La
registrazione integrale della puntata di martedì 9 dicembre de “La voce degli
scrittori”, dove ho presentato in anteprima Le rovine in attesa, è
disponibile su You Tube, cliccando sul testo sottostante:
Letteratura, Musica, Scrittura, Cinema, Arte e altri argomenti. Per un pensiero non allineato.
12 dicembre 2014
4 dicembre 2014
Presentazione "Le rovine in attesa" su Lazio TV
Martedì 9 dicembre presenterò il mio romanzo di imminente pubblicazione, Le rovine in attesa, sull'emittente Lazio TV (ore 20:30, canale 12 del digitale terrestre), nella trasmissione "La voce degli scrittori", dedicata alla promozione delle nuove voci del panorama letterario italiano.
Martedì 9 dicembre, ore 20:30, Lazio TV (canale 12 digitale terrestre)
2 dicembre 2014
Per un Meridionalismo intelligente
Bisognerebbe rileggere Carlo Alianello
(1901-1981), specie in questi tempi in cui il Meridionalismo, un tempo elitaria
corrente di pensiero, viene ripreso a tutti i livelli, spesso con
superficialità e senza piena cognizione di causa. E bisognerebbe riprendere in
mano i suoi libri non solo per l’indiscussa qualità letteraria, ma perché ci
raccontano quello che il Meridione è stato e continua ad essere, tratteggiando
con precisione le peculiarità sempiterne di questo popolo.
Alianello aveva un grande talento
narrativo, che per consapevole scelta politica decise di mettere al servizio
dei vinti, di quelle genti “conquistate” (per dirla proprio con le sue parole)
nel 1860. Il trittico di opere dedicato alla vicenda risorgimentale è composto
da una raccolta di racconti, Soldati del re (1952), e da due romanzi corali,
L’alfiere (1942) e L’eredità della Priora (1963), da cui furono tratti
fortunati sceneggiati televisivi.
Ne L’alfiere vengono rievocati i
convulsi giorni che precedettero la caduta del Regno delle Due Sicilie. Pino
Lancia, il protagonista, è un soldato leale, che combatte in Sicilia ed a Gaeta,
passando per Napoli. Il racconto, che inizia con l’arrivo dei garibaldini e si
conclude con la resa della Cittadella assediata, ricostruisce in maniera
precisa e vivida gli eventi principali di una guerra civile fatta di tradimenti
e di viltà, più che di atti di eroismo. E il merito dell’autore sta proprio nel
dare un volto e umanissimi sentimenti agli sconfitti, ricondotti alla
primigenia dignità di uomini e donne. Eppure, nella sua ansia di raccontare il
vero e non tacere nulla, Alianello non si rinchiude nella visione idilliaca di
un Sud tradito, di una sorta di Eden violentato da un invasore selvaggio.
L’autore è spietato nell’affermare che le responsabilità della conquista vanno
ricercate, in primo luogo, nel modo d’essere dei meridionali. Dice in proposito
un suo personaggio, il padre dell’alfiere Lancia:
«Brutta cosa, figlio mio, nascere napoletani. Perché siamo vecchi, figlio. Questo è un popolo vecchio: e perciò scettico, indulgente, pronto a transigere. Le grandi cose, le grandi virtù, gli ideali gli si sono logorati tra le mani in tanti secoli e han perduto quel lustro, quel brillio, quella certezza che attrae e fa smuovere la gente giovane. […] Questo popolo va in sfacelo per eccesso d’intelligenza. Tu gli dici patria, e lui vede il gendarme borioso, il magistrato venale, il funzionario traffichino, il generale traditore o vile e il Re beffato e truffato. Tutte facce dello stesso Pulcinella, tutta gente come lui, della sua pasta, che rispettare non può, ma a cui finge d’obbedire, per evitare guai. E ad un’idea astratta non ci crede: ad una patria, che non sia fatta d’uomini, non ci può nemmeno pensare. […] E lo Stato agli occhi suoi così si manifesta: un gran rubare, un gran mangiare, un immenso imbroglio, un traffico gigantesco di vergogne che va dal Garigliano alla punta del Faro.»
L’eredità della Priora è invece un’opera
sul brigantaggio, che ci presenta il punto di vista degli irregolari, dei
legittimisti datisi alla macchia. La brutalità del nascente Regno d’Italia è
mostrata in tutti i suoi aspetti, senza nulla nascondere: ci sono le
fucilazioni di massa, le condanne per un semplice sospetto, i corpi seviziati e
lasciati in strada come monito, le tasse che stritolano i braccianti. L’unificazione
ha tradito i suoi stessi ideali, trasformandosi in uno sfruttamento ancora più
feroce e ingiusto, nella nascita di una colonia. E così uno dei personaggi del
libro, acceso liberale, arriva amaramente ad affermare:
«Il fatto è che sotto i Borboni noi vi credevamo davvero fratelli. E per questa fratellanza abbiamo rischiato la forca, l’ergastolo, le galere. Non vi sapevamo ancora e non potevamo supporre, neanche io lo pensavo, che una monarchia ne valesse un’altra… Poesia, poesia. ‘A verità, l’Italia unita l’hanno voluta i letterati. Libertà, eguaglianza, fraternità. Guardatevi attorno e ditemi dove stanno. Voi siete venuti qua come dentro l’Africa selvaggia senza sapere niente e ancora v’ostinate a non voler sapere niente. E avete stabilito che siamo inferiori a voi soltanto perché siamo differenti. […] Avreste dovuto venire qua a portarci lavoro, istruzione, progresso… Non siete quelli che ci hanno redenti dalla barbarie borbonica? Almeno aveste portato la giustizia! E invece ve la siete sbrigata con quattro gendarmi e quattro avventurieri. […] Ma, se si potesse tornare indietro e ricominciare da capo… patti chiari, amicizia lunga… Altrimenti non entrereste più con tanta facilità nel Regno di Napoli.»
Eppure, ancora una volta, Alianello non si
cela dietro un dito, non intende nascondere le colpe dei vinti. La società
meridionale, già prima dell’Unità, era arretrata, stritolata da una borghesia
miope e priva di slanci, da una burocrazia inefficace e corrotta, con larghi
strati della popolazione che boccheggiavano appena al di sopra del limite della
sopravvivenza. Mali oscuri, mali antichi, mai del tutto superati.
Si potrebbe iniziare proprio da questi
testi per costruire finalmente un Meridionalismo intelligente, slegato da prese
di posizione aprioristiche di stampo “leghista”, capace di leggere oltre i dati
statistici, in grado di affrontare un discorso più complesso e avvincente.
