28 dicembre 2019

"Maledetto Sud" di Vito Teti: guardarsi dentro per vincere il pregiudizio

«Ecco / io e te, Meridione, / dobbiamo parlarci una volta, / ragionare davvero con calma, / da soli, / senza raccontarci fantasie / sulle nostre contrade. / Noi dobbiamo deciderci / con questo cuore troppo cantastorie». Così scriveva il poeta calabrese Franco Costabile, e non è un caso che Vito Teti abbia utilizzato le sue parole in chiusura dell'interessante saggio Maledetto Sud, edito nel 2013 per Einaudi. Si potrebbe sostenere che la lirica di Costabile riassuma magistralmente la tesi portata avanti dal professor Teti: i meridionali non potranno mai affrancarsi dai pregiudizi fin quando non abbandoneranno l'atteggiamento ambivalente e ondivago di contemporaneo autocompiacimento e autocommiserazione. Bisogna dunque sedersi e saper guardare in faccia la realtà, andare oltre le immagini edulcorate di un Meridione mitico, che forse non è mai esistito, saper ragionare, per l'appunto, togliendosi la maschera.
«Per sfoltire, sfrondare, attenuare, annullare, rovesciare le immagini negative costruite contro i meridionali è necessario andare dentro di noi. È necessario guardare nelle nostre profondità. Non possiamo tollerare pregiudizi e stereotipi, ma non possiamo sopportare gli imbrogli, le menzogne, gli inganni perpetrati in nome di un “noi” nel quale non vogliamo riconoscerci.»
Maledetto Sud è un saggio breve, di agevole lettura, che si propone di affrontare con obiettività, e magari smontare, tutti i pregiudizi antimeridionali che si sono sedimentati nei secoli. Oziosi, lenti, sudici, maledetti, pittoreschi, briganti, mafiosi, camorristi sono solo alcune delle espressioni ingiuriose, a cui l'Autore dedica capitoli specifici. Oppure ancora l'onnipresente melanconia, un misto di dolore, rassegnazione e rimpianto che assume valenza quasi patologica nei giudizi impietosi di “nordici” e stranieri. La validità culturale e scientifica dell'opera sta nel tono complessivo: Teti si guarda bene dall'assumere l'atteggiamento tra il piagnucoloso e il revanscista che caratterizza gran parte della letteratura neomeridionalistica degli ultimi anni, da lui biasimata e liquidata con poche righe sibilline. Il professor Teti dimostra di essere un profondo conoscitore della materia, circostanza che gli consente di non indulgere nel pietismo; è proprio questa visione partecipe e al contempo distaccata ad offrire una difesa adeguata e a rendere giustizia al Meridione.
Si pensi al meraviglioso capitolo in cui viene affrontato uno dei più antichi pregiudizi, secondo cui i meridionali sarebbero “oziosi e lenti”. L'Autore dimostra che la verità è un'altra; la civiltà contadina era una realtà in perpetuo movimento, fatta di gente dinamica e operosa, che usciva di casa all'alba e tornava al crepuscolo, portando con sé soltanto un tozzo di pane nero, magari condito con grasso di maiale, ché l'olio era roba da ricchi. «Davvero era tutta una corsa quella che vivevano le figure di un universo errante», scrive Teti, riassumendo in modo esemplare il discorso. La stessa parola “terrone”, pur avendo un senso spregiativo, rivela un attaccamento industrioso ad una terra dura, amara, resa fertile dalle lacrime e dal sudore della fronte.
Oppure, si leggano le pagine dedicate al tentativo post-risorgimentale di costruire, accanto ad «un Sud criminale e maledetto», l'immagine opposta «di un Sud pittoresco da inserire in una cornice nazionale». Anche qui l'Autore calabrese oppone una visione critica, ricordando come l'idea del Mezzogiorno quale luogo magico, naturale e selvaggio, opposto al Nord industrializzato e razionale, abbia di fatto aperto la strada ad una “etnicizzazione del folclore”. Ciò ha fatto prevalere nell'immaginario collettivo gli elementi essenzialmente pittoreschi di un territorio in realtà molto più complesso, fatto di particolarismi culturali, storici e geografici, ricco di città, rovine, castelli, monumenti, arricchito da un rapporto sempre fecondo con il mare.
Il merito del professore calabrese sta nella capacità di rovesciare molti stereotipi, senza tuttavia diffondersi in elogi o retoriche celebrative, guardandosi bene dall'esaltare un presunto passato mitico o dal cavalcare la vulgata neoborbonica. Se dovessi individuare il maggiore pregio del libro, direi che è la lucidità dell'analisi; Teti scruta la materia con lo sguardo obiettivo dello scienziato, indaga le ragioni profonde di ogni stereotipo, evidenziando ciò che è veritiero e quanto è tendenzioso. Dove può, oppone le buone pratiche e gli esempi contrari, ma non nega mai i problemi reali. È per l'appunto il sapersi guardare dentro, di cui ragionava il poeta Franco Costabile. Un suggerimento prezioso e ancora attuale, che Vito Teti ha saputo cogliere perfettamente.

