22 giugno 2022

"Slippery", piccolo compendio di rock australiano

Quando si parla di rock cantato in inglese, solitamente si pensa ai grandi gruppi britannici o statunitensi. Qualcuno magari ricorda artisti irlandesi come gli U2, Rory Gallagher o i Pogues, ma di rado si va oltre. Eppure il rock è forse uno dei principali collanti culturali tra i Paesi del Commonwealth, altrimenti profondamente diversi e divisi. Si pensi alle scene musicali africane degli anni Settanta, come quella sudafricana e rhodesiana, oppure al Zamrock, la scena zambiana dalla vena psichedelica e progressiva che è stata orgogliosamente riscoperta negli ultimi anni. Se quelle citate sono realtà marginali e poco famose, l'Australia invece è stata e continua ad essere una fucina di talenti, come dimostra il recente successo di Amyl and The Sniffers. Australiani erano i Saints del compianto Chris Bailey, forse il primo gruppo realmente punk della storia. Australiano è Nick Cave, dalla stessa nazione provengono gruppi come The Church, Wolfmother o INXS, per non citare i più celebri AC/DC.
Tra i nomi di nicchia dell'Aussie rock meritano una menzione The Lizard Train di Adelaide, cinque album all'attivo tra il 1987 e il 1995, prima che i componenti si dedicassero a una serie di progetti collaterali. L'album di cui voglio parlare è Slippery, il loro esordio alla lunga distanza del 1987. Il disco uscì per l'etichetta locale Greasy Pop Records e fu registrato nel dicembre 1986 presso lo Studio 202 di Adelaide. Per la produzione il gruppo si affidò a un ingegnere del suono di casa Greasy Pop, Kim Horne. La formazione era composta da Shane Bloffwitch al basso e voce, David Cree alla batteria, Phil Drew e Chris Willard alle chitarre e voce. La formazione è quella classica rock, con l'aggiunta di qualche incursione delle tastiere di Vic Conrad.
Si parte con Nude on fire, un brano quadrato dalle tinte wave caratterizzato da un riff particolarmente felice. Le chitarre dominano la scena, grazie a un potente riverbero che può piacere o meno, ma riflette i gusti dell'epoca. Sempre sulla prima facciata spicca Ever been there, che inizia come una ballata con tanto di controcanto femminile, per poi esaltarsi nella coda strumentale con assolo di chitarra. Lo stesso schema viene ripetuto in Oblivion, il brano che chiude il lato A. Qui si evidenziano le doti di scrittura del quartetto australiano: la traccia sembra voler strizzare l'occhio al facile successo radiofonico, per poi assumere nella seconda parte un andamento quasi grunge che anticipa quello che faranno di lì a qualche anno i Pearl Jam. Una menzione per Swallow your tongue, che invece ricorda il pub rock dei grandi Dr. Feelgood. La seconda facciata presenta un generale calo di ispirazione, eppure contiene una perla come One dream every second, una ballata che inizia con toni soffusi e delicati per poi alzarsi di tono nel crescendo finale. È una traccia sufficientemente radiofonica che avrebbe meritato maggior successo.
Slippery, traducibile come “viscido” o “scivoloso”, mostra una band solida e affiatata, con un suono già maturo e definito. É un disco da onesti operai del rock, un lavoro che ha la sua forza nelle melodie create dagli intrecci delle due chitarre. Pur non essendo un LP rivoluzionario o epocale, si può affermare che sia invecchiato abbastanza bene. C'è qualche episodio tipicamente “ottantiano”, eppure il più immediato riferimento va al rock dei due decenni precedenti, vera fonte di ispirazione per il quartetto australiano. Si prenda la quarta traccia della prima facciata, Who hates you, che addirittura riporta alla mente qualcosa della scena psichedelica inglese di fine Sessanta. Oppure si consideri The girl with the legs, con i suoi richiami neppure tanto velati all'effimera stagione punk.
The Lizard Train era un gruppo valente, che secondo me ha pagato la marginalità dell'Australia, l'essere nato in un paese sviluppato ma lontano dai centri nevralgici della musica e del successo. Il vinile originale è stato pubblicato in Australia con codice GPR132, nonché in Inghilterra e Spagna dalla Zinger Records sempre nel 1987. Secondo quanto ho appreso su Discogs, non esistono versioni in cd e l'album non è mai stato ristampato. Ciò non significa che sia un disco raro, perché anzi è in vendita on line a prezzi più che accessibili. Potrebbe però essere difficile trovarlo in Italia, salvo colpi di fortuna.
Copertina del 33 giri e particolare della busta interna