Carlo Alianello (foto tratta da Wikipedia)
11 novembre 2014
L'ultima festa dei Musicanova
«Eugenio dice che io sono rinnegato
perché ho rotto tutti i ponti col passato.
Guardare avanti, sì, ma ad una condizione,
che tieni sempre conto della tradizione.»
Milano c’a primma vota te fa paura,
passa o tram e nun t’o vuo’ piglià
pecchè vuo’ i’ a pede pe sta città. […]
Te saluto Milano
Milano d’a produzione
Milano ca si nun sierve sì nu coglione.
Ma sulo e’ chesto nun se po’ campa’,
te saluto Milano e nun ce voglio stà.»
perché ho rotto tutti i ponti col passato.
Guardare avanti, sì, ma ad una condizione,
che tieni sempre conto della tradizione.»
Questo è l’incipit di Rinnegato, una delle prime canzoni di Edoardo
Bennato. L’artista napoletano, innamorato dell’America e del rock
and roll, ricorda le parole del fratello Eugenio, cultore della
musica popolare, che lo ammoniva a non dimenticare mai la tradizione, perché
non può esistere innovazione se non si tiene conto del passato. I Musicanova,
capitanati proprio da Eugenio, hanno percorso, alla fine degli Anni Settanta,
la via della riscoperta della musica folcloristica, assieme ad altri gruppi
interessanti, come il Canzoniere del Lazio.
Festa festa (Fonit Cetra, 1981) è il loro quinto LP, l’ultimo. Diventati un vero e proprio collettivo, i Musicanova raggiungono un felicissimo connubio tra musica e testi, secondo solamente all’epocale Brigante se more (1979), colonna sonora dello sceneggiato Rai L’eredità della priora, tratto dall’omonimo romanzo di Carlo Alianello.
Festa festa (Fonit Cetra, 1981) è il loro quinto LP, l’ultimo. Diventati un vero e proprio collettivo, i Musicanova raggiungono un felicissimo connubio tra musica e testi, secondo solamente all’epocale Brigante se more (1979), colonna sonora dello sceneggiato Rai L’eredità della priora, tratto dall’omonimo romanzo di Carlo Alianello.
Per costruire le complesse trame sonore del disco, il gruppo si
amplia, fino a contare otto elementi: Eugenio Bennato e Carlo D’Angiò (voci e
chitarre), Maria Luce Cangiano (voce), Pippo Cerciello (violino), Mauro Di
Domenico (chitarre e mandoloncello), Riccardo Romei (basso elettrico), Alfio
Antico (tamburello) e John Perilli (fiati).
Tutte le composizioni sono originali: Bennato
e D’Angiò attingono dal patrimonio popolare ritmi e tematiche, che rielaborano
con un gusto moderno che non scade mai nel manierismo: ecco
allora, qui e lì, intrusioni di tastiere, basso e chitarra elettrica. I due,
che si dividono egregiamente il lavoro di scrittura, dimostrano di aver
assimilato la grande tradizione della musica contadina dell’Italia meridionale;
i testi, rigorosamente in dialetto, sono limpidi quadretti di vita rurale (L’acqua
e la rosa), cantilenanti preghiere (Ex voto),
storie minime dai toni di favola (Canzone per Iuzzella), filastrocche dal sapore
antico (Canzone
della fortuna) o struggenti ninne nanne (Nannaré).
La vena polemica e l’impegno civile sono gli altri due
cardini di questo lavoro. In Vento del Sud ritorna la visione critica
della vicenda risorgimentale, i cui ideali egualitari sono stati traditi da chi,
per precisa volontà politica, ha trasformato il Meridione in una colonia. A la
festa, che dà il titolo all’album, è invece un canto collettivo di
protesta, che ricorda la lotta dei contadini contro i “galantuomini”, padroni
delle terre e sfruttatori.
Il capolavoro del disco è però Te saluto Milano, che chiude la
prima facciata. È la struggente e liberatoria ballata dell’emigrante che può
finalmente andare via dalla metropoli che gli ha dato da mangiare, prendendosi
però in cambio i suoi anni migliori. Commovente canzone di
emarginazione, riscatto e nostalgia, contiene immagini di impressionante
forza evocativa.
«Te saluto Milano
Milano d’a faccia scura,Milano c’a primma vota te fa paura,
passa o tram e nun t’o vuo’ piglià
pecchè vuo’ i’ a pede pe sta città. […]
Te saluto Milano
Milano d’a produzione
Milano ca si nun sierve sì nu coglione.
Ma sulo e’ chesto nun se po’ campa’,
te saluto Milano e nun ce voglio stà.»
Copertina e retro del vinile
27 ottobre 2014
"I know we only get one chance at real love": intervista a Lee Fardon
Lee
Fardon è un cantautore inglese che gode di buona popolarità in Italia. Ha
da poco pubblicato London Clay, un’antologia acustica dei suoi migliori
brani, con quattro inediti. È stata questa l’occasione per contattarlo e farmi raccontare qualcosa di
sé. Con grande disponibilità mi ha concesso un’intervista (che riporto anche in
inglese), in cui si rivela in tutta la sua sensibilità di artista. Ne viene
fuori il ritratto di un musicista che fa dell’onestà intellettuale il suo marchio di fabbrica.
Il
suo sito è http://www.leefardon.com/.
Domanda.
Su internet ho notato che molte persone in Italia si ricordano di te; inoltre,
hai fatto diversi concerti in città italiane qualche anno fa. Qual
è il tuo rapporto con questo Paese?
(Question. On the internet I observed that lots of people in Italy
remember Lee Fardon; besides, you made several concerts in Italian cities some
years ago. What’s your relationship with this country?)
Risposta.
Subito dopo la pubblicazione del disco "The God given right”, ho iniziato un
tour europeo in Olanda, Belgio e Germania. Abbiamo suonato in piccoli club e
pub; l’ultimo spettacolo era in Italia, a Varese, dove abbiamo suonato in un palazzetto
dello sport; lì c’è stata l’affluenza di pubblico maggiore dell’intero tour.
Non credevo che l’album fosse così conosciuto. Da allora ho fatto diversi tour
in Italia, ed è sempre andato tutto bene. Gli italiani sembrano avere un
particolare apprezzamento per l’arte.
(Answer. Just after the release of the God
Given Right I began a European tour through Holland, Belgium, Germany. We
played small clubs, bars; the last show was in Italy in a place called Varese,
the venue was a small sports stadium; it was our biggest audience on the whole
tour. I had no idea the album was so well known. Since then have toured in
Italy many times, and it’s always good. Italians seem to have a well developed
appreciation of art.)
