21 novembre 2021

Appunti per un nuovo romanzo

Qualche giorno fa ho ricevuto una gradita sorpresa: una persona che ha letto Le rovine in attesa mi ha inviato una mail, chiedendomi se è in vista la pubblicazione di un nuovo romanzo, essendo trascorsi più di cinque anni dal precedente. Dalla mia risposta è nato un interessante scambio di osservazioni, che ha tuttavia lasciato aperte diverse domande.
Partendo dal quesito del lettore, la risposta è sì, per quanto dubito possa interessare a qualcun altro. Un nuovo romanzo c'è, è quasi pronto, al netto del lavoro di rilettura e correzione che sto portando avanti da qualche mese. È un progetto ambizioso, un romanzo storico ambientato in Cilento negli anni immediatamente successivi all'unificazione nazionale. Non so dire se sia riuscito o meno, né se io sia all'altezza del compito che mi ero prefissato quando è nata l'idea. Spinto da alcune letture per me decisive – Alianello e Jovine –, ho tentato la carta del romanzo meridionale, o meglio meridionalista, ma non nel significato di “partigianeria sudista” che la parola ha assunto negli ultimi anni. Si può parlare di romanzo meridionalista perché affronta le problematiche connesse al periodo postunitario, sia pure entro la cornice di una vicenda di fantasia. Nulla di assolutamente originale, una strada già percorsa dagli autori citati. L'ambientazione è periferica, quel Cilento povero, campestre, orgoglioso e ribelle che finora non ha trovato grandi spazi nella nostra letteratura, se si eccettuano casi isolati (Noi credevamo su tutti). La trama sarà svelata a tempo debito; è sufficiente dire che è la storia di tre fratelli che fanno scelte opposte negli anni turbolenti della contrapposizione tra “briganti” e “piemontesi”. Ribadisco che non è un libro che vuole propugnare un'ideologia o un revirement della vulgata storiografica; a me interessa più il lato umano, il tema delle scelte contrapposte. In questo senso, nelle mie intenzioni il romanzo dovrebbe avere una valenza universale, che va al di là della contingenza storica. Voglio dire che la storia è ambientata in un'epoca (1863) e in un luogo (Cilento) precisi, ma il suo significato più profondo potrebbe valere per ogni momento storico in cui gli uomini si sono trovati a fare scelte estreme e radicali, spesso divisive per le stesse famiglie. La storia potrebbe essere traslata nel Nord Italia post 8 settembre 1943, oppure nel Cile del golpe Pinochet: il senso non cambierebbe.
Il mio corrispondente mi ha dunque domandato quando verrà pubblicato il romanzo. Candidamente ho ammesso di non avere una risposta neppure sul se verrà pubblicato. Per quanto lo giudichi una buona prova, sono estremamente autocritico. È un libro necessario, di cui non si può fare a meno? No! È un libro che intercetta gli umori e i desideri della nostra epoca? Men che meno. È un romanzo che cavalca le mode del momento? Neanche per idea. È un romanzo che può interessare a qualcuno? Certamente sono di più quelli che sbadiglierebbero dopo il primo capitolo. Eppure non è questo il punto. Sempre più spesso mi chiedo perché qualcuno dovrebbe leggere il mio romanzo, se a mia volta non incentivo gli scrittori cosiddetti emergenti. Lo dico senza nascondermi: non acquisto mai opere di autori emergenti, perché la mole dei grandi autori del passato è sterminata ed è arduo trovare tempo per i contemporanei, specie se sconosciuti. Purtroppo si pubblica troppo e a prezzi non competitivi. Per quale ragione dovrei acquistare a quattordici euro il romanzo di uno sconosciuto, quando i classici si trovano a meno o persino a due lire nelle librerie dell'usato? Servirebbe una diversa politica delle case editrici, sia sui prezzi che sulla selezione delle opere da pubblicare. Sono queste le riflessioni che ho fatto con il mio interlocutore, lasciando tante domande aperte e un indefinibile sapore di auto-boicottaggio.
Ciò ovviamente non significa che non tenterò la strada della pubblicazione. Scrivere un romanzo non è solo l'esigenza di far uscire una parte della propria sensibilità, né l'effimero piacere di vedere la pila di fogli ingrossarsi. È innanzitutto una fatica, un lavoro che sottrae tempo e risorse ad altre attività più piacevoli o necessarie. Pertanto, inutile nascondersi, il punto di approdo di ogni autore è lo scaffale di una libreria. Pur con tutti i dubbi e le incertezze delle mie riflessioni, ci proverò ancora una volta.
Le tentazioni di Sant'Antonio di Domenico Morelli (particolare):
un'idea di copertina per il mio prossimo romanzo

