessione lanciati da Coe. Eppure, non si sente la necessità di rileggerlo da capo, perché si intuisce che quanto l'autore voleva dire sarebbe stato compiutamente espresso nei lavori successivi, da La banda dei brocchi a La famiglia Winshaw. Come ho scritto altrove, lo scrittore britannico ama la complessità dell'intreccio, resa dal continuo succedersi dei narratori e intersecarsi dei punti di vista, che rende talvolta macchinosa la trama. Questo meccanismo è già presente ne L'amore non guasta, ma sarà perfezionato nei lavori a venire, diventando una sorta di marchio di fabbrica. Riallacciandomi all'incipit della recensione, è qui che si nota un divario tra le intenzioni di Coe e la resa finale, tanto temerarie le prime da non essere messe definitivamente a fuoco. 
Parlando brevemente della trama, tutta la vicenda ruota intorno alla figura di Robin, eroe tragico e sensibile, destinato inevitabilmente alla sconfitta. Siamo a Coventry, in piena epoca thatcheriana; Robin è un giovane alle prese da oltre quattro anni con la stesura della tesi di dottorato, mai terminata e forse mai davvero iniziata. Il ragazzo è affetto da un oscuro male di vivere, causato da continui fallimenti nello studio, nelle amicizie, nella scrittura, nell'amore. Ed è in particolare un vecchio amore non corrisposto a costituire la miccia di un corto circuito mentale che lo condurrà a un tragico finale. La sua vicenda viene narrata da soggetti terzi: un vecchio amico, un collega di università, un'amica indiana, un'avvocatessa che ha preso a cuore una sua vicenda giudiziaria. Le voci di questi personaggi sono intervallate dai racconti scritti da Robin, utilizzati come strumento per cercare di dipanare il mistero che avvolge la sua figura. Proprio in questo canto corale si manifesta la peculiare struttura del romanzo, come ho già evidenziato. 
Non consiglio la lettura di questo romanzo a quanti vogliano avvicinarsi per la prima volta a Jonathan Coe; si corre il rischio di rimanere interdetti, forse persino delusi. Sarebbe preferibile iniziare da La banda dei brocchi, oppure dal leggero e divertente Questa notte mi ha aperto gli occhi. Ciononostante, L'amore non guasta è un libro che prima o poi va affrontato, perché proprio nell'imperfezione si cela il suo punto di forza. Un po' come Robin, un po' come tutti gli altri personaggi, un po' come noi tutti.

6 novembre 2020

La terra di nessuno tra dolcezza e furore: "Big red letter day"

Leggendo i commenti degli utenti di YouTube sotto i video dei Buffalo Tom, ricorre spesso l'aggettivo “underrated”, ossia “sottovalutati”. In effetti il terzetto bostoniano, tuttora attivo sulle scene, rimane un nome di nicchia, ignorato dai più e ricordato al massimo con qualche breve trafiletto sulle enciclopedie del rock. Il periodo è quello che ha visto esplodere band come Dinosaur Jr. e Pixies, che hanno raggiunto la fama o comunque una certa notorietà. Pur rientrando nel medesimo calderone del rock alternativo di fine anni Ottanta / inizio Novanta, i Buffalo Tom non sono mai riusciti a salire alla ribalta, nonostante un pugno di buoni album e una manciata di ottime ballate. Si ascolti in proposito Summer, che pure appartiene alla stagione più tarda.
Il gruppo si è formato nel 1986 e ha mantenuto sempre la stessa formazione. Bill Janowitz (chitarra e voce), Christopher Colbourn (basso) e Tom Maginnis (batteria) avevano assimilato la scuola del post-punk e del nascente grunge, ma volevano ammansire il suono per adattarlo a un gusto meno estremo, soffusamente malinconico. Ecco allora canzoni che strizzano l'occhio alla melodia, pur indulgendo talora in selvagge bordate chitarristiche. È questo il suono dei Buffalo Tom, che partono da una matrice college rock profondamente americana per avventurarsi nella corrente alternativa del decennio 1990-1999, con le sue nervose divagazioni elettriche. I Buffalo Tom si muovevano coraggiosamente in questa terra di nessuno, troppo puliti per i più intransigenti, troppo alternativi per conquistare il grande pubblico dei passaggi radiofonici.
Il disco di cui voglio parlare, Big red letter day (1993), è il quarto della loro discografia, che ad oggi conta soltanto nove episodi. Abbandonata la supervisione e la produzione di J Mascis, con questo lavoro i bostoniani puntavano alla maturità artistica e (perché no) a qualche passaggio radiofonico con pezzi meno sperimentali e più orecchiabili. Il terzetto fa affidamento alla formula consolidata chitarra-basso-batteria, anche se non mancano innesti di organo hammond e persino cori femminili (in Tree house). La puntuale sezione ritmica di Colbourn/Maginnis è la base su cui si impongono le chitarre di Janovitz, ora melodiose ora disturbate. Quest'ultimo non ha la prestanza o la potenza della rockstar, ma una voce carica di espressività e pathos, che regala intense emozioni (I'm allowed su tutte).
In questo lavoro si evidenzia l'alternanza tra dolcezza e furore che, come detto, costituisce il marchio di fabbrica della loro maturità. Ci sono in egual misura pezzi tiratissimi e morbide ballate, a evidenziare le due anime del trio. Un'analisi traccia per traccia è superflua, perché di fatto tutte le canzoni si mantengono sullo stesso pregevole livello, senza tuttavia far gridare al miracolo. Spicca la stupenda I'm allowed, una ballata elettrica tra le più intense degli ultimi trent'anni, che meriterebbe di essere inserita in ogni raccolta di rock alternativo che si rispetti. Pregevoli le altre tracce “soffici”: Late at night, Anything that way e Would not be denied. Quando invece i Buffalo Tom premono sull'acceleratore, i risultati non sono sempre apprezzabili: promosse Sodajerk e Torch singer, poco convincenti Dryland e Tree house.
Big red letter day è un buon disco, diviso tra i poli antinomici della spensieratezza e della sottile malinconia. Terminato l'ascolto, ci si chiede per quale ragione non sarà facile dimenticare i Buffalo Tom, che avranno sempre un posto speciale nel nostro cuore. Sarà perché ci ricordano i tempi dell'università, qualcosa che abbiamo vissuto o avremmo voluto vivere, gli anni Novanta, la fine della prima giovinezza, l'amara scoperta di sé. Canta bene Janowitz in I'm allowed: «waited for an answer / but I waited for twenty five years; / they stopped my bleeding / but could never stop all those tears». Big red letter day non è facile da reperire, anche se è stato ristampato in vinile nel 2018, in occasione dei venticinque anni dalla sua uscita. Io ho trovato la prima stampa italiana del 1993, un LP in buone condizioni all'onesto prezzo di venticinque euro.

