28 luglio 2019

"Una vita" di Italo Svevo: la retorica della sconfitta

È cosa nota che i personaggi di Svevo siano diventati veri e propri archetipi letterari dell'uomo moderno, o meglio novecentesco. Alfonso Nitti, Emilio Brentani e soprattutto Zeno Cosini non sono semplici nomi, ma simboli di un'umanità neghittosa, miope e nevrotica, così lontana dalle figure di eroi che popolavano i romanzi dell'Ottocento. Una retorica della sconfitta, dunque, in antitesi ad una società destinata ad affermarsi come patria dei belli e vincenti.
All'epoca di Una vita (1892), Svevo era una figura marginale, per non dire sconosciuta, del panorama letterario nazionale. Già la collocazione geografica ne accentuava l'isolamento, nella Trieste crocevia di razze e culture, né del tutto italiana né propriamente asburgica, che pure diventerà un centro nevralgico della nostra letteratura. Soprattutto, contribuiva al suo isolamento il non appartenere ad alcuna delle correnti più in voga: il verismo da un lato e il decadentismo dall'altro. Logico fu allora percorrere una strada non ancora battuta in Italia, con la costruzione di caratteri dotati di una spiccata capacità introspettiva, votati alla sterile analisi più che all'azione, bloccati in un'amara contemplazione del vivere.
Alfonso Nitti è il primo e più tragico della trilogia, ma già contiene in nuce tutti i sintomi della “malattia” del più celebre Zeno della CoscienzaÈ un inetto, ed è storia risaputa che Un inetto era proprio il titolo che Svevo aveva in mente in origine, poi bocciato dall'editore. La grama esistenza di Alfonso ruota intorno a quattro centri: il paese natale, la Banca Maller & Co., casa Lanucci e il salotto di Annetta. Il paese, o meglio “il villaggio”, è un'oasi di pace in un mare di disperazione; è il luogo degli affetti, le braccia accoglienti in cui rifugiarsi quando la vita cittadina mostra i suoi affilati artigli. La Banca del signor Maller è dove il protagonista lavora, prima nell'ufficio della corrispondenza e poi nella contabilità. La Banca è un covo di vipere, avvelenata com'è da dissapori, pettegolezzi e piccolezze, dove ciascun impiegato cerca di adottare la migliore strategia per lavorare poco e ingraziarsi egualmente i capi. Alfonso non è coinvolto in tali beghe, perché per lui la carriera rappresenta un pericolo alla sua libertà, un veleno che rischia di intossicargli l'anima e la purezza del pensiero; il suo atteggiamento arrendevole lo porterà dunque ad essere un outsider. Casa Lanucci, in cui Alfonso è pensionante, è invece l'emblema di una piccola borghesia gretta e immiserita, intorpidita da irrealizzabili miraggi di ricchezza e scalata sociale. Ma il luogo che cambierà in tragedia le sorti del povero Alfonso è il salotto di Annetta Maller, figlia del fondatore della Banca, che verrà da lui sedotta e abbandonata, esponendolo così a una tremenda vendetta.
Di fronte ad una realtà così ostile, il protagonista trova conforto solo nel suo mondo interiore, popolato da pensatori e filosofi che gli si materializzano nelle lunghe ore trascorse nella biblioteca pubblica, in cui coltiva sogni di grandezza intellettuale. Ettore Bonora l'ha definito un “personaggio antiromanzesco”, perché Alfonso sogna ardentemente di vivere un'avventura eccezionale, ma, quando questa si palesa, egli fugge terrorizzato anziché affrontarla. La cesura tra Alfonso e gli altri, o meglio, tra la sua immaginazione e il mondo reale, è probabilmente il fulcro dell'opera, segnando al contempo lo scarto decisivo rispetto a tutta la letteratura precedente. Eppure il Nitti non è un “vinto”, perché pure gli manca quella strenua ma inutile resistenza contro gli eventi, a cui viceversa si abbandona senza gloria. Neppure è uno Jakob von Gunten, il personaggio di Walser, che addirittura frequentava una scuola per servitori per poter diventare uno «zero, rotondo come una palla». Alfonso ha infatti un'alta considerazione di sé e delle proprie doti intellettuali, eppure si sente un «incapace alla vita».
«Egli invece si sentiva incapace alla vita. Qualche cosa, che di spesso aveva inutilmente cercato di comprendere, gliela rendeva dolorosa, insopportabile. Non sapeva amare e non godere; nelle migliori circostanze aveva sofferto più che gli altri nelle più dolorose».
Storica edizione "I corvi" Dall'Oglio

15 luglio 2019

Dio ci salvi dalla finta poesia!