18 dicembre 2019

Il satanismo di maniera dei Black Widow

Ci sono opere sempre attuali, in ogni luogo ed epoca, e altre contingenti, strettamente legate al tempo in cui furono prodotte. Così è per l'arte, la letteratura, la musica, e più in generale per ogni creazione umana. E se possiamo certamente affermare che Revolver dei Beatles o Forever changes dei Love siano figli del loro tempo, ciò nonostante sarebbe sacrilego definirli "vecchi", o peggio ancora "sorpassati". Viceversa, un disco come Sacrifice (1970) degli albionici Black Widow, pur restando a detta di molti una pietra miliare, a mio avviso risente del tempo passato.
I Black Widow nacquero dalle ceneri dei Pesky Gee, gruppo blues-rock di discreto successo; cambiato nome, il sestetto inglese decise di scatenare un piccolo terremoto nella scena musicale dell'epoca, pubblicando Sacrifice. La sinistra copertina e i disegni interni richiamavano atmosfere luciferine, come pure i testi, densi di riferimenti all'esoterismo, all'occultismo e al satanismo. In un'epoca in cui il genere rock era ancora identificato con le divagazioni psichedeliche del beat, i Black Widow apparivano innovativi e scandalosi; se a ciò si aggiungono alcune leggende metropolitane, come i presunti sacrifici animali sul palco, il piatto è servito. Assieme a Coven e Black Sabbath furono i pionieri di un genere destinato a fare proseliti, anche se, a differenza delle due band citate, si muovevano principalmente nei terreni del progressive.
Sbaglia chi appoggia la puntina sul vinile aspettandosi qualcosa di duro: Sacrifice è un LP folk-rock dalle venature prog, in cui a farla da padrone sono i fiati di Clive Jones e l'organo di Zoot Taylor, mentre le chitarre suonate da Jim Gannon non sono mai invasive. La formazione era completata dalla precisa sezione ritmica di Clive Box alle percussioni e Bob Bond al basso, mentre a cantare ci pensava Kip Trever. Come ho già detto, il confronto inevitabile è con i Black Sabbath, che nello stesso anno pubblicavano il loro primo, maestoso e omonimo album; ed è proprio quest'ultimo a vincere su tutta la linea in un ipotetico confronto con Sacrifice. Si pensi ai solchi iniziali: mentre i Black Widow accolgono l'ascoltatore con un organo sinistro ma comunque legato alla vulgata beat, Ozzy & co. lo terrorizzano con gli scrosci di un temporale e il lugubre incedere di una campana a morto.
Sia pure con alcuni passaggi interessanti – su tutte, l'iniziale In ancient days –, il lato A scorre senza particolari sussulti. Quel che manca, a mio avviso, è la costruzione di un'atmosfera realmente gotica o nera. I Black Widow si affidano a testi persino più audaci ed espliciti di quelli dei Black Sabbath, eppure appaiono un po' incerti e manieristici. Si ascolti in proposito la celebre Come to the sabbat, in cui l'invocazione corale al demonio assume, per uno strano paradosso, un carattere del tutto innocuo, quasi parodistico.
Decisamente superiore il lato B, impreziosito dalla lunga title-track, una cavalcata progressiva di oltre sette minuti, che resta la parte più convincente del lavoro. Qui i Black Widow si cimentano in lunghe improvvisazioni strumentali, con i fiati e l'organo che si inseguono sul tappeto martellante delle percussioni, a dare l'idea di una messa nera.
Dopo ripetuti ascolti, sono giunto alla conclusione che Sacrifice è un disco innovativo nelle intenzioni, se non altro per le tematiche trattate, eppure ingenuo negli esiti. Fulminante la recensione contenuta nel volume Progressive dell'Atlante musicale Giunti, in cui si parla di «un suono che non ha retto il peso degli anni, privo forse di quelle sincere connotazioni dark tipiche di altri gruppi», caratterizzato da «un po' di occulto, accenti moderatamente ossessivi e satanismo quanto basta». Dispiace avere bistrattato un disco che molti considerano seminale per tutta la scena a seguire, ma ritengo che risenta particolarmente il peso degli anni. In conclusione: è un LP rivoluzionario per l'epoca in cui fu concepito, ma esagera chi lo eleva a capostipite di un genere.