26 ottobre 2020

"Il maledetto libro di storia…" di Lorenzo Del Boca: due secoli di verità di comodo

Il maledetto libro di storia che la tua scuola non ti farebbe mai leggere, di Lorenzo Del Boca, si inserisce nel filone storiografico “revisionista” che negli ultimi anni ha ottenuto successo di pubblico, grazie soprattutto ad alcuni saggi che forniscono una versione alternativa della vicenda risorgimentale e della genesi della Questione meridionale. Il libro di Del Boca condivide pregi e difetti di questa fortunata corrente. Il principale pregio è nella scelta di un punto di vista non conforme alla vulgata ufficiale, ossia «la storia ideologizzata che si presenta con le caratteristiche della propaganda». La storia, spiega l'Autore, è sempre stata scritta per glorificare i vincitori e demonizzare gli sconfitti, amplificando le virtù dei primi ed esagerando i difetti dei secondi. Egli si propone pertanto l'ambizioso scopo di riscrivere le vicende italiane degli ultimi due secoli secondo una prospettiva eccentrica rispetto a quella dominante. L'obiettivo dei suoi strali polemici sono ovviamente i libri scolastici, che peccano di approfondimento e tendono ad assumere un punto di vista acritico, tutto orientato in favore dei vincitori.
Ponendosi come un'alternativa ai testi canonici, il saggio mantiene uno stile volutamente divulgativo, a volte persino semplicistico. Vengono alla luce taluni limiti, che tuttavia non inficiano la bontà complessiva del volume. Lorenzo Del Boca non è uno storico di professione, ma un giornalista che si occupa di storiografia; sa dunque di non dover perseguire l'asettica obiettività del professore, ma di potersi lanciare in valutazioni personali, spesso irriverenti, indiscrezioni giornalistiche, storie di letto che hanno il sapore del pettegolezzo. Si pensi al giudizio sui Savoia: spietato, senza appello né indulgenza. Con ciò non voglio certo affermare che uno storico debba essere servile o adulatore nei confronti dei potenti; chiunque abbia un minimo di conoscenza della storia italiana non può che avere un'opinione estremamente negativa su Casa Savoia. Eppure, lo storico di professione deve sapersi distaccare dagli eventi narrati, vestendo l'indignazione con le parole e l'atteggiamento dello scienziato, anziché con la rabbia del partigiano deluso. Libri come questo di Del Boca, e altri dello stesso filone, scontano purtroppo un atteggiamento caustico e indisponente, che li rende facile bersaglio degli storici di professione. Spero di non essere frainteso: lungi da me l'affermare che questi volumi non abbiano il grande merito di aprire gli occhi del lettore, facendogli conoscere una verità spesso diversa e più amara di quella edulcorata raccontata dai libri di scuola. Rimane però un “sapore giornalistico”, che di per sé non è un male, ma li espone alle opinioni non lusinghiere dell'accademia.
Il maledetto libro è diviso in due parti, Ottocento e Novecento. La prima è sicuramente la migliore e la più approfondita, offrendo un quadro esaustivo delle complesse vicende che vanno dalla Restaurazione del 1815 all'uccisione di Umberto I ad opera di Gaetano Bresci. Esemplari i capitoli dedicati alla conquista del Regno delle Due Sicilie e degli altri Stati preunitari; Del Boca abbatte a picconate l'agiografia risorgimentale, restituendoci un ritratto impietoso dei principali protagonisti, da Garibaldi a Vittorio Emanuele II, passando per Cavour. Il Risorgimento, spiega l'Autore, non è stato (solo) una redenzione guidata da idealisti e anime belle, ma una bieca macchinazione costruita nelle cancellerie europee, a danno di sovrani legittimi e ad esclusivo vantaggio delle mire espansionistiche dei Savoia. La seconda parte è incentrata sulla Prima guerra mondiale e sulla parabola del fascismo, fino a toccare – per la verità in maniera superficiale – gli anni della Guerra Fredda. Ancora una volta Del Boca scruta gli eventi con la sua lente demistificatrice, mettendo in luce la verità sul primo conflitto mondiale, che fu solo una macelleria di proporzioni inimmaginabili. E ancora, non tace delle rappresaglie perpetrate dai partigiani dopo la caduta del regime, né della tragedia delle foibe.
Pur con i limiti evidenziati, ritengo sia un'opera controcorrente, persino coraggiosa nello sforzo di squarciare il velo di ipocrisia delle verità ufficiali, che da oltre due secoli ci propinano un racconto di comodo, a uso e consumo dei soli vincitori. Consiglio la lettura del volume a quanti conoscono per sommi capi la storia italiana degli ultimi due secoli, magari per averla ascoltata a scuola e mai più approfondita.

