26 settembre 2023

Salvare gli edifici storici dalla speculazione: un possibile compromesso

Se pensate che per un vecchio maniero non ci sia fine peggiore del divenire un rudere, è perché non avete riflettuto sul fatto che potrebbe essere trasformato in una location. Uso volutamente questo termine oggi tanto in voga, perché rende bene l’idea di un luogo ridotto a scenario, sfondo e palcoscenico.
Castelli, palazzi nobiliari e torri punteggiano da nord a sud il territorio italiano: qualcuno è ancora dimora di antiche famiglie, altri sono stati convertiti in musei o spazi pubblici, moltissimi sono in rovina. Poi ci sono quelli su cui gli speculatori hanno allungato le mani, trasformandoli in "resort di lusso", "ideali location per i vostri eventi esclusivi", "dehors chic per matrimoni indimenticabili", "cocktail bar in uno scenario da sogno" e altri orrori del genere. Ecco, per questi edifici provo una gran pena; anzi, sono convinto che loro stessi si vergognerebbero della brutta fine che hanno fatto, se mai potessero esprimersi.
Lo scrittore austriaco Alexander Lernet-Holenia, nel suo romanzo Due Sicilie – che, per inciso, nulla ha a che vedere con lo Stato preunitario –, fa dire a un personaggio che «un soldato non caduto in battaglia non ha condotto a compimento ciò cui si era votato». Contestualizzando questa frase in un ragionamento più complesso sull’onore militare, ciò che il personaggio voleva significare è che un soldato resta tale anche dopo il congedo, per cui non si può pensare di dargli un’identità diversa. Se ciò vale per gli uomini, non vedo perché non debba valere anche per gli edifici.
Fortezze e manieri hanno assolto nei secoli a molteplici funzioni, venendo in continuazione riadattati, modificati, ampliati, destinati a nuovi scopi. Solo la nostra epoca, però, è stata capace di violentarli, trasformandoli in un palcoscenico per esibizionisti. Chi difende questa scelta, parla di fruibilità degli spazi. Eppure, a mio avviso, è lo stesso concetto di fruibilità che viene frainteso. Possibile che un posto diventi fruibile solo se è possibile mangiare, bere e scattare inutili fotografie da pubblicare sui social? E per quale ragione bisogna utilizzare palazzi storici che sarebbe meglio preservare per altri fini? Ci sarebbe da chiedersi quanti, fra quelli che postano scatti su Instagram col calice in mano, avrebbero visitato quel luogo se fosse stato un museo, una biblioteca o un semplice spazio aperto alla collettività. Pochi, di sicuro una sparuta minoranza. Quando un edificio storico diventa location viene snaturato, da protagonista si trasforma in comprimario, mero sfondo al servizio dei narcisisti del selfie.
Sia ben chiaro, il mio articolo non vuole essere una provocazione, né una sterile polemica. Io sono semplicemente dell’idea che un edificio storico andrebbe preservato o al più convertito in uno spazio davvero pubblico, rispettandone storia e architettura. Dovrebbe essere il protagonista del territorio e non un comprimario per matrimoni, compleanni e battesimi. Castelli e palazzi non sono costruzioni come le altre; sono i testimoni della storia locale e hanno un’identità da difendere. Darli in mano ad affaristi attenti solo al profitto significa votarli a morte certa, una morte forse diversa dalla rovina, eppure altrettanto definitiva.
Chi difende a spada tratta siffatte operazioni commerciali, si trincera dietro un presunto stato di necessità. Se non l’avessimo trasformato in ristorante, dicono, in capo a qualche anno sarebbe crollato. Poco male, mi sento di rispondere. Fermo restando che nessuno è in grado di predire il futuro, la rovina è nel ciclo naturale delle cose. Pretendere di salvare questi edifici trasformandoli nel non plus ultra della cafonaggine e della pacchianeria è invece un’innaturale forzatura e una meschina ipocrisia. Meglio ammettere che li si vuole sfruttare per profitto, sarebbe più onesto.
Se proprio non si può fare di meglio, lasciateli morire in pace. Tuttavia, senza arrivare a esiti così estremi, a mio avviso ci sarebbe una soluzione ragionevole: imporre l’apertura di uno spazio museale unitamente all’attività ricettiva. Chi vuole riadattare un palazzo storico a ristorante o albergo dovrebbe essere vincolato a destinare una parte della struttura all’allestimento di un museo o una biblioteca dedicati alla storia locale. Potrebbe essere un buon compromesso, un modo per salvare i ricordi del passato senza rinunciare alle esigenze del presente.
A. Pinto - Paesaggio abruzzese - 1977 (collezione privata)