«Nessuno può conoscere il cielo se non per mezzo del cielo», scriveva il poeta latino Manilio nella sua opera più celebre, gli Astronomica. E lo faceva con la sicurezza di chi enuncia una verità indiscutibile, che non ammette eccezioni o mezze misure. Difficile contraddirlo. D'altronde, non è forse vero che si può capire appieno solo ciò che ci appartiene nella sua totalità? Marco Manilio andava oltre, toccando abilmente un concetto più ampio, e sostenendo che solo chi è parte del divino può comprendere il vero e profondo significato della divinità. Del saggio poeta latino non conosco altro, eppure questa citazione mi è rimasta impressa nella mente, da quando la adocchiai sfogliando una vecchia antologia del Paratore. Come spesso accade con le citazioni carpite al volo, l'ho interpretata a modo mio, dandole più o meno questo significato: per dire di conoscere davvero una realtà, occorre padroneggiarla nei dettagli, saperla scandagliare nelle intime connessioni. Il cielo e la divinità, ci avverte Manilio, sono entità talmente vaste per la nostra piccola mente, che soltanto chi è fatto della medesima sostanza può appropriarsene.
Le sue parole mi sono tornate alla mente qualche anno fa, quando ho avuto occasione di chiacchierare a lungo con Emiliano, un brillante poeta carrarese conosciuto ad un premio letterario. Anche lui fa parte della foltissima schiera di quanti scrivono poesie, ma a differenza di molti è un poeta vero. Devoto alla metrica e alle regole del verso, è riuscito in due ore di conversazione a cambiare definitivamente il mio punto di vista. Fino ad allora anche io mi illudevo di scrivere liriche, ma Emiliano mi spiegò chiaramente che può definirsi poeta solo chi conosce le regole della metrica. Egli sosteneva di aver iniziato a scrivere dopo anni ed anni di studio incessante, perché, parafrasando Manilio, non si può scrivere poesia se non per mezzo della metrica, che ne è l'essenza profonda. Da quando ho scoperto questa verità non ho più scritto in versi, consapevole che i miei componimenti, che pure mi piacevano e giudicavo discretamente musicali e simmetrici, non erano vera poesia, perché non possedevo le regole della metrica e dunque non aveva senso illudersi di infrangerle in nome del verso libero.
In troppi credono che sia sufficiente “andare a capo” per dirsi poeti. Basta sfogliare una qualsiasi delle centinaia di antologie – che furbe case editrici pubblicano elevandosi a portabandiera delle nuove voci poetiche – per rendersi conto che la maggior parte di quanti si dicono poeti, e hanno il coraggio di far pubblicare le proprie opere, si limitano a proporre imbarazzanti “prose in versi”, ovvero pensieri, per giunta poco originali, che della poesia hanno soltanto l'apparenza. Non c'è metrica, non c'è musicalità, nessuno studio sulle parole. Queste persone sembrano ignorare, volutamente o meno, che la lirica è opera di scortecciamento, dunque tanto più complicata della prosa. Poetare non è semplicemente tradurre in versi un pensiero che avrebbe potuto ben essere espresso in prosa, quanto piuttosto capacità di elaborare un concetto utilizzando un linguaggio diverso, scarnificato ed essenziale. Se non fosse così, non ci sarebbe alcuna differenza tra il linguaggio poetico e il linguaggio tecnico, tra un canto di Leopardi e la definizione di contratto di cui all'art. 1321 del codice civile.
Di fronte a queste considerazioni, molti innalzano barricate difensive in nome dell'avanguardia, dell'innovazione, della lotta al passatismo. Affermando di voler contrastare il trito pensiero accademico, si fanno alfieri del “verso libero”. Essi però confondono il verso libero con quello libertario, con lo sterile anarchismo della parola che non conduce a niente. Ecco dunque il senso della celebre affermazione di Benedetto Croce, secondo cui fino ai diciotto anni tutti scrivono poesie, mentre dopo lo fanno soltanto i poeti veri e i cretini.
Così argomentando, si arriva alla conclusione del discorso: si può rompere la regola solo se la si conosce, si può andare oltre la metrica solo se la si padroneggia veramente. Ritorna prepotente il discorso di Manilio, sia pure applicato ad un ambito ben differente da quello a cui pensava l’autore. La poesia «è vivere verticalmente ciò che gli altri di solito subiscono orizzontalmente», ha affermato Gian Piero Bona in una recente intervista. Il poetare è dunque una sublimazione dei sentimenti, la capacità di trasformare l'impulso emotivo animale verso fini più elevati, di imporre il proprio spirito sul mondo anziché subirlo passivamente. Se le cose stanno così, se davvero vogliamo attribuire un compito così alto alla parola, molti di quelli che si dicono poeti dovrebbero riporre la penna e ridursi a più miti consigli.