14 ottobre 2020

San Galgano nel cuore del Cilento

L'abbazia di San Galgano, in Toscana, è universalmente nota per avere il cielo come volta, in quanto, dopo il crollo del tetto, sono rimaste in piedi soltanto le mura perimetrali. La peculiare situazione di rovina consente tuttavia di ammirare e studiare nei minimi dettagli la struttura architettonica. Un edificio simile, anche se poco noto, si trova nel comune di Sessa Cilento, a valle della frazione di San Mango, nell'area geografica denominata “Cilento antico” o “Alto Cilento”, comprendente i casali sorti alle pendici del monte Stella e attraversati dal corso del fiume Alento. Si tratta dei ruderi della Chiesa di Santa Maria degli Eremiti, che nel nome ricorda gli anacoreti che la abitarono, alla ricerca di spiritualità e silenzio lontano dal consorzio umano. Come detto, si trova fuori l'abitato di San Mango, in uno spiazzo denominato Largo degli Abati Cavensi, a memoria della secolare giurisdizione che i monaci della Badia di Cava ebbero su questo luogo suggestivo.
Un benemerito cartello antistante le rovine consente agli sparuti visitatori di conoscere la storia dell'edificio. Apprendiamo che la chiesa viene citata per la prima volta in un documento del 1329, anche se si ipotizza un'origine più antica. Dal resoconto di una visita pastorale del 1505 sappiamo che era composta da una navata centrale con l'altare maggiore e da cappelle laterali minori, dedicate ai santi. Una serie di iscrizioni murate indicano che la fabbrica originaria è stata ampliata nel tempo, fino a raggiungere dimensioni considerevoli, testimoniate dalle imponenti rovine. Per oltre quattro secoli fu parrocchia per le comunità di San Mango, Castagneta e Santa Lucia, per essere infine abbandonata nell'Ottocento perché pericolante. Dopo un lungo periodo di oblio è stata oggetto di una meritoria opera di recupero e di consolidamento, che ci consente di ammirarla com'è oggi. 
Troneggia intatto il campanile, costruito negli anni 1543-1547 e integralmente recuperato. Si caratterizza perché è separato dal corpo principale della chiesa, peculiarità che si ritrova anche nella vicina cappella cimiteriale di Santa Maria delle Valletelle. Sul perché di questa scelta anomala è possibile fare una congettura, ipotizzando che questi campanili avessero anche il ruolo di torri di avvistamento, o che siano stati riutilizzati in funzione sacra dopo aver prestato una funzione difensiva. Il resto sono ruderi, che lasciano ampio spazio all'immaginazione, ma danno un'idea sufficientemente definita di come doveva essere l'eremo. Rimangono in piedi alcuni muri perimetrali, le nicchie che ospitavano le statue, parte dell'abside, gli archi che separavano il transetto, le finestre strette come feritoie, le scale che conducevano alla cripta, i basamenti delle colonne. Il tutto è messo in sicurezza e liberamente fruibile dal pubblico, prestando comunque un minimo di attenzione a dove si mettono i piedi. 
Ovvio che il paragone con il sito di San Galgano ha un valore puramente indicativo, né deve essere preso alla lettera. L'abbazia toscana è universalmente nota e meglio conservata, con le mura perimetrali, l'abside e la facciata praticamente intatti. Tuttavia, pur con le debite cautele, il paragone non è del tutto peregrino, né azzardato: le rovine di Santa Maria degli Eremiti conservano infatti il medesimo fascino della decadenza, il segno tangibile che le opere e l'ingegno umano sono destinati a soccombere di fronte all'ineluttabile scorrere del tempo
Ringrazio Irene Nigro per le fotografie, che lascio al libero utilizzo, purché ne venga citata la provenienza da questo blog.
Una visione d'insieme del sito di Santa Maria degli Eremiti
I ruderi del fabbricato
Il campanile di Santa Maria degli Eremiti
Il campanile della vicina chiesa di Santa Maria delle Valletelle
Ruderi della navata centrale
Particolare del transetto
Il basamento di una colonna
Particolare dell'abside
L'accesso alla cripta
Ruderi del transetto