10 giugno 2022

Andrej Tarkovskij, il cinema come percorso mistico

A causa di decisioni politiche scellerate stiamo vivendo il momento più basso delle relazioni tra Italia e Russia dalla fine del secondo conflitto mondiale. Mai come in questi giorni andrebbero pertanto riscoperti i secolari legami tra i due popoli. E invece, persino in certi ambienti culturali evidentemente inquinati dalla malafede ideologica, l'arte russa è stata bandita, come se le colpe dei governanti dovessero ricadere sugli incolpevoli intellettuali. Vale allora la pena rievocare una vicenda quasi dimenticata: c'è stata un'epoca in cui uno dei più grandi cineasti sovietici ambientò proprio in Italia uno dei suoi massimi capolavori.
Nostalghia, di Andrej Tarkovskij, fu girato nel 1983 tra la Toscana e Roma. È facile riconoscere alcuni tra i luoghi più suggestivi del Centro Italia: le terme di Bagno Vignoni, l'Abbazia di San Galgano, la chiesa sommersa di Santa Maria in Vittorino, la scalinata di Piazza del Campidoglio. La cinepresa trasfigura questi luoghi, rendendoli brumosi, malinconici, circondati da un'aura mistica. Strumento della trasfigurazione è l'acqua, che è per Tarkovskij l'elemento essenziale, la forza primordiale che genera la vita. Ci sono le sorgenti fumanti della vasca di Bagno Vignoni, il torrente che entra dal portale della Chiesa di Santa Maria in Vittorino, la pioggia che cade come un manto sulle rovine di San Galgano; e ancora, non si contano nel film le scene in cui la cinepresa indugia su una pozzanghera, un rivo, uno specchio d'acqua e persino su una bottiglia o una bacinella. E lì dove manca l'acqua, c'è la morte, come nella drammatica scena in cui Domenico si dà fuoco in Piazza del Campidoglio.
Parlare della trama ha poco senso, dato che nel film la narrazione prevale sull'intreccio e la vicenda è subordinata alla raffigurazione. A ogni buon conto, tutto ruota intorno al malessere di Andrei Gorčakov, un poeta sovietico recatosi in Italia per ripercorrere i passi di un suo celebre connazionale, un compositore del Settecento. In Unione Sovietica Andrei ha lasciato la moglie e i figli che accorati ne attendono il ritorno. Sua compagna di viaggio è Eugenia, una giovane interprete che è attratta dal poeta ma al tempo stesso non tollera la sua scarsa intraprendenza. Andrei è infatti un uomo spento, taciturno, malinconico, ingabbiato nelle spire di una vita che giudica falsa, impoetica, priva di slanci.
L'incomunicabilità è uno dei temi centrali del film: non c'è affinità tra Andrei e la sua interprete, né con la sua famiglia che lo aspetta in Russia. Lo stesso distacco emotivo lo vive rispetto al suo lavoro, tanto che di fatto non scrive neppure una riga della biografia che aveva in mente. Eppure il viaggio in Italia lo trasforma irrimediabilmente. In Toscana incontra Domenico, ritenuto pazzo dai suoi concittadini perché ha tenuto rinchiusa in casa la sua famiglia per sette lunghi anni in attesa della fine del mondo. Domenico è un uomo diffidente, un visionario ossessionato dalle credenze millenaristiche; eppure è con lui che Andrei inizia un percorso spirituale e di rivelazione. Per Tarkovskij anche il cinema è un atto di preghiera e non a caso le due scene che aprono e chiudono il film sono imbevute di profondo misticismo. Mi riferisco alla scena iniziale della Madonna del parto e a quella finale del rito della candela di Santa Caterina.
Nostalghia è tutt'altro che un'opera semplice. Tarkovskij ha compiuto un'operazione ambiziosa e quasi folle: trasporre su pellicola il ritmo, la forma e la sostanza della poesia. Nostalghia è a tutti gli effetti poesia cinematografica, un potente condensato di immagini liriche e rimandi onirici che non è possibile riassumere entro i confini dell'ordinario narrare. Come nella poesia ogni parola è portatrice di innumerevoli significati, così ogni scena del film può essere letta e interpretata a seconda della sensibilità dello spettatore. È un film volutamente lento e riflessivo, in cui i silenzi predominano sugli scarni dialoghi; ciò, paradossalmente, restituisce alla parola la sua centralità. La parola in Tarkovskij, al pari dell'acqua, è forza creatrice che va centellinata.
Gli attori sono perfettamente funzionali a ciò che il regista aveva in mente. Domina la scena Oleg Jankovskij, con il suo viso afflitto, l'incedere lento, le poche parole soffiate dalle labbra. Egualmente degne di nota l'interpretazione intensa e drammatica di una giovanissima Domiziana Giordano nel ruolo di Eugenia, nonché quella di Erland Josephson nel ruolo di Domenico.
Nostalghia è un lungometraggio difficile e persino coraggioso nelle scelte stilistiche, che andrebbe visto più volte per cogliere almeno una parte dei molti significati nascosti. Sarebbe bene riscoprirlo oggi, per comprendere che la cultura russa non è poi così lontana come qualcuno malignamente suggerisce.
Poster del film (immagine tratta da travelingintuscany.com)