D.
Ad avviso di molti recensori, “God given right” è il tuo miglior disco. Anche
se è stato scritto negli Anni Ottanta, penso sia ancora molto attuale. Hai
qualche ricordo particolare (o privato) riguardo questo album?
(According to some reviewers, “God given right” is your best disc. Even
if it was produced in Eighties, I think that is still contemporary. Have you
got some peculiar or private memories about this record?)
R.
“The God given right” è stato il mio secondo album, dopo “Stories of
adventure”. All’epoca in cui fu registrato, eravamo sempre in tour. Non avevo
un grande budget, e così il disco è stato registrato in sole due settimane, ma ho
sempre ritenuto che suona davvero bene dal vivo. L’ho prodotto assieme al mio
chitarrista, Jimmy Hall. Sono stato molto fortunato ad aver coinvolto anche Jan
Schelhaas, certamente il miglior organista Hammond che io conosca, anche se non
era un membro regolare della mia band. La formazione che suonò in quel disco
era composta da me (voce e chitarra), Jimmy Hall (chitarra), Colin Fardon
(basso), Jan Schelhaas (organo e piano) e Chris Brown (batteria). La
registrazione è stata breve, ma ogni momento rimane con me; ogni
cosa, sin dal momento in cui iniziammo, andò bene, era come se fossimo
benedetti. L’album sarà presto scaricabile dal mio sito.
(The God Given Right was my second
album, the first being Stories of Adventure.
At the time it was recorded my band and I were gigging hard, I did not
have a big budget so the whole album was recorded in two weeks, I always say
that to me it sounds like a really good gig. It was produced by me and my
guitarist Jimmy Hall. I was very lucky to get Jan Schelhaas the best Hammond
organist I know, as he was not a regular member of my band. The musicians were
Lee Fardon guitar and vocals, Jimmy hall guitar, Colin Fardon bass, Jan
Schelhaas organ and piano, Chris Brown drums. The recording of the God Given
Right was a short period of time yet every moment remains with me, everything
from the moment we started it went well, it was like we were blessed. God Given
right will soon be available as a download on my website.)
D.
Hai scritto molte canzoni; qual è la preferita e perché?
(You wrote so many songs; what’s the favorite and why?)
R.
É proprio “The
God given right”, che ho scritto per una persona a me molto cara. La melodia è
salita come un’onda, è stata schiacciante. Ci credevo davvero in questa
canzone. Ora, quando la ascolto o la suono, so che abbiamo un’unica occasione
di amare veramente. A quanto pare, è anche la mia canzone che Bob Dylan
preferisce.
(Has to be the God Given Right I wrote it for someone I cared for very
mush. The melody came to me like a wave, it was a bit overwhelming. I truly
believed in the premise of the song. Now when I hear it or perform it I know we
only get one chance at real love. Apparently its Bob Dylan’s favourite
song of mine.)
D.
Gli Anni Sessanta sono stati anni di rivoluzione, anche musicale. I Settanta
hanno conosciuto l’anarchia del punk. Come descriveresti gli Anni Ottanta, che
ti hanno visto protagonista?
(The Sixties were years of revolution, even in music. The Seventies were
the years of punk’s anarchy. How would you describe the Eighties, that was the
period in which you mostly played?)
R.
Ad essere onesti, non penso niente di particolare degli Anni Ottanta; io non
seguo le mode musicali, per me le cose sono cominciate alla fine degli Anni
Settanta e stanno ancora continuando. Non ero realmente consapevole di essere
negli Anni Ottanta; io scrivevo e mi esibivo senza curarmi del contesto.
Secondo me, c’è sempre stata, in ogni decennio, buona e cattiva musica.
(To be
honest I don’t think too much about the 80s. I don’t follow musical fashion,
for me things started in the late 70s and just continued I was not really aware
of being in the 80s I was writing and performing with no eye on the decade. In
my opinion there has been good music bad music in every decade.)
D.
Quali sono i modelli musicali, letterari ed artistici nella tua musica?
(What are musical, literary and artistic models in Fardon’s music?)
R.
Quando avevo dieci o undici anni mio padre mi regalò una copia di “Freewheelin”
di Bob Dylan. In capo ad un mese avevo la mia prima chitarra. Negli anni ho
imparato molto da lui, come ogni “songwriter” della mia generazione. Io, Warren
Zevon e Bruce, siamo tutti piccoli fratelli e sorelle di Bob.
(When I was
10 or 11 my father gave me a copy of Bob Dylan’s Freewheelin, within a month I
got my first guitar. Over the years I learnt from him like every song writer of
my generation. Writers like Warren Zevon, Bruce we are all Bobs little brothers
and sisters.)
D.
Che tipo di musica ascolti?
(What kind of music do you listen to?)
R.
Io non ascolto musica quando compongo, che poi è la maggior parte del mio
tempo, perché penso che possa confondere i miei pensieri, e non amo l’influenza
diretta che potrebbe suscitare su di me. Mi piace andare nei locali per
scoprire musicisti, trovare persone interessanti con cui lavorare. Per
rilassarmi, ascolto un disco di Joni Mitchell; mi conforta, la amo.
(I don’t
listen to music when I am writing which is pretty much all the time, I find it
muddies my thinking, and I don’t like the direct influence it imparts. I like
going to local venues to check out musicians, looking for interesting people to
work with. To relax I might put on a Joni Mitchell cd she sooths me and I love
her.)
D.
Dove trovi l’ispirazione per scrivere i tuoi pezzi? Nella vita di tutti i
giorni o nella tua immaginazione?
(Where do you find inspiration to write your songs? In everyday’s life
or in your imagination?)
R.
Non ho mai saputo rispondere a questa domanda; dipende dal momento. Forse ti
potrei raccontare di come e perché ho scritto “Sherriff and his sister”. Stavo
guardando un vecchio film in bianco e nero sulla Seconda Guerra mondiale. In
una scena, decine di ebrei di tutte le età venivano caricati sui treni; tra di
loro c’era un bambino di otto o nove anni e una bambina più piccola, che penso
fosse sua sorella, entrambi con la stella di Davide sul cappotto. Un soldato
tedesco stava per caricare la bambina sul vagone, ma il fratello glielo impedì;
volle lui aiutare la sorella a salire, per poi seguirla a sua volta sul treno. É stata la cosa
più triste e coraggiosa che abbia mai visto. L’intera scena è durata forse
trenta secondi. "The Sherriff and his sister” è su “London clay”.