30 settembre 2020

"La rivolta dei tristi – I moti cilentani del 1828" di Benedetto D'Angelo: una storia di terra e libertà

In epoca borbonica il Cilento era definito “terra dei tristi”. La ragione di un tale appellativo risiedeva nella leggendaria e pervicace opposizione dei suoi abitanti a qualsiasi forma di potere costituito; tristi, dunque, nel senso di sciagurati, torbidi, malvagi, ingrati. In effetti i cilentani nei secoli si sono ribellati più volte, nella vana speranza di migliorare le proprie condizioni di vita liberandosi dal giogo del sovrano di turno, dei galantuomini schiavisti, di un clero bigotto e prono ai voleri dei potenti. Era così naturale che il vento delle nuove idee liberali e carbonare soffiasse anche in questa landa remota, traducendosi in un florilegio di sette segrete che si ispiravano ai principi egualitari della Rivoluzione francese. Dopo la Restaurazione del 1815, il Cilento si ribellò tre volte: nel 1820-21, nel 1828 e nel 1848. I libri di storia colpevolmente ignorano i moti del Cilento, dedicandovi al massimo qualche cenno distratto. Ma vi è di più: tali eventi sono praticamente sconosciuti al grande pubblico, spesso persino a livello locale. E se tutti sanno associare un pensiero patriottico all'udire i nomi di Pisacane o dei fratelli Bandiera, pochissimi hanno sentito parlare di Costabile Carducci o di Antonio Maria De Luca. Eppure non si tratta di vicende secondarie: le rivolte cilentane ebbero vasta eco ai tempi, anche all'estero, oltre a costituire un tassello importante della vicenda risorgimentale.
L'editore Galzerano di Casalvelino Scalo, che tempo fa ho ospitato su questo blog con un'intervista, ha fatto luce su queste vicende, dedicando ai moti del 1828 diverse pubblicazioni. La rivolta dei tristi – I moti cilentani del 1828, di Benedetto D'Angelo, è un breve saggio che persegue uno scopo divulgativo, sebbene l'Autore dichiari che l'opera non ha pretese di esaustività. Si tratta di un testo agevole e godibile, che tratteggia con sufficiente precisione e approfondimento l'insurrezione del 1828, soffermandosi altresì sul contesto storico, sulle cause, le conseguenze e l'eredità lasciata dai moti. D'Angelo fa pregevole opera di storico, prendendo per mano il lettore e guidandolo con pochi ma precisi cenni nell'Europa post Restaurazione. La sua attenzione è ovviamente incentrata sul Cilento, ma non dimentica di ricostruire il contesto in cui la rivolta nacque, contesto che supera i ristretti confini dell'area geografica di riferimento. Il lettore rimarrà stupito proprio da questo aspetto, che l'Autore rimarca: i moti cilentani maturarono in un magma ideologico (il pensiero liberale), settario (la Carboneria) e diplomatico (la Restaurazione) di grande fermento a livello europeo, in cui il Cilento si collocò come una sorta di laboratorio ove preparare le grandi rivoluzioni del domani.
Il saggio si sofferma su tutte le fasi della rivolta, dalla preparazione agli esiti. Grande attenzione viene dedicata alla feroce repressione e alle vicende giudiziarie, con una puntuale ricostruzione dei processi agli insorti. E proprio alle figure dei rivoltosi sono dedicate le pagine più intense del saggio, con precisi ritratti dei controversi fratelli Capozzoli, del canonico De Luca, dell'avvocato Teodosio De Dominicis, di Antonio Galotti e di altri personaggi minori.
Meno convincente è, a mio avviso, il deciso punto di vista antiborbonico – con tanto di giudizi tranchant – che emerge dalle pagine. Sia chiaro: bene fa l'Autore a ricordare la spietatezza del maresciallo Del Carretto nella repressione della rivolta, puntando giustamente l'indice contro il regime illiberale dei Borbone. Tuttavia, sarebbe stato opportuno precisare che le medesime raccapriccianti scene del 1828 si sarebbero ripetute trent'anni dopo, sotto i Savoia conquistatori del Sud. Le teste mozzate esposte in gabbie come monito, le fucilazioni dopo processi sommari, l'incendio e la razzia di interi villaggi, la negazione di ogni diritto costituzionale non sono stati, purtroppo, esclusivo appannaggio dei Borbone. Quelli che sono venuti dopo, calpestando proprio la memoria di quanti nel 1828 e nel 1848 si erano battuti per la libertà, forse hanno fatto pure peggio, perché nascosti dietro la maschera dei liberatori. Ritengo che il saggio, per dovere di completezza, avrebbe dovuto porre l'accento anche su questo aspetto, per quanto possa essere controverso. Difatti, la parola d'ordine dei rivoluzionari del 1828 non era “Italia”, quanto piuttosto “libertà”, al punto che nel famoso Proclama di Palinuro gli insorti si rivolgevano direttamente al Re, chiedendogli di concedere la Costituzione. A mio modesto avviso, il canonico De Luca, Galotti, De Dominicis e gli altri rivoltosi non possono essere definiti patrioti, quanto piuttosto “martiri della libertà”, perché la loro missione non era fare l'unità del Paese.
Far emergere la storia locale è sempre un bene; farlo in un territorio che spesso tende a dimenticare l'eroismo dei propri antenati è addirittura opera meritoria. Consiglio caldamente la lettura di questo saggio, non solo ai cultori della storia locale, ma più in generale a quanti amano approfondire le vicende italiane dell'Ottocento. Tenendo presente che solo chi sa scavare nelle radici è in grado di comprendere meglio l'età contemporanea.

