30 giugno 2023

Una casa in Via dell'ironia: i primi album di Francesco Baccini

Una delle caratteristiche più apprezzate in un artista è la riconoscibilità. Che si tratti di un quadro o di una canzone, quando la paternità può essere attribuita anche senza conoscere l'opera, significa che l'artista ha raggiunto il suo obiettivo, ovvero essere originale. La musica che oggi va per la maggiore manca proprio di originalità: la contaminazione con la trap è più dannosa di quanto si sia disposti ad ammettere, soprattutto da parte di produttori e discografici. E quanto questa influenza sia ormai un'inarrestabile epidemia, è dimostrato dal fatto che persino cantanti d'esperienza sono cascati nel giochetto dei suoni preconfezionati. Meglio allora guardare al passato.
Quando nel 1989 uscì Cartoons, l'estroso album d'esordio di Francesco Baccini, gli addetti ai lavori furono piacevolmente stupiti nel trovarsi di fronte un artista così originale. Riprendendo la lezione di Jannacci e Rino Gaetano, il genovese Baccini univa spiccata ironia, testi mai banali e musiche coinvolgenti che spaziavano dallo ska allo swing, passando per le classiche ballate voce e piano. Il successivo LP del 1990, Il pianoforte non è il mio forte, confermò le ottime impressioni, regalando anche qualche inaspettata hit. Oltre a Baccini, che suona tutte le parti di pianoforte, i due dischi vedono la collaborazione di musicisti d'eccezione, su tutti Lele Melotti e Andrea Braido del giro di Vasco Rossi, Pier Michelatti storico bassista di de Andrè, nonché i Ladri di Biciclette nella celeberrima Sotto questo sole.
Cartoons e Il pianoforte non è il mio forte condividono la medesima formula e la stessa freschezza, tanto che potrebbero essere le quattro facciate di un immaginario disco doppio. Classificarli in un genere non è semplice e non avrebbe neppure senso; parlare di pop sofisticato è certamente corretto, eppure riduttivo. Il primo Baccini era un cantautore sui generis che aveva appreso la lezione dei grandi nomi degli anni Settanta, adeguandola alla rinnovata sensibilità di un'Italia alla ricerca di leggerezza e ancora speranzosa che tutto, in un modo o nell'altro, sarebbe andato per il verso giusto. In questi due album Baccini non risparmiava stilettate al Belpaese, eppure le nascondeva furbescamente dietro ritmi incalzanti e canzoni solo all'apparenza leggere. In Vendo tuto c'è una critica all'operato di alcuni esponenti delle forze dell'ordine, Fotomodelle è una staffilata al mondo vuoto della moda, Il mio nome è Ivo è un messaggio di responsabilità rivolto ai giovanissimi, Coatto melody schernisce le pecche del sistema giudiziario. Ad ascoltare bene queste canzoni, a saper leggere tra le righe, escono fuori i significati profondi, nascosti dietro la satira di costume con un sapiente gioco di scatole cinesi. Gradevole, spensierata e sardonica, la musica di Baccini è in realtà velata da una sottile malinconia: ci sono dentro i ricordi d'infanzia (La giostra di Bastian), intense ballate d'amore (Ti amo e non lo sai), torbide storie di vita vera (Tir) e persino un perfetto ritratto di Genova in duetto con de Andrè (Genova blues).
Quando si parla di cantautori, alcuni nomi vengono colpevolmente sottaciuti, ignorati per snobismo intellettuale o semplicemente messi da parte. Ciò accade soprattutto a quegli artisti che hanno fatto dell'ironia il loro marchio di fabbrica, se non addirittura un'arma. C'è quasi insofferenza verso chi si è volontariamente discostato dai canoni del cantautorato impegnato, tanto amato dall'intellighenzia del Belpaese. Alberto Fortis lo comprese prima di tutti, se già nel 1980 cantava un verso acuto e profetico.
«L'ho sempre detto che avrei fatto un grande sbaglio a comperare casa in Via dell'ironia.»
Per quanto sia un'affermazione a sua volta ironica, non si può tuttavia negare che nasconda un fondo di amarezza e di verità. Qualche mese fa Baccini è stato contestato durante un concerto, accusato di sessismo per il testo de Le donne di Modena. Un penoso fraintendimento, un equivoco, un malcelato tentativo di mettere sotto cattiva luce una canzone meravigliosa e, per l'appunto, ironica. L'epoca in cui viviamo sta sacrificando tutto, persino la creatività, a un pericoloso pensiero unico mascherato dietro l'apparenza del politicamente corretto a tutti i costi. Ci vogliono tutti uguali, nel senso però di un intollerabile appiattimento egualitario che è l'antitesi della democrazia. Sono passati trent'anni dall'uscita di questi due dischi, eppure mai come adesso ci sarebbe bisogno di album del genere, dedicati a chi prende tutto troppo seriamente.
Le copertine dei primi due LP di Baccini