(I never
know how to answer this question, usually moments in time. Maybe if I tell you
how and why I wrote the ‘Sherriff and his sister’. I was watching an old piece
of black and white film from the Second World War, this was the scene, scores
of Jews of all ages were being loaded on to trains, there was a young boy 8 or
9 years old and a younger girl I took to be his sister, both with stars on
their coats, a German soldier was about to lift the little girl into the box
car but the boy stopped him, lifted her
in to car himself the climbed in after her, It was the saddest and bravest
thing I’ve ever seen. The whole clip of film lasted about 30 seconds. The
Sherriff and his sister is on London Clay.)
D.
Potresti descrivermi il tuo nuovo disco, “London clay”?
(Could you describe me your new disc, “London clay“?)
R. "London
clay" è, in parte, un’antologia retrospettiva, acustica. Ho scelto le tracce dai miei
vecchi album – ad esempio “Together in heat”, presa da “God given right” – e le
ho rivisitate; include anche quattro nuove canzoni. È una
registrazione intima, con molte intense esecuzioni. Qualcuno ha
detto che sembra folk/soul? Forse è così. Di certo, è un lavoro sincero,
onesto.
(London
clay is a part retrospective acoustic style album, I choose songs from my past
albums for
example ‘Together in heat’ from the God given right’ and re-visited them also
it includes 4 new songs. It’s a very intimate recording, featuring some great
playing, someone said it sounds like folk/soul? Maybe it does. It’s certainly an
honest piece of work.)
D.
Il tuo futuro? Tornerai in Italia?
(Your future plans? Will you return in Italy for some gigs?)
R.
Ho girato l’Italia in passato ed è stato sempre entusiasmante; mi piacerebbe
tornare. Purtroppo il mio amico e agente Carlo Carlini è venuto a mancare
alcuni anni fa, e mi risulta difficile trovarne un altro. Ma di certo vorrei
sempre suonare in Italia. Il pubblico italiano è il più recettivo tra quelli
per cui ho suonato. Mi capisce.
(I have
toured in Italy in the past and it’s always been great, would love to come
back, unfortunately my friend and promoter Carlo Carlini passed away a few
years ago, and I am finding it hard to get another. But sure I would play Italy
any time. Italian audiences are the most understanding I have played for. They
get me.)
D. Che artista è Lee Fardon?
(What
kind of artist is Lee Fardon?)
R.
Che tipo di artista sono? Sincero, fiducioso che, ogni tanto, tutto possa
andare per il meglio. Mi impegno a raccontare i pensieri della gente, provando
a dare una conferma alle cose che già sanno.
(What kind
of artist am I? Honest, some time to honest, hopefully still developing. Striving
the clarify thoughts for people, trying to confirm things they already know.)
Lee Fardon, London Clay, foto tratta dal sito del musicista
Il nuovo disco, acquistabile su http://www.leefardon.com/
Per leggere la mia recensione di The God given right, clicca qui.
23 ottobre 2014
Nuovo romanzo: "Le rovine in attesa"
Il mio secondo romanzo, Le rovine in
attesa, sarà pubblicato entro la fine dell’anno dalle Edizioni Alter Ego di
Viterbo.
Protagonista
del romanzo è Erminio Narri, un giovane
insoddisfatto e frustrato, che vive con precarietà tutte le esperienze della
sua modesta esistenza: il lavoro, l’amicizia e l’amore. Appartenente ad una
famiglia della media borghesia caduta in disgrazia, è riuscito ad ottenere
soltanto una misera occupazione in una vecchia e malandata biblioteca di
teologia, nonostante lunghi anni di studi giuridici alle spalle.
Il momento del riscatto sembra però
arrivare quando riceve inaspettatamente la lettera di un anziano nobiluomo
meridionale, che lo invita a recarsi presso la sua avita dimora per discutere
di un “affare urgente e segreto”. Il
marchese Alberico Priviano, questo è il nome del misterioso mittente, vive in un antico e decaduto palazzo, in una “terra circondata dai monti eppure così
vicina al mare”. Qui, in mezzo agli amati libri e quasi in solitudine, il
marchese coltiva un suo visionario progetto di redenzione collettiva, in cui
cerca di coinvolgere Erminio. Questi, nonostante le iniziali titubanze, finirà
per aderirvi, nella convinzione di poter ottenere quella fama e quel denaro
che, altrimenti, non avrebbe mai creduto di poter raggiungere.
E sarà proprio la trattazione di
questo oscuro progetto ad avvincere i protagonisti in un comune destino, che li
porterà ad accettare definitivamente il peso della propria inettitudine morale
e materiale. I due, apparentemente così diversi, si scopriranno vicini,
entrambi pervasi nel profondo dell’animo da una solitudine alla quale hanno
cercato di dare maldestramente sollievo con l’ansia del successo e una vana
aspirazione di rivincita.
Concepito quale opera sullo spinoso
tema dell’unificazione del Paese e sulla genesi della "questione meridionale", il
romanzo, pur attraversato da una sottile vena polemica, tipica di un certo “revisionismo”
della vicenda risorgimentale, tenta di collocarsi oltre la mera disputa
politica. La vicenda narrata diviene pertanto occasione per lanciare un’invettiva
contro la seduzione del denaro e un ammonimento sulla inconsistenza dei
desideri di gloria e sulla pericolosità dell’ambizione del potere.
Il logo della Casa editrice
22 ottobre 2014
"Breviario del caos" di Albert Caraco: uno sguardo lucido sul tramonto dell'Occidente
Una lettura che fa riflettere e disturba, poco più di cento pagine
di meditazioni scandite da immagini apocalittiche e da parole taglienti. Era un
filosofo estremo Albert Caraco, delirante provocatore e al contempo lucido cantore
delle ossessioni e delle perversioni di un Occidente decaduto, la cui fine
viene drammaticamente evocata in questo Breviario del caos.
Lo strano pensatore non ebbe mai fortuna in vita; le sue opere
hanno iniziato a circolare solo dopo il suicidio (1971), programmato da lustri
ma compiuto solo dopo la morte del padre, unico essere umano a cui mai avrebbe
voluto dare un dispiacere.