18 settembre 2020

"La promessa" di Friedrich Dürrenmatt: la morte del romanzo poliziesco

Raramente leggo romanzi gialli, non sono mai stato un appassionato del genere, salvo qualche incursione fumettistica (Nick Raider, Diabolik). Per Dürrenmatt faccio volentieri un'eccezione, forse perché non era un giallista puro, né i suoi romanzi possono essere confinati entro i ristretti limiti di un genere. Si leggano due capolavori come Il giudice e il suo boia e La panne: il caso da risolvere c'è, ma è un pretesto per affrontare problematiche giuridiche tra le più profonde, quali il rapporto tra colpevolezza e punizione, o il conflitto tra la verità processuale e le ingarbugliate implicazioni del reale. La promessa merita invece un discorso a parte, perché lo scrittore svizzero scopre subito le carte in tavola e annuncia già nel sottotitolo di voler scrivere un “requiem per il romanzo poliziesco”.
Gli scrittori di gialli, sostiene Dürrenmatt, ignorano colpevolmente il ruolo che la casualità gioca nell'intreccio del reale. Credono ciecamente nella ragione, aderiscono fideisticamente al mito dell'intelletto, quale unica forza in grado di decifrare misteri apparentemente insolubili. Per loro l'indagine è un affare squisitamente umano, un balocco della ragione, che da sola e senza l'aiuto di circostanze esterne sa dipanare il garbuglio. Sherlock Holmes è l'esempio tipico di questa impostazione. E invece lo scrittore svizzero ritiene che tale approccio sia fallace, o comunque riduttivo e insufficiente.
«Alla realtà si accede solo in parte con la logica. […] Spesso solo la fortuna o il caso intervengono in nostro favore. O in nostro sfavore. E invece nei vostri romanzi il caso non interviene mai, e se qualche elemento sembra casuale lo si attribuisce a una coincidenza o al destino. È sempre stato così, voi scrittori la verità la gettate in pasto alle regole drammaturgiche. […] Di un fatto non si potrà mai venire a capo nel modo in cui si risolve un calcolo matematico, se non altro perché non arriviamo mai a conoscere tutti gli elementi necessari ma disponiamo solo di alcuni dati, per lo più marginali. E troppa importanza assumono allora il caso, l'imprevisto, l'imponderabile.»
Ne La promessa, per dimostrare questa teoria, Dürrenmatt costruisce un intreccio esemplare. Matthäi è uno dei più brillanti commissari di Zurigo, destinato a una luminosa carriera fuori dalla Federazione; i funzionari elvetici l'hanno infatti scelto per una delicata missione istituzionale in Giordania. Il giorno prima di partire per Amman si verifica un evento che muta completamente il suo destino. Una bambina, Gritli Moser, viene brutalmente assassinata in un bosco, come era già accaduto anni prima a due sue coetanee. Matthäi, giunto sul luogo del delitto, promette solennemente ai genitori della piccola che troverà l'assassino e lo consegnerà alla Giustizia. La promessa diventa ossessione, in grado di scardinare la mente razionale e fredda del commissario. Viene arrestato von Gunten – anch'egli un perfetto zero come suggerisce il nome –, un venditore ambulante già conosciuto dalle forze dell'ordine. Contro di lui ci sono indizi e persino una confessione (estorta), ma manca la prova della colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio. Matthäi non è convinto della responsabilità di von Gunten e inizia una sua personale indagine alla ricerca del vero assassino. In mancanza di appigli logici e non disponendo di elementi probatori da poter approfondire, Matthäi si affida al Caso, lasciando che sia quest'ultimo a lavorare per lui, a far cadere il vero assassino entro una tela di ragno meticolosamente tessuta. L'ossessiva ricerca del commissario va di pari passo con il suo abbrutimento fisico e morale, al punto che finisce per essere considerato un pazzo anche dalle persone a lui più vicine. E invece alla fine la sua intuizione si rivelerà azzeccata, e sarà per l'appunto la casualità a dare una risposta definitiva alle domande lasciate aperte.
Dürrenmatt era uno scrittore dalle intuizioni geniali, come dimostra anche questo romanzo. Per lui il mondo – e più in generale la realtà – era un mistero inestricabile, un codice solo parzialmente decifrabile dalla ragione. Ne La promessa questa tesi viene portata alle estreme conseguenze, nella parte in cui giustappunto si afferma che «la nostra ragione getta una luce insufficiente sul mondo; nella penombra dei suoi confini si insedia tutto ciò che è paradossale». Ecco perché i romanzi dello scrittore elvetico hanno il sapore di una scoperta per chi vi si imbatte, magari proprio casualmente. Sono così ricchi di significati reconditi che meritano di essere letti e riletti, magari a distanza di tempo. 