19 giugno 2023

Ennesimo traguardo per Martin Mystère

Torno a parlare di Martin Mystère in occasione di ben due novità: la presenza nelle edicole del numero 400 della serie regolare e la ristampa dell'intera saga a opera della If Edizioni, su licenza della Sergio Bonelli.
Ovviamente inizio dallo straordinario traguardo del quattrocentesimo numero e colgo l'occasione per fare i migliori auguri al creatore Alfredo Castelli. Se parlo di un risultato straordinario non è per piaggeria o retorica; chiunque conosca anche solo approssimativamente la crisi in cui da anni versa l'editoria, sa di cosa parlo. Il costo della carta aumenta, le edicole chiudono ovunque, l'età media di chi legge i fumetti sale continuamente. Molti ragazzini non hanno mai letto un albo e difficilmente conoscono i grandi nomi del fumetto italiano; oppure, più semplicemente, trovano arduo approcciarsi a testate che hanno trenta e più anni di storia editoriale alle spalle. Se a questo quadro poco confortante aggiungiamo che il pubblico sembra essersi disaffezionato alla serialità infinita, preferendo storie anche lunghe ma che abbiano una conclusione, il traguardo raggiunto da Martin Mystère è ancora più luminoso.
Come sempre accade in casa Bonelli con i numeri del centenario, anche questo albo è tutto a colori. La storia, intitolata I colori impossibili, è scritta da Recagno e illustrata da Alessandrini, Grimaldi, Orlandi e Torti, mentre la colorazione è opera di Rudoni. Rispettando la tradizione dei racconti celebrativi, vi compaiono in brevi cammei i personaggi principali della saga: Java, Diana, Aldous, Chris Tower, Max Brody, Travis, Angie e gli immarcescibili Dee & Kelly. La vicenda è ambientata nella base di Altrove, dove a causa di un imprudente esperimento si è sviluppato un vortice che inghiotte i colori, una sorta di buco nero che si espande e risucchia i colori, lasciando uomini e oggetti in bianco e nero. Intorno alla trama principale si sviluppano altre brevi storie sullo spettro visibile, fino al finale in cui Martin risolve l'inghippo. Col numero 400, inoltre, finisce con un imprevedibile colpo di scena Zona Y, il romanzo in quattordici puntate di Andrea Carlo Cappi con illustrazioni di Velardi. Nonostante la difficoltà di seguire un racconto suddiviso in tappe mensili, devo riconoscere che mi è piaciuto, molto di più di quello già uscito sulle pagine della testata a partire dal numero 375.
Nell'editoriale, intitolato "Scaramanzia e portafortuna!", Alfredo Castelli si mostra scettico sulla possibilità di festeggiare il numero 500, per il quale dovremo attendere poco meno di una decina d'anni. Al tempo stesso, però, lancia una frecciata ai detrattori della serie, a tutti gli innominati commentatori che da tempo paventano l'imminente chiusura della testata, basandosi su dati mysteriosi che conoscono solo loro. E proprio per smentire i menagrami bisogna tener duro e augurarci di poter festeggiare un altro albo del centenario, magari in coincidenza con i dieci lustri della testata.
La seconda piacevole novità è invece merito delle If Edizioni, che su licenza della Bonelli hanno iniziato la ristampa dell'intera serie in volumi mensili che contengono due episodi. Il numero in edicola dal 25 maggio ristampa i primi due numeri di aprile e maggio 1982: Gli uomini in nero e La vendetta di Râ. I volumetti hanno un ricco apparato redazionale, con l'editoriale di Alfredo Castelli e altri approfondimenti curati dal gruppo ufficiale dei fan di Martin Mystère. A mio avviso si tratta di un progetto ben fatto, dal classico formato bonelliano per i collezionisti più accaniti. Da appassionato posso solo sperare che questa ulteriore iniziativa sia il segno di un rinnovato interesse per il personaggio. Sarò nostalgico, ma secondo me Mystère è un'icona della cultura popolare italiana del Novecento, quella stessa cultura che pezzo dopo pezzo sta purtroppo scomparendo.
Il numero 400 attualmente in edicola