Ed è proprio la morte che aleggia sinistra nelle pagine di questo libro; ma non è una morte intesa cristianamente come la fine di un percorso naturale, che si conclude nella speranza dell’aspirazione celeste. La morte descritta da Caraco è la peste del 1348, perché non è salvifica e non dà speranza; è come un enorme pozzo nero in cui è l’intera società ad essere inghiottita. Nonostante molte pagine siano letteralmente sconvolgenti, in altre l’autore riesce con grande lucidità ad individuare i nemici dell’umanità, che sono il pensiero unico, la logica capitalista e l’ordine costituito. In proposito, scrive che “la massa dei mortali è fatta di sonnambuli, e all’ordine non conviene mai che escano dal sonno, perché diventerebbero ingovernabili”. E per realizzare questo obiettivo, il potere si serve delle attrattive dello spettacolo, della televisione, delle luci della ribalta, che con la loro insulsaggine “ottundono la nostra sensibilità e finiranno con il guastarci il cervello”. Nulla si salva, nemmeno i valori, che anzi sono i principali artefici della decadenza generale: l’ideale di patria, le religioni e la politica sono bersagli dei più feroci attacchi. Il Breviario del caos, con i suoi incisivi aforismi, diventa il canto funebre della civiltà occidentale, avvolta da un sudario composto dalle sue contraddizioni, dalle ingiustizie e dai falsi idoli. L’aberrazione più grande prodotta da questa società è l’aver mutato la natura dell’uomo, trasformato in “fedele”, “consumatore”, “cittadino”, “elettore”, per servire gli interessi dei gruppi di potere. Ecco perché, conclude l’autore, non potremo mai cambiare questa umanità se non distruggendola, per poi ricomporla ex novo.
È stato detto di tutto di Caraco: lo si è definito, forse non a torto, provocatore, folle, miserabile, anarchico, catastrofista, nichilista fino all’estremo. Sarebbe tuttavia stupido non riconoscergli un grande merito: quello di aver scritto, a costo di essere bollato come un reietto dell’umanità, ciò che gli altri si rifiuterebbero sempre di scrivere per paura del severo giudizio dei consociati. E allora è probabile che nel leggere questo libello si possa essere portati a scuotere la testa, a disapprovare gran parte di quello che vi è scritto. Sfido però chiunque si definisca uomo libero a non condividere almeno qualcuna delle amare riflessioni del pensatore francese.
Ed è proprio la morte che aleggia sinistra nelle pagine di questo libro; ma non è una morte intesa cristianamente come la fine di un percorso naturale, che si conclude nella speranza dell’aspirazione celeste. La morte descritta da Caraco è la peste del 1348, perché non è salvifica e non dà speranza; è come un enorme pozzo nero in cui è l’intera società ad essere inghiottita. Nonostante molte pagine siano letteralmente sconvolgenti, in altre l’autore riesce con grande lucidità ad individuare i nemici dell’umanità, che sono il pensiero unico, la logica capitalista e l’ordine costituito. In proposito, scrive che “la massa dei mortali è fatta di sonnambuli, e all’ordine non conviene mai che escano dal sonno, perché diventerebbero ingovernabili”. E per realizzare questo obiettivo, il potere si serve delle attrattive dello spettacolo, della televisione, delle luci della ribalta, che con la loro insulsaggine “ottundono la nostra sensibilità e finiranno con il guastarci il cervello”. Nulla si salva, nemmeno i valori, che anzi sono i principali artefici della decadenza generale: l’ideale di patria, le religioni e la politica sono bersagli dei più feroci attacchi. Il Breviario del caos, con i suoi incisivi aforismi, diventa il canto funebre della civiltà occidentale, avvolta da un sudario composto dalle sue contraddizioni, dalle ingiustizie e dai falsi idoli. L’aberrazione più grande prodotta da questa società è l’aver mutato la natura dell’uomo, trasformato in “fedele”, “consumatore”, “cittadino”, “elettore”, per servire gli interessi dei gruppi di potere. Ecco perché, conclude l’autore, non potremo mai cambiare questa umanità se non distruggendola, per poi ricomporla ex novo.
È stato detto di tutto di Caraco: lo si è definito, forse non a torto, provocatore, folle, miserabile, anarchico, catastrofista, nichilista fino all’estremo. Sarebbe tuttavia stupido non riconoscergli un grande merito: quello di aver scritto, a costo di essere bollato come un reietto dell’umanità, ciò che gli altri si rifiuterebbero sempre di scrivere per paura del severo giudizio dei consociati. E allora è probabile che nel leggere questo libello si possa essere portati a scuotere la testa, a disapprovare gran parte di quello che vi è scritto. Sfido però chiunque si definisca uomo libero a non condividere almeno qualcuna delle amare riflessioni del pensatore francese.
[ Questa mia recensione è apparsa anche su Sololibri.net ]
11 ottobre 2014
"Liege & lief", il capolavoro folk dei Fairport Convention
Alla fine
degli anni Sessanta i Fairport Convention decisero di realizzare in Inghilterra
un’operazione che era già stata compiuta con successo oltreoceano: la
riscoperta delle origini attraverso la riedizione in chiave rock di alcuni
traditionals, brani appartenenti al repertorio folcloristico. Iniziarono
così a studiare l’immenso patrimonio anglosassone di ballads, raccolto negli
anni da studiosi come Francis Child e Cecil Sharp. L’operazione, che ebbe anche
una significativa eco commerciale, è tanto più interessante per la scelta del
gruppo di utilizzare sia gli strumenti elettrici che quelli acustici. Se si
pensa a band coeve come i Pentagle, prevalentemente acustici, si individua la
novità del suono dei Fairport, costruito sopra un continuo intrecciarsi di
fitti dialoghi tra chitarra elettrica e violino amplificato.
Il 1969 è l’anno
di svolta. Liege and Lief, però, “nasce sotto le
circostanze più infauste che si potessero immaginare”, come ricorda Joe Boyd,
produttore del gruppo. A maggio muore in un incidente stradale il batterista
Martin Lamble, gettando nello sconforto gli altri componenti, usciti illesi
dallo schianto. Lentamente, però, il gruppo riprende i progetti interrotti,
fino a pubblicare questo straordinario disco, uno dei punti più alti, se non il
più alto, del revival folk elettrico degli anni Sessanta. A confezionare il
piccolo gioiello sono Sandy Denny (voce), Ashley Hutchings (basso), Dave
Mattacks (batteria), Dave Swarbrick (violino e viola) ed i due chitarristi
Simon Nicol e Richard Thompson.