7 settembre 2020

Il silenzio perfetto alle sorgenti del Sammaro

Come ho già scritto più volte su queste pagine, il Cilento non è solo mare; nell'entroterra si nascondono suggestivi siti, assai piacevoli e godibili perché lontani dai grandi flussi turistici. Tra questi itinerari storico-naturalistici, meritano una visita le sorgenti del Sammaro, nel comune di Sacco. Il torrente Sammaro è uno dei principali subaffluenti del Calore Lucano, in cui sbocca dopo essere confluito nel Ripiti prima e nel Fasanella poi.
Per arrivare al sito partendo dalla zona costiera (o dall'autostrada), è necessario attraversare il celebre Ponte di Sacco: alto circa 170 metri, è una straordinaria opera di ingegneria, tra i ponti a singola arcata più alti d'Europa. Sporgendosi dal parapetto è possibile intravedere in basso una profonda fenditura che taglia il bosco: è lì che scorre il Sammaro, capace di scavare le rocce in secoli di paziente lavorio. Per raggiungere il sito naturalistico occorre svoltare a destra prima di entrare nell'abitato di Sacco. Si può lasciare l'automobile all'imbocco della strada asfaltata, oppure proseguire sino all'inizio del sentiero sterrato.
Il sentiero è largo, pulito e ben tracciato, abbellito da passerelle in legno e ponticelli. All'andata ci vogliono circa quindici minuti per arrivare alle sorgenti; al ritorno bisogna considerare il doppio del tempo, perché il percorso è tutto in salita. La discesa avviene in un silenzio perfetto, rotto soltanto dal chiacchiericcio delle acque, che avverte il visitatore che la meta è vicina. Si giunge a un'ampia piscina naturale contornata da alte rocce, dove le limpidissime acque sorgive del Sammaro si raccolgono prima di iniziare il loro corso. In inverno il torrente è impetuoso, ma anche in estate la portata è sufficiente a rendere il luogo assai suggestivo. Il percorso prosegue nella gola vera e propria, uno stretto passaggio incuneato tra le rocce, percorribile agevolmente per un buon tratto.
Per chi ha a disposizione più tempo, consiglio di visitare nei dintorni il paese abbandonato di Roscigno Vecchia e i ruderi di Sacco Vecchia.
Ringrazio Sara Nigro per le fotografie.
Il celebre Ponte di Sacco visto dalle sorgenti del Sammaro
La gola vista dal Ponte
Il sentiero che conduce alle sorgenti
La piscina naturale alle sorgenti del Sammaro
Le gole del Sammaro
Particolare del sentiero

25 agosto 2020

"Nelle terre estreme" di Jon Krakauer: la tragedia di un Thoreau dei nostri giorni

Chi era davvero Chris McCandless? È il quesito a cui Jon Krakauer cerca di dare una risposta nel suo celebre reportage Into the wild, tradotto impropriamente in italiano come Nelle terre estreme. Il giornalista e alpinista americano non dà una risposta, né sembra propendere per una tesi, dimostrando grande onestà intellettuale e sincera compassione per McCandless. Rimangono in piedi tre ipotesi, che poi sono quelle da subito sostenute dai lettori della rivista Outside, che per prima dedicò ampio risalto alla vicenda. Secondo una prima tesi, forse superficiale e assolutista, Chris aveva problemi psichici, o comunque era un temerario, un dilettante allo sbaraglio che “se l'è cercata”. Altri invece accostano la sua scelta alla disobbedienza civile di Thoreau, sostenendo che il giovane desiderasse soltanto fuggire da dogmi e catene della società contemporanea, in cui non si riconosceva. C'è poi chi sostiene il cliché del giovane di buona famiglia che si lancia in un'avventura rischiosa per vincere la noia e superare i limiti di una quieta esistenza borghese. Qual è la verità? Forse è nel mezzo delle tre interpretazioni. 
Chris McCandless era un giovane americano che nel 1990, subito dopo la laurea, decise di abbandonare la civiltà per vivere sulla strada e infine raggiungere da solo, a piedi e portando con sé il minimo indispensabile, la vetta del monte McKinley (o Denali) in Alaska. Prima di intraprendere il viaggio verso le terre estreme – o meglio, “nel selvaggio”, come suggerisce il titolo originale –, Chris abbandonò ogni bene materiale, lasciando la sua auto nel deserto e donando in beneficenza i risparmi. Più che l'avventura, sarà la morte in solitaria a renderlo celebre.
Nelle terre estreme, di Jon Krakauer, è il resoconto di questa straordinaria esperienza, purtroppo conclusasi tragicamente il 18 agosto 1992. L'autore è un giornalista e alpinista che, subito dopo il ritrovamento della salma del ragazzo, scrisse un articolo sulla rivista Outside, che ebbe vasta eco e diede fama postuma a McCandless. La mole di reazioni dei lettori e il dibattito che seguì, spinsero Krakauer a documentarsi meglio sulla vicenda per scrivere una biografia del giovane, diventata presto best-seller. Si tratta dunque di un'appassionata inchiesta giornalistica che cerca di indagare le cause della tragedia di McCandless. Il libro è tutto sommato avvincente, invero più per la straordinarietà della storia che per l'abilità letteraria di Krakauer. Il giornalista, nello sforzo di ricostruire a tutto tondo la figura di McCandless, si dilunga in particolari sulla vita, la famiglia, le amicizie e l'infanzia del ragazzo, aspetti che talvolta appesantiscono il ritmo della narrazione e poco aggiungono al nucleo centrale della storia. Quando invece si concentra sulle peregrinazioni del ragazzo nel cuore dell'Alaska, il libro sa lasciare il segno nella memoria dei lettori, pur non perdendo mai il taglio giornalistico di stretta aderenza alla realtà. Per questo non concordo con quanti sostengono che si tratti di un romanzo; è lo stesso Krakauer a mantenere i toni dell'inchiesta, disseminando le pagine di interviste a quanti conobbero il ragazzo, ritagli di giornale, precisi riferimenti storici, geografici, medici e botanici.
Al di là dei limiti, Nelle terre estreme è un libro che merita di essere letto, perché rende giustizia a una figura tragica e ribelle, altrimenti destinata all'oblio. Novello Thoreau o lupo che segue per istinto il richiamo della foresta, Chris McCandless è stato un ragazzo in grado di operare una scelta controcorrente, spingendosi sino alle estreme conseguenze.
Copertina dell'ultima edizione italiana (Corbaccio, luglio 2020)