7 dicembre 2019

"Quel che resta del giorno" di Kazuo Ishiguro: l'arte di servire con dignità

I concetti di “dovere” e “dignità” costituiscono il fulcro del celebre romanzo di Ishiguro, pubblicato nel 1989 e trasposto sul grande schermo nel 1993. Il primo rappresenta la strada maestra di ogni maggiordomo, l'unico imperativo da seguire. La seconda è invece la somma qualità che un maggiordomo che si rispetti deve possedere, secondo i dettami della massima autorità in materia, la Hayes Society.
Le due qualità sono impersonate da Stevens, l'impeccabile maggiordomo di Darlington Hall, una grande magione nell'Oxfordshire, tra le più antiche e rinomate d'Inghilterra. Stevens, figlio d'arte, ha trascorso tutta la vita al servizio del controverso Lord Darlington, attraversando specialmente gli anni Venti e Trenta del Novecento, quando la casa di quest'ultimo era uno dei centri ufficiosi della politica internazionale. Dopo la guerra, morto il vecchio padrone, Stevens viene di fatto “acquistato assieme alla casa” da un ricco americano, presso cui presta servizio cercando di far rivivere i fasti del passato, nonostante l'ovvio ridimensionamento dovuto ai tempi.
Il romanzo, pur avvalendosi frequentemente dell'analessi, è ambientato nel luglio del 1956, quando una proposta apparentemente banale stravolge la metodica esistenza di Stevens. Il nuovo datore di lavoro si assenta per un periodo e concede al maggiordomo una settimana di ferie, lasciandogli persino la sua automobile e invitandolo a trascorrere una piacevole vacanza. Stevens, poco propenso ad un viaggio di pura evasione, decide di approfittare dei giorni di libertà per rivedere miss Kenton, la vecchia governante di Darlington Hall, che aveva lasciato la casa vent'anni prima per sposarsi. Stevens si convince ad intraprendere il viaggio solo dopo averlo mascherato con ragioni professionali, nella speranza di far tornare a Darlington Hall l'antica governante.
Anche se può sembrare una considerazione ovvia, Quel che resta del giorno è il tipico esempio in cui il viaggio, inteso come spostamento fisico da un luogo all'altro, è solo la metafora di un itinerario ben più lungo e accidentato, quello dentro di sé. Durante la settimana di libertà, Stevens fa un bilancio della propria esistenza, spesa nell'adempimento del dovere, sacrificata per la realizzazione di due fini: la soddisfazione dei desideri del padrone e il raggiungimento della “dignità”. Si leggano in proposito le pagine in cui rievoca la morte del padre, quale supremo esempio di attaccamento ai propri doveri e tentativo di raggiungere la tanto celebrata dignità. Eppure, per quanto egli tenti di sacrificare ogni emozione sull'altare del senso del dovere, i sentimenti tornano prepotentemente a fargli visita in occasione del viaggio, che diventa un'occasione per ripensare alla propria vita. Si apre così una crepa, che porta a galla la verità: il dovere è stata una gabbia, Darlington Hall una dorata prigione, la dignità una chimera che si può sfiorare ma non afferrare. Viene allora in mente il celebre Jacob von Gunten dello svizzero Walser, in cui si narra di una scuola per perfetti servitori, l'Istituto Benjamenta. C'è però una differenza di fondo: mentre nel romanzo dello scrittore elvetico l'obiettivo che la scuola si propone è quello di ridimensionare i propri allievi, fino a renderli “zeri, rotondi come un palla”, nel racconto di Ishiguro il saper servire è invece una strada per l'elevazione e la sublimazione di sé.
Concludo con una breve notazione sullo stile. Il romanzo è scritto in prima persona, sotto forma di un lungo monologo che prende vita sull'onda dei ricordi; a parlare è Stevens e pertanto il linguaggio è professionale, chirurgico, di un'aristocratica asciuttezza. Consiglio vivamente la lettura di questo classico moderno, scritto da un autore di origini giapponesi, eppure inglese fin nel midollo per tematiche, stile e ambientazione.
«La dignità in un maggiordomo ha a che fare, fondamentalmente, con la capacità di non abbandonare il professionista nel quale si incarna. […] I grandi maggiordomi sono grandi proprio per la capacità che hanno di vivere all'interno del loro ruolo professionale e di viverci fino in fondo; sono individui che non si fanno sconvolgere da eventi esterni, per quanto sorprendenti, allarmanti o irritanti questi possano essere.»