È un album dai colori pastello, nella grafica e nel suono, rifinito
e quadrato come un buon prodotto artigianale. Le tracce sono otto, anche se
nella recente riedizione della Island ne sono state aggiunte due, per la verità
del tutto trascurabili. Si alternano composizioni originali, scritte dalla band
(Come all Ye, Farewell farewell), a traditionals arrangiati in chiave moderna;
su tutti spicca Matty Groves, il capolavoro dell’album. É un’antica ballad, la cui origine si perde nella notte dei
tempi, che narra del tradimento consumato dalla moglie di un nobile con il suo
amante, di nome Matty Groves, conosciuto durante una cerimonia religiosa. La
vicenda si conclude tragicamente, con la tremenda vendetta ordita dal marito di
lei, che scopre gli amanti e li uccide. La musica si caratterizza per un ritmo
ipnotico su cui svetta la voce imperiosa di Sandy Danny. Gli altri brani sono
tutti di altissimo livello. Alcuni sembrano essere costruiti intorno alla voce
della cantante, come Reynardyne o la dolcissima Farewell farewell. Altri sono
invece il banco di prova della perizia tecnica della band; si ascolti in
proposito il Medley, con un ritmo concitato e suadente retto da un violino indiavolato.
In chiusura dell’album c’è Thin Lin, una canzone che ricorda da vicino i coevi
Jefferson Airplane, specialmente quelli più lisergici di After bathing at
Baxter’s, con Sandy Danny che sembra fare il verso a Grace Slick.
Gli
ascoltatori della radio della BBC l’hanno eletto miglior disco folk di tutti i
tempi. Al di là delle classifiche, che
lasciano il tempo che trovano, è certamente un album intenso, di ricerca e
grande perizia esecutiva, paragonabile forse soltanto a John Barleycorn must
die dei Traffic, che seguirà di un anno.
25 settembre 2014
"Il banchiere anarchico" di Fernando Pessoa: uno splendido ossimoro
C’è stato un
tempo, agli inizi del Novecento, in cui gli anarchici erano diventati un vero e
proprio incubo per i governi europei e un’ossessione per gli uffici di
polizia. Gaetano Bresci, Sante Caserio, Michele Angiolillo, Luigi Lucheni sono
alcuni dei nomi di quelli che in diversi attentati avevano assassinato capi di
governo e membri delle Case regnanti, in nome dell’ideale anarchico e per
liberare una società stretta tra le maglie della tirannide. Proprio in quegli
anni gli ideali anarchici raggiunsero la loro massima diffusione fra le masse
popolari e intellettuali, sì che in alcuni Paesi gli aderenti alle
organizzazioni libertarie superarono per numero i socialisti. Molti furono i
pensatori che approfondirono ed elaborarono il discorso che Bakunin aveva posto
in chiave moderna: Kropotkin, Malatesta e Cafiero, solo per ricordare i più
importanti.
In questo
contesto storico-culturale si colloca il libello di Pessoa (pubblicato nel 1922),
tutto costruito intorno ad un curioso paradosso. Due uomini sono seduti allo
stesso tavolo e stanno conversando amabilmente dopo un lauto pasto. Uno di loro
è un banchiere, “grande commerciante e monopolista ragguardevole”, titolare di
un’immensa fortuna in denaro, crediti e azioni. Eppure si professa anarchico,
nonostante la sua condizione lo renda così distante dall’idea tradizionale di
libertario. L’altro commensale vuole sapere, indagare come sia possibile che un
uomo così ricco, così intrinsecamente legato al capitale, possa definirsi
anarchico. La risposta alla domanda è il cuore dell’opera. Si tratta di un
arguto monologo, elaborato nella sua struttura retorica, che giunge ad una
inaspettata sintesi dopo una complessa trama di tesi e antitesi.
Ad avviso
del banchiere la società è ingiusta perché non è paritaria, a causa delle convenzioni sociali – quali il denaro, il censo, l’educazione, la classe di
appartenenza – che, impedendo di fatto l’uguaglianza sostanziale tra gli
uomini, si impongono sulla Natura, invece generosamente egualitaria.
L’anarchico, allora, è colui che “si oppone all’ingiustizia di nascere
socialmente diseguali”. Il banchiere, nato povero e operaio, descrive la lunga
parabola che lo ha portato a diventare un vero anarchico, nel pensiero e
nell’azione, solo dopo aver accumulato immense ricchezze. L’idea anarchica di
Pessoa, che parla con la bocca del suo personaggio, è votata all’individualismo
estremo; si oppone tanto al gesto dinamitardo quanto alle logiche di gruppo,
generatrici di tirannia dei più forti sui più deboli. L’unica forma di
liberazione consentita è quella individuale, perché solo uomini già liberati
dalla gabbia delle convenzioni sociali potranno attuare una vera rivoluzione,
che affranchi l’intero consesso umano.
E alla fine
l’ingenuo commensale, travolto dalle parole del banchiere, ha la forza per
porre la domanda fatale, quella che anche il lettore si figura nella mente fin
dalle prime pagine del racconto: come può un facoltoso capitalista reputarsi
autenticamente anarchico? Segue una risposta spiazzante, che non intendo
rivelare.
3 settembre 2014
"Ivangarage", il ritorno alle origini di Ivan Graziani
Il titolo del disco è già un
manifesto di intenti, col richiamo a quel “garage rock” che è sangue e sudore,
ritorno alle origini, primitività del suono elettrico. Registrato alle “Officine
Pan”, vero e proprio studio casalingo dello stesso Graziani, segna il passaggio
dell’artista dalla Numero Uno alla Carosello Records. Ridottissimo il numero
dei musicisti coinvolti, con Beppe Pippi al basso e Pasqualino Venditto alla
batteria. Tutte le chitarre, dolci o aggressive, sono suonate dallo stesso
Graziani.
Oltre che nel titolo, lo spirito dell’album
è ben evidente nella foto interna, che ritrae l’artista con l’immancabile
giaccone di pelle nera e la fida Gibson rossa poggiata poco lontano, in primo
piano e quasi animata di vita propria. Dieci tracce prevalentemente elettriche,
che spaziano dal rock spinto alle più classiche ballate, svelano un volto forse
poco conosciuto dell’artista abruzzese, che mai prima di questo disco aveva rivelato
in maniera così incisiva le sue indubbie doti tecniche.
Si apre con Prudenza mai, solido
rock-blues con un testo irriverente, a tratti spinto. È il manifesto essenziale di una vita controcorrente, passata
a sfidare i poteri costituiti, raccontata però con immagini ironiche ed
evocative.
Prudenza mai, mai neanche adesso che
sono grande
e dovrei stare attento a quel che
pensa la gente
e invece ti mando a fare in culo
a te che sei il direttore che mangi
sempre minestrina
e dopo fai la cacchina.
Beh, niente sermoni, non rompetemi i
maroni.
Io sono fatto così, mi piace dare
fastidio alla gente
io sono così, mi piace andare controcorrente.