13 agosto 2020

Quando Venere omaggiò il Cilento con una ciocca dei suoi capelli

Il Cilento è terra del mito, forse più di ogni altra in Italia; basti pensare alla vicenda del nocchiero Palinuro, oppure alla sirena Leucosia. C'è un'altra leggenda, forse meno nota delle altre perché conosciuta soltanto a livello locale, eppure ugualmente affascinante. Si racconta che la dea Venere fosse di passaggio nel basso Cilento, quando un pastore notò la sua straordinaria bellezza e ne rimase folgorato. L'innamoramento si tramutò in ossessione, al punto che il giovane, nottetempo, tagliò una ciocca di capelli alla dea addormentata. Venere, furente per la mancanza di rispetto, in un primo momento pensò di punire in modo esemplare il pastore, mutando infine il suo intendimento per compassione. Trasformò allora la ciocca di capelli in una cascatella di acqua cristallina, e il giovane in una pianta sempreverde adagiata sul fondo del rivo, consentendogli di sublimare il suo amore in un eterno presente.
Nacquero così, secondo la leggenda, le cascate chiamate “Capelli di Venere”, che oggi si trovano nel territorio del comune di Casaletto Spartano, nel primo entroterra del basso Cilento, non lontano dalle celebri località costiere di Policastro e Sapri. Per custodirle e renderle visitabili è stata creata una meravigliosa oasi, accessibile al modico prezzo di tre euro. L'oasi si trova in località Capello, poco prima dell'ingresso al paese, lungo la strada che porta alla frazione Battaglia. Il corso d'acqua che dà vita alle cascate è il Rio Casaletto, altresì noto come torrente Bussentino perché è un affluente dell'importante fiume Bussento.
Diversi i punti di interesse, che rendono la visita al sito una tappa obbligata per chi si trova in Cilento. L'attrazione principale sono ovviamente i “Capelli di Venere”, le delicate e sottili cascatelle che l'acqua del Bussentino disegna scorrendo sopra le piante di capelvenere, che crescono direttamente sulle rocce. Le cascate sono sovrastate da un esile ponte in pietra, probabilmente di origine medioevale, non percorribile. Gli escursionisti più esperti possono decidere di risalire il corso sassoso del Bussentino, magari saltando da una pietra all'altra, in un vallone costeggiato da ombrosi boschi. I meno temerari possono invece visitare un antico mulino ad acqua, recentemente restaurato, che conserva alcuni cimeli di storia locale, come le testimonianze del passaggio di Garibaldi e Pisacane. Proseguendo il corso del torrente in direzione della foce, si arriva a una cascata artificiale, nei cui dintorni sono sistemati tavoli e sedili per la sosta.
L'Oasi Capelli di Venere è un sito silenzioso e selvaggio, lontano dai grandi flussi turistici eppure ricco di storia e suggestioni. Soprattutto, è la dimostrazione che il Cilento non è solo mare, e che anzi le radici del suo passato mitico si trovano anche nell'entroterra.
Ringrazio Sara Nigro per le fotografie.
L'ingresso all'Oasi

Le cascate dette "Capelli di Venere"

Il ponte medioevale sul Bussentino

Il corso del torrente
La cascata artificiale

2 agosto 2020

I ruggenti anni Ottanta di Francesco Nuti: una classifica personale

Di recente ho rivisto tutti i film girati da Francesco Nuti negli anni Ottanta, ad eccezione di Son contento, che mi sono ripromesso di reperire. Li avevo già visti da adolescente ed ero rimasto affascinato dalla comicità scanzonata e malinconica di Nuti, sebbene non avessi ancora la capacità di comprenderla fino in fondo. A distanza di tanti anni ho scelto di riassaporare le pellicole del periodo 1981-1989, che secondo critica e pubblico sono le  migliori dello sfortunato attore e regista toscano. Auspicando che qualcuno voglia esprimere nei commenti il suo punto di vista, questa è la mia personale classifica.