1 luglio 2019

"Ameni inganni" di Giuseppe Culicchia: non si esce vivi dagli anni Novanta

Di Culicchia ricordo con piacere Tutti giù per terra e soprattutto Il paese delle meraviglie, che hanno lasciato un segno profondo nella mia immaginazione. Forse per questa ragione ho acquistato Ameni inganni (2011) con alte aspettative, in parte disattese. Con ciò non voglio dire che non si tratti di un buon romanzo, ma soltanto che non possiede la freschezza, e in un certo senso la spensieratezza, dei due che ho citato. Ameni inganni è un libro amaro, che fa anche sorridere, ma tratteggia a tutti gli effetti un dramma umano. Anzi, ampliando il discorso, si può affermare che Culicchia abbia voluto affrontare uno dei principali mali dei nostri giorni, la solitudine.
Alberto ha quarantuno anni, ma la sua esistenza scorre lungo i rassicuranti binari di una perpetua adolescenza: non lavora, non studia, non ha in progetto una famiglia. Da oltre vent'anni porta avanti indefessamente le uniche passioni che riempiono le sue grame giornate: le astronavi e le riviste soft-core americane. La mansarda in cui abita è strapiena delle une e delle altre: modellini di navicelle spaziali in scala e migliaia di riviste pornografiche. Entrambe le passioni sublimano i suoi bisogni essenziali: trovare il proprio posto nella società e conquistare l'affetto di una donna. Per lui le astronavi non sono un gioco, ma il simbolo del settore in cui avrebbe voluto lavorare. Allo stesso modo, le modelle americane non servono a soddisfare un effimero piacere sessuale, ma sono le uniche amiche e confidenti.
La sua esistenza monotona, ma tutto sommato serena, viene stravolta dalla morte della madre. Rimasto solo al mondo, Alberto deve affrontare una realtà che solo in parte conosceva, fatta di necessità basilari, come quella di prepararsi il pranzo e la cena, ma anche e soprattutto di doveri. È una società competitiva e spietata, che non sa che farsene di un uomo che colleziona astronavi e riviste pornografiche, ha paura dei social network e ascolta esclusivamente i Police, per giunta sul walkman da vecchi nastri pirata. Alberto ha quaranta primavere nel 2011, ma di fatto vive i suoi personali vent'anni come se si trovasse ancora nei primi anni Novanta, nel limbo di un'adolescenza infinita.
Ma chi è veramente il protagonista e perché si trova in questa condizione? Alcuni potrebbero definirlo un “bamboccione”, ma si tratta di una semplificazione, perché egli non si crogiola nella condizione di mantenuto, ma la vive con la naturalezza di chi non ha conosciuto altro nella vita. L'unica possibilità di riscatto sembra essere l'amore, che irrompe nel romanzo sotto le spoglie di Letizia, la prima e unica fidanzata di Alberto, la sola donna che lo abbia amato, a cui lui è rimasto fedele negli anni. Il ritorno di Letizia sconvolge il delicato equilibrio della mente di Alberto, ma al contempo gli offre un'occasione unica per ripensare al proprio passato, al momento in cui lei gli aveva proposto di passare alla vita adulta, andando a vivere insieme. Alberto ricorda l'opportunità che non ha saputo cogliere, il taglio netto che non ha voluto affrontare.
«Ho avuto paura, una paura totale, nera, che mi rosicchiava dentro. Paura di dirlo ai miei, paura di andarmene di casa, paura di vedersi spalancare davanti a me una vita nuova, che non conoscevo. Paura perché non sapevo da che parte cominciare, paura perché sapevo come sarebbe finita. Paura di svegliarmi ogni mattina con lei accanto a me in un letto, paura di sentirmi dire: dove andiamo in vacanza? Paura di vedere accanto al mio il suo spazzolino, paura di sentirmi dire: che ne dici, non credi sia arrivata l'ora di sposarci? Paura di incrociare i suoi occhi una domenica pomeriggio e indovinare la sua prossima domanda: non credi sia arrivata l'ora di fare un figlio?»
Ameni inganni è un romanzo figlio dei nostri tempi; non bisogna pretendere di trovarci dentro chissà quali verità, eppure getta luce su un fenomeno forse nascosto, ma che esiste, ossia quello degli invisibili, uomini e donne che si sono arresi prima ancora di cominciare la battaglia. Persone a cui la società competitiva dei belli e vincenti ad ogni costo non ha saputo offrire gli strumenti per uscire da una neghittosità forzata, che trasforma il vivere in una dolorosa sopravvivenza.