Non odiarmi mai, non odiarmi mai
ma la prudenza io non l'ho usata mai.
Seguono i decisi solchi di Un uomo,
il pezzo più tirato dell’album, dai tratti hard-rock, caratterizzato da un
efficace riff che rimane impresso nella memoria.
Soprattutto, in Ivangarage ritorna l’attenzione
verso il mondo dell’infanzia e dell’adolescenza, tematica che l’artista aveva già
trattato in canzoni come Dada. Nel disco brillano un’intensa ballata dedicata
ad una ragazza decisamente fuori dal coro (Guagliò guagliò), la denuncia dell’infanzia
rubata (Johnny non c’entra) e il commosso ricordo di un’amicizia
di gioventù finita tragicamente (Noi non moriremo mai).
Andremo a vedere un film sei volte
fino all’una di notte,
prenderemo a calci un bidone
solo per fare rumore.
Amico ciao, il tuo giaccone di pelle
sarà una bandiera alta fino alle
stelle.
Ivan Graziani ha dato molto di sé in
questo disco, molti dei suoi ricordi personali e tutta la sua sensibilità d’artista,
in un felice ritorno alle origini e alla purezza del suono. E alla fine, con
una squisita citazione beatlesiana, ci ricorda che è solo la buona musica il
rimedio ai mali della vita e all’insofferenza che ci divora.
Né Gastrozepin, né Zantac, né
Famodil,
né Malox o Neutralon, né Roter o
Gastridin.
Ma solo campi di fragole
e Lucia nel cielo coi diamanti
14 agosto 2014
"Un ragazzo" di Nick Hornby: disincantato ritratto dei nostri giorni
La trama complessa delle relazioni umane è il
principale oggetto d’indagine di Nick Hornby, che con Un ragazzo affronta
tematiche di stretta attualità con uno sguardo acuto e a tratti disincantato.
In primo luogo, il romanzo descrive in modo impeccabile il disagio esistenziale di chi vive nelle grandi metropoli, costretto ad una vita alienante e insoddisfacente. Londra, in tal senso, è disegnata come un immenso contenitore di nevrosi e malesseri. Ogni personaggio è, nel profondo, portatore di un male di vivere alimentato dall’ambiente che lo circonda. L’incapacità di rapportarsi con gli altri e l’incomunicabilità conducono inevitabilmente all’isolamento e al pervicace desiderio di annientamento, che non è solo fisico, ma soprattutto morale, nella ferma volontà di obnubilare la coscienza, magari di fronte al televisore sempre acceso.
In secondo luogo, il romanzo scruta la complicata dinamica delle relazioni genitori/figli, individuando nella graduale erosione del ruolo paterno uno dei mali profondi della nostra società. Nel romanzo tutti i personaggi maschili hanno abdicato, vuoi per scelta vuoi per inettitudine, alla funzione genitoriale. Tuttavia, è proprio nella riscoperta della paternità, nel superamento della negazione di tale ruolo, che si cela, secondo l’autore, la possibilità di dare un senso alla propria esistenza. “Un ragazzo” può quindi essere letto anche e soprattutto come romanzo di formazione, accorta analisi della difficoltà di divenire definitivamente adulti.
È stato detto che si tratta di un romanzo divertente, che analizza tematiche importanti con uno stile leggero. Non credo che l’affermazione possa essere condivisa fino in fondo, soprattutto se tale leggerezza di fondo si trasforma in una morale spicciola. Si legga in proposito con grande attenzione il finale, che sembra quasi voler dire che l’essere diversi è fonte di frustrazione e disagio, mentre la vera felicità consiste nell’essere uguali agli altri, annullando peculiarità e caratteristiche che ci rendono diversi e non conformi alla massa. Il piccolo Marcus, uno dei protagonisti del racconto, troverà infatti serenità ed equilibrio solo nel momento in cui, più o meno consapevolmente, cercherà di uniformarsi ai coetanei, cessando di essere agli occhi degli altri un diverso, un inguaribile alienato. Un messaggio forte e non pienamente condivisibile, trattato superficialmente, che chiude il romanzo lasciando nel lettore un senso amaro di incompiutezza.
In primo luogo, il romanzo descrive in modo impeccabile il disagio esistenziale di chi vive nelle grandi metropoli, costretto ad una vita alienante e insoddisfacente. Londra, in tal senso, è disegnata come un immenso contenitore di nevrosi e malesseri. Ogni personaggio è, nel profondo, portatore di un male di vivere alimentato dall’ambiente che lo circonda. L’incapacità di rapportarsi con gli altri e l’incomunicabilità conducono inevitabilmente all’isolamento e al pervicace desiderio di annientamento, che non è solo fisico, ma soprattutto morale, nella ferma volontà di obnubilare la coscienza, magari di fronte al televisore sempre acceso.
In secondo luogo, il romanzo scruta la complicata dinamica delle relazioni genitori/figli, individuando nella graduale erosione del ruolo paterno uno dei mali profondi della nostra società. Nel romanzo tutti i personaggi maschili hanno abdicato, vuoi per scelta vuoi per inettitudine, alla funzione genitoriale. Tuttavia, è proprio nella riscoperta della paternità, nel superamento della negazione di tale ruolo, che si cela, secondo l’autore, la possibilità di dare un senso alla propria esistenza. “Un ragazzo” può quindi essere letto anche e soprattutto come romanzo di formazione, accorta analisi della difficoltà di divenire definitivamente adulti.
È stato detto che si tratta di un romanzo divertente, che analizza tematiche importanti con uno stile leggero. Non credo che l’affermazione possa essere condivisa fino in fondo, soprattutto se tale leggerezza di fondo si trasforma in una morale spicciola. Si legga in proposito con grande attenzione il finale, che sembra quasi voler dire che l’essere diversi è fonte di frustrazione e disagio, mentre la vera felicità consiste nell’essere uguali agli altri, annullando peculiarità e caratteristiche che ci rendono diversi e non conformi alla massa. Il piccolo Marcus, uno dei protagonisti del racconto, troverà infatti serenità ed equilibrio solo nel momento in cui, più o meno consapevolmente, cercherà di uniformarsi ai coetanei, cessando di essere agli occhi degli altri un diverso, un inguaribile alienato. Un messaggio forte e non pienamente condivisibile, trattato superficialmente, che chiude il romanzo lasciando nel lettore un senso amaro di incompiutezza.