1. Caruso Pascoski di padre polacco (1988). Il mio preferito, sin dal titolo. Una trama non banale e tante scene da ricordare. Forse il film più celebre di Nuti, anche se non tutti concordano nel ritenerlo il più riuscito. Eppure non conosce momenti di calo, riesce a mantenersi sul medesimo livello dall'inizio alla fine. Cast azzeccatissimo, che dà il giusto risalto al mattatore Nuti.
Scena da ricordare: le irresistibili gag di Caruso al cinema, che cerca di intrufolarsi nel bagno delle signore.

2. Io, Chiara e lo Scuro (1982). La coppia Nuti/De Sio funziona alla perfezione, regalando una storia d'amore non convenzionale. Il film è celebre perché racconta il mondo del biliardo all'italiana, con la straordinaria partecipazione di Marcello Lotti. Girato quasi tutto in notturna in una Roma spettrale, tra bische, tram e appartamenti da bohémien, è un film leggero e godibile, attraversato da una sottile malinconia.
Scena da ricordare: quando il Toscano spiega a Chiara perché è innamorato del biliardo.

3. Madonna che silenzio c'è stasera (1982). È il secondo lungometraggio della carriera di Nuti, all'epoca ventisettenne. Sconta forse una certa ingenuità di fondo, ma rimane un film bellissimo e malinconico, in grado di fotografare un'epoca (gli Ottanta del riflusso ideologico), una città emblema della provincia italiana (Prato), un'intera generazione disillusa e stanca. E per quanto possano essere diversi i tempi e le circostanze, ciascuno di noi potrà trovare nel protagonista una parte di sé.
Scene da ricordare: la lotta di Francesco con il telaio meccanico; il botta e risposta col barista Chiaramonti.
Battuta da ricordare: “Le cose importanti nella vita sono tre: o tu vai in Perù, o tu sposti la chiesa o tu vinci al Totocalcio”.

4. Willy Signori e vengo da lontano (1989). È forse l'opera della maturità di Nuti, il vertice di una produzione che purtroppo andrà declinando assieme alla fine degli anni Ottanta, di cui è stato uno dei migliori narratori. L'attore, qui anche nelle vesti di regista, sa passare abilmente dal registro drammatico a quello comico, costruendo una vicenda ironica e profonda, che non cede mai a facili patetismi.
Scena da ricordare: gli alterchi tra Willy (Nuti) e il suo fratello disabile Ugo (Haber).

5. Ad ovest di Paperino (1981). L'esordio sul grande schermo di Nuti, qui assieme ad Alessandro Benvenuti e Athina Cenci (i Giancattivi). Pellicola surreale, picaresca e anarchica, che racconta le quotidiane peregrinazioni di tre giovani sfaccendati alla ricerca di un posto nella vita. La forza sta nella spontaneità dell'interpretazione.
Scena da ricordare: il pranzo a casa di Novello Novelli.

6. Casablanca, Casablanca (1985). Ritorna la coppia Nuti/De Sio, trattandosi del seguito di Io, Chiara e lo Scuro. Inferiore al precedente, perché non ne possiede la freschezza e la spontaneità. Resta comunque una pellicola raffinata e godibile, che dà una pista a tante commediole contemporanee.
Scena da ricordare: l'uomo che dorme sul pianerottolo dell'albergo di Casablanca, utilizzato come sfogatoio e da prendere liberamente a schiaffi.

7. Tutta colpa del paradiso (1985). È il primo del felice sodalizio artistico con Ornella Muti. È ricordato per la meravigliosa ambientazione (la Val d'Aosta) e perché affronta con grande tatto un tema spinoso, l'allontanamento di un minore dai propri genitori per intervento dei servizi sociali. Molti lo considerano il film migliore di Nuti, o comunque quello della piena maturità artistica, che si manifesta nel saper maneggiare una storia toccante senza toni lacrimevoli e facili pietismi.
Scena da ricordare: Romeo che entra nel desolante bar del paese e cerca di raccogliere informazioni sul figlioletto.

8. Stregati (1986). Superba la fotografia, che esalta una Genova notturna e maliziosa. È la pellicola che mi è piaciuta di meno, perché si percepisce un certo narcisismo nella recitazione da parte di Nuti, che fu peraltro la principale accusa dei suoi detrattori all'uscita del film. Lorenzo, il protagonista, non riesce mai a entrare nel mio cuore, forse perché mi risulta difficile una sia pur parziale identificazione con il personaggio. La sceneggiatura è debole, un gradino sotto le altre commedie.
Scena da ricordare: lo scherzo architettato alla povera Clara da parte di Lorenzo e i suoi amici.
Locandina di Caruso Pascoski di padre polacco