6 giugno 2023

"La voce delle onde" di Yukio Mishima: la poetica dei semplici

Negli anni Cinquanta del Novecento il Giappone non era ancora la potenza economica che conosciamo. Il Paese era uscito devastato e sconfitto dalla guerra, conclusasi col disastro atomico di Hiroshima e Nagasaki. E se nelle grandi città si iniziavano a vedere i primi segni del miracolo economico, nelle campagne si conduceva ancora un'esistenza agra, legata a cicli naturali e riti arcaici. In quei luoghi il benessere cittadino era un miraggio, a maggior ragione nelle tante piccole isole dell'arcipelago. In una di queste è ambientato il romanzo di Mishima, edito nel 1954.
A Uta-jima, un'isoletta del Pacifico, tutto è immutato da secoli: gli uomini ogni notte escono a pesca di polipi, le donne si tuffano alla ricerca delle ostriche perlifere, i ragazzi seguono le orme dei padri senza alcuna possibilità di scalata sociale. Tutte le case si assomigliano, persino quelle dei notabili del villaggio: un atrio in terra battuta su sui si appoggiano le stuoie, la cucina a destra e il gabinetto a sinistra che emana un puzzo stantio a causa dell'assenza delle fognature. Le uniche modeste attrazioni sono i bagni pubblici, l'Associazione giovanile, un tempio in collina e un cumulo di pietre che si dice essere la tomba di un antico principe. In una casupola dell'unico villaggio vive Shinji, assieme alla madre e al fratellino. Ha solo diciannove anni, ma dopo la morte del padre è diventato il capofamiglia. Grazie all'ingaggio su un battello impiegato nella pesca dei polipi, riesce a mantenere i suoi cari, conducendo un'esistenza grama ma dignitosa. La sua è una condizione di quieto immobilismo, sennonché il ritorno a Uta-jima di Hatsue, figlia dell'uomo più ricco dell'isola, cambia un destino che sembra già scritto. I due si innamorano e tuttavia non possono vedersi liberamente, a causa delle maldicenze e della decisa contrarietà del padre di lei.
La trama è classica, forse persino banale, eppure La voce delle onde è un romanzo capace di imprimersi nella mente del lettore. È una storia minima raccontata con grande partecipazione e delicatezza; la penna di Mishima accarezza i personaggi, empatizza con loro e sembra volerli difendere dalle avversità della vita. Nulla è tragedia in questo libro: persino la miseria e la morte sono descritte con tocco leggero, senza enfasi. Le onde di Uta-jima nel loro moto sempiterno lambiscono le spiagge e rincuorano gli abitanti del villaggio, ricordando che c'è speranza oltre la tragedia e che dopo la tempesta torna sempre il sereno. Il romanzo trasmette questo senso consolatorio, come se il lieto fine fosse preannunciato già dalle prime pagine.
Con questo romanzo Mishima dà voce agli ultimi. La sua è la poetica dei semplici, gli eroi del quotidiano che lottano per conquistare il proprio posto nel mondo, oppure semplicemente aspirano a una modesta felicità. La storia d'amore di Hatsue e Shinji è una tra le tante, né straordinaria né particolarmente contrastata; eppure il semplice fatto di venir narrata dalla penna delicata ed evocativa di Mishima, la rende degna di essere raccontata, conferendole una straordinaria potenza lirica. Al tempo stesso, il romanzo è un elogio degli antichi valori della società tradizionale giapponese, cui lo scrittore era profondamente legato: l'amore esclusivo per la propria terra, il culto degli avi, l'abnegazione, lo spirito di sacrificio, il rispetto dei vincoli familiari. Shinji è un giovane pescatore, eppure incarna perfettamente tutti questi immutabili principi.
In parte favola e in parte romanzo di formazione, La voce delle onde occupa un posto speciale nella produzione di Mishima, autore spesso accusato di cieco nazionalismo, se non addirittura di sciovinismo. Quando però scriveva di sentimenti comuni a ogni latitudine, come in questo racconto, la sua prosa riusciva a superare ogni barriera culturale, diventando voce dell'universale.