13 settembre 2023

"Mille gru" di Yasunari Kawabata: il peso della tradizione

Se c'è un'opera che più delle altre ha contribuito a trasmettere all'Occidente l'immagine di un Giappone pittoresco e forse un po' stereotipato, questa è sicuramente Mille gru. Il romanzo ruota intorno a uno dei riti più antichi del Paese del Sol Levante: la chanoyu, ossia la cerimonia del tè. Considerata come una vera e propria arte, fu introdotta dai monaci cinesi nel corso del XIII secolo dopo Cristo; negli anni successivi alcuni esteti ne codificarono le modalità e le regole, da allora continuamente perfezionate e rispettate pedissequamente dai cerimonieri. Il rito si svolge in una stanza chiamata "padiglione del tè", cui si accede da una porta strettissima e bassa che vuole metaforicamente simboleggiare il lasciarsi alle spalle gli affanni e le sofferenze della realtà esterna. La ricerca della pace e della serenità, anche se illusoria e momentanea, ne è dunque l'essenza. Nulla è lasciato al caso e particolare cura è dedicata alla scelta del bricco, delle tazze e del vasellame.
Il romanzo si apre nel bel mezzo di una cerimonia del tè, quella organizzata dalla maestra Chikako Kurimoto in onore del giovane Kikuji Mitani, rimasto solo dopo la morte di entrambi i genitori. Chikako è stata per un periodo una delle amanti del padre di Kikuji, ma non la preferita; per questo motivo, per una forma di civetteria o più verosimilmente per dimostrare di contare ancora qualcosa, decide di fare da intermediaria per trovare una moglie al ragazzo. Senza preoccuparsi di ottenere il suo consenso, trasforma il rito del tè in un omiai, un incontro a scopo di matrimonio, invitando la bella e virtuosa Yukiko. Durante uno di questi incontri è tuttavia presente anche la signora Ota, un'altra amante del defunto Mitani, la preferita e l'unica amata per davvero dal vecchio. Anche la Ota è ossessionata dal passato e seduce il giovane Kikuji, forse per ritrovare in lui l'amante perduto. Le due donne, ciascuna a modo suo, vogliono influenzare il ragazzo: si viene così a creare una situazione incresciosa e immorale che darà il via a una sequela di eventi drammatici.
Mille gru è un romanzo di contrasti dirompenti, celati dietro l'apparente quiete della cerimonia del tè. Tutti i personaggi sono turbati nel profondo da eventi drammatici: Kikuji deve fare i conti con l'ingombrante fantasma del padre, Chikako è incattivita dal suo destino di nubile, la signora Ota non riesce a contenere la sua esuberante sensualità ed è torturata dal rimorso. È un coacervo di tormenti e di inestricabili conflitti: amore e morte, sensualità e pudicizia, tradizione e modernità, incesto e rispetto dei valori familiari. Da questo punto di vista, il romanzo non è solo il nostalgico rimpianto di una società arcaica che cedeva all'avanzare del capitalismo, ma contiene una velata critica a quella morale chiusa e bigotta che non tollerava la vergogna e spingeva i peccatori al suicidio e i censori alla reprimenda.
Kawabata (1899-1972) confermò con questo romanzo di essere un maestro della scrittura, qualità che gli valse il Premio Nobel per la letteratura nel 1968. Il suo stile è essenziale eppure intenso, poche rapide pennellate in grado di ricostruire tutto un mondo; una scrittura che non indulge in lunghe descrizioni, né cerca di imporsi sul lettore. Per quanto possa apparire un'osservazione scontata, leggendo il libro ho avuto più volte l'impressione di essere seduto assieme a Chikako e Kikuji a sorbire una tazza di tè fumante. La lettura di Mille gru è un'esperienza immersiva, qualità sempre più rara e forse persino impensabile per la letteratura contemporanea.
Consiglio la lettura del libro a quanti desiderano approfondire aspetti della società giapponese tradizionale. È un romanzo breve, composto da cinque capitoli che in origine furono pubblicati in riviste e tempi diversi, dal maggio 1949 all'ottobre del 1951. Nel 1952 la casa editrice Chikuma shobō li raccolse in un unico volume, più volte rimaneggiato da Kawabata. Ne sono state ricavate due riduzioni teatrali e un film per la regia di Yoshimura Kōzaburō.
Dello stesso Autore, suggerisco anche La casa delle belle addormentate.
La suggestiva copertina dell'ultima edizione Mondadori