9 novembre 2021

"I fuochi del Basento" di Raffaele Nigro: un secolo di lotte contadine

La storia del Mezzogiorno è un succedersi di lotte sociali, ribellioni, rivoluzioni riuscite o abortite. Il vento del cambiamento ha sempre soffiato sul Meridione, nonostante la sua posizione periferica rispetto ai centri europei del pensiero liberale, Londra e Parigi su tutti. Si pensi al periodo murattiano, oppure alle cicliche rivolte antiborboniche che infiammarono il Regno negli anni 1820-21, 1848, 1857. Com'è noto, l'unificazione nazionale non placò il fuoco della ribellione, che anzi si rinvigorì nei confronti del nuovo nemico, identificato nei Savoia invasori. La letteratura meridionale del Novecento ha sempre guardato con interesse a questo fermento, tentandone un'analisi dal punto di vista politico, economico e sociologico. E se pure ci sono autori che hanno approfondito l'incidenza del pensiero liberale e carbonaro nel Meridione, il tema portante è da sempre la dicotomia tra baroni e braccianti, declinata nelle sue varie forme: galantuomini e cafoni, civili e zappaterra, giamberghe e zampitti, signori e servitori. Tanti sono i romanzi che hanno affrontato la tematica; tra i più importanti, Le terre del Sacramento e Signora Ava di Francesco Jovine, L'eredità della priora di Carlo Alianello, ma anche Fontamara di Ignazio Silone.
Il melfitano Raffaele Nigro nel 1987 aggiunse un altro tassello alla già lunga e nobile lista. Il suo tentativo sembrava fuori tempo massimo, in un'epoca che aveva esaurito la spinta della prima ondata meridionalistica ed era ancora molto lontana dal revisionismo storiografico dei giorni nostri. E invece I fuochi del Basento incontrò il favore di pubblico e critica, con la vittoria dei premi Campiello e Napoli. La ragione del successo è presto detta: è scritto bene ed è appassionante e labirintico come tutte le grandi storie. É un romanzo corale, una vera e propria saga familiare che racconta le vicende di quattro generazioni della famiglia Nigro, dalla seconda metà del XVIII secolo fino al 1863. I personaggi attraversano da protagonisti uno dei periodi più travagliati della storia del Mezzogiorno, che vede avvicendarsi sul trono di Napoli i Borbone, i Francesi con Re Murat, poi di nuovo i Borbone con la Restaurazione e infine i Savoia. Non ci sono però soltanto le grandi lotte per il potere: in basso c'è tutto un mondo contadino in fermento, che segue con interesse e partecipazione le vicende politiche, nella speranza che le rivoluzioni conducano finalmente alla tanto desiderata spartizione delle terre.
I fuochi del Basento racconta proprio il sogno di una repubblica contadina, un governo equo retto dalle migliori menti e dalle braccia più robuste, l'utopia di una società in cui a comandare siano gli intellettuali più illuminati assieme a chi lavora la terra. Questo è il sogno di Francesco Nigro, protagonista del romanzo, che da bracciante si fa capobrigante, coltivando il sogno di imparare a leggere e scrivere per affrancarsi dalla schiavitù. Sulla stessa lunghezza d'onda si muovono altri personaggi, che infiammano le terre di Puglia e Basilicata per affermare la propria libertà. Sull'altro versante della barricata ci sono gli aristocratici, reazionari che vogliono mantenere lo status quo e provano orrore per un governo fatto di "cafoni e cacacarte". Raffaele Nigro ha ricostruito con dovizia certosina un territorio e un'epoca spesso ignorati dai libri di storia; è un romanzo denso e corposo, che "pesa" più delle duecentocinquanta pagine che lo compongono. C'è dentro tutto un mondo, una mole straordinaria di personaggi e vicende, che lo rendono un classico contemporaneo. Per quanto sia arrivato tardi rispetto ad altre pietre miliari della letteratura meridionale (e meridionalistica), è riuscito comunque a ritagliarsi un posto d'onore. Altre opere forse hanno raccontato la rivoluzione con maggiore approfondimento politico; penso a Il resto di niente di Striano o a Noi credevamo della Banti. Tuttavia, I fuochi del Basento può vantare una narrazione di più ampio respiro, che abbraccia oltre un secolo di storia locale ed europea.
Per quanto riguarda il linguaggio, Nigro optò per l'uso dell'italiano in luogo del dialetto. Una scelta non facile, che tuttavia si è rivelata felice. Il rischio di una tale scelta è quello di sacrificare la credibilità dei personaggi, rendendo innaturale il loro modo di esprimersi. Invece i braccianti di Nigro parlano una lingua accurata ma semplice, perfettamente verosimile grazie al sapiente inserimento di dialettismi e costruzioni lessicali mutuate dal linguaggio informale del ceto contadino. Un libro che non può mancare in una piccola biblioteca di letteratura meridionale.
Prima edizione Camunia del 1987