6 luglio 2014
L'inesauribile ricerca di un gusto superiore: omaggio a Claudio Rocchi ad un anno dalla scomparsa
Ascoltare
Viaggio di Claudio Rocchi (1951-2013), a distanza di oltre quarant’anni dalla
pubblicazione del disco, rimane un’esperienza magica e straniante, segno di una
stagione irripetibile per la nostra cultura musicale. E la cosa più
sorprendente è il fatto che all’epoca Rocchi avesse soltanto diciannove anni,
sebbene, in qualità di convinto sostenitore delle teorie della reincarnazione, egli
sosteneva di aver già attraversato “miliardi di estati e miliardi di inverni”. Non
è difficile crederlo ascoltando questo disco, crogiolo di suoni che provengono
da terre vicine e lontane (l’India, le percussioni tribali africane), punto di
partenza di un viaggio che è prima di tutto interiore. Rocchi non è mai stato
un cantautore come gli altri. Diverso da Lolli, De Gregori o Venditti, perché
lontano quanto bastava dai clamori della politica. Ironico, eppure non
assimilabile né a Fortis né a Rino Gaetano. Attento alla melodia e al ritmo,
quasi come Lucio Battisti; si ascoltino, in proposito, le lunghe parti
strumentali di Giusto amore. Sperimentatore al pari del primo Alan Sorrenti,
ma sempre coerente con se stesso, a differenza del musicista italo-gallese.
Come hanno scritto Enzo Gentile e Alberto Tonti nel “Dizionario del pop-rock”,
Rocchi “conquista quei ragazzi che cercano una risposta alle domande della
vita”. Lo fa con canzoni apparentemente semplici, chitarra
acustica in testa, ma che trattano temi profondi, come la spiritualità, la
mercificazione della religione, l’amore universale come fratellanza di tutte le
creature, la morte come inizio della rinascita.
In
Viaggio tutte queste tematiche, che costituiranno la spina dorsale di ogni
suo futuro lavoro, sono già delineate nei loro elementi essenziali. Si legga l’audace
testo di Gesù Cristo (tu con le mani), in cui Rocchi ipotizza un Gesù Cristo
dei nostri giorni, ridotto ad icona pop, sfruttato dallo stesso sistema
capitalistico che vorrebbe combattere, spolpato commercialmente per produrre
magliette, poster e altre effigi.
Gesù Cristo non e' morto:
vive e lavora, vive e lavora
vive e lavora
nel Perù,
sì, ed anche questa volta lo faranno fuori
ma lui sa che questa volta servirà molto di più,
molto di più perché
stamperanno le magliette
ne faranno i manifesti
e ne venderanno tanti.
Crocifisso con puntine sopra i muri delle stanza,
sopra i muri di tutti noi.
E sorride, sorride fra un cantante,
fra un cantante e un calciatore.
vive e lavora, vive e lavora
vive e lavora
nel Perù,
sì, ed anche questa volta lo faranno fuori
ma lui sa che questa volta servirà molto di più,
molto di più perché
stamperanno le magliette
ne faranno i manifesti
e ne venderanno tanti.
Crocifisso con puntine sopra i muri delle stanza,
sopra i muri di tutti noi.
E sorride, sorride fra un cantante,
fra un cantante e un calciatore.
I
due dischi successivi, Volo magico n. 1 e n. 2, segnano il deciso passo della
maturità artistica, lanciando un ponte ideale tra l’Occidente e l’Oriente, in
un sincretismo filosofico, religioso e musicale di raro equilibrio e sintesi.
Io, io che un giorno sono nato imparando nel respiro
la mia vita.
Poi tu, lei, bimba magica d'incenso, che mi porti dritto in fondo, dritto, fino a me.
Sole, occhi al centro di ogni fronte, quattro simboli segnati,
Poi tu, lei, bimba magica d'incenso, che mi porti dritto in fondo, dritto, fino a me.
Sole, occhi al centro di ogni fronte, quattro simboli segnati,
la tua fine, no, non è in te.
Dio passa sopra, lo puoi pensare uomo,
lo puoi pensare uomo con la faccia di un maestro di saggezza.
Dio passa sopra, lo puoi pensare uomo,
lo puoi pensare uomo con la faccia di un maestro di saggezza.
Rocchi
gira il mondo, vive per un periodo in India, poi torna in un’Italia dilaniata
dalla strategia della tensione e dagli scontri sociali. E meglio di tutti
descrive il male profondo di un Paese diviso da secolari antagonismi di partito
e di parrocchia, ancora fermo alle lotte tra guelfi e ghibellini, incapace di
cambiare per davvero, se non a parole. Per esprimere questa sacrosanta verità,
Rocchi usa un’efficacissima metafora.
Ma dentro le tasche degli stessi vestiti
che tutti vestiamo, oggetti diversi ci dicon
la vera realtà che viviamo:
la pistola o la lira, la siringa o la mala,
la tessera o il fumo, la chiave di ferro,
il fumetto di sesso, la Gita, il Vangelo,
la bottiglia di whisky, il pane integrale.
E in un solo momento un esercito grande
diventano gruppi, che guardando più in fondo
si scopron diversi, si scopron lontani,
si scopron nemici.
che tutti vestiamo, oggetti diversi ci dicon
la vera realtà che viviamo:
la pistola o la lira, la siringa o la mala,
la tessera o il fumo, la chiave di ferro,
il fumetto di sesso, la Gita, il Vangelo,
la bottiglia di whisky, il pane integrale.
E in un solo momento un esercito grande
diventano gruppi, che guardando più in fondo
si scopron diversi, si scopron lontani,
si scopron nemici.
Nel
1980, assieme a Paolo Tofani, dà alle stampe Un gusto superiore, che resta
uno degli album più originali del panorama nazionale. I due, che avevano da
poco aderito alla Associazione internazionale per la coscienza di Krishna,
licenziano un disco dalle sonorità prevalentemente elettriche (ed
elettroniche), che affronta il tema dello smarrimento dell’uomo moderno,
circondato di beni materiali eppure incapace di trovare una vera felicità,
obnubilato dal convincimento che la realizzazione personale vada conquistata
col possesso, la carriera e il potere. La chiave della gioia è invece la rinuncia, il possedere poco per appartenere davvero a se stessi.
Adesso che ci penso, se ci penso bene,
non sono più tanto sicuro di questa dimensione.
Io l'ho già vissuta tante altre volte
e tutte le cose che avevo son diventate niente.
Allora mi domando dov'è che sta l'errore:
è chiaro che la vita che faccio è tutta materiale.
Un personaggio inimitabile e positivo, che non voleva distruggere il mondo, ma offriva soluzioni semplici e disarmanti, come il guardarsi dentro per scoprirsi creature uniche e irripetibili.
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