30 dicembre 2022

(Anche) il pop è una cosa seria: le "canzoni da ricordare" degli Scritti Politti

Gli Scritti Politti sono la creatura di Green Gartside, leader indiscusso e deus ex machina del progetto. Oggi quasi dimenticati, con Songs to remember (1982) e Cupid & Psiche 85 (1985) hanno scritto pagine importanti della musica degli anni Ottanta, collocandosi tra i migliori esponenti di un genere a metà strada tra il synth-pop e il cosiddetto art-pop. Musica raffinata dalle sonorità ricercate e tuttavia non troppo ostica per il grande pubblico. Il nome e gli esordi, però, lasciavano presagire altro: Scritti Politti è una voluta storpiatura degli Scritti politici di Gramsci. D'altronde, il loro primo singolo del 1978 si intitolava Shank bloc Bologna ed era un omaggio al Movimento italiano del '77. Il gruppo di Gartside si inseriva dunque nel discorso già portato avanti da band fortemente ideologizzate e schierate a sinistra del partito laburista, come Sham 69, Redskins e ovviamente Clash. Già dal primo 45 giri, tuttavia, si avvertiva una certa eccentricità rispetto alla radicalità e all'intransigenza del movimento punk, come confermato poi con il primo LP che rappresentò una vera e propria inversione di tendenza. Va da sé che se oggi parliamo ancora di questo gruppo, ciò è dovuto proprio alla scelta di virare verso il sophisti-pop; fossero rimasti fedeli alla linea degli esordi, probabilmente sarebbero ricordati appena da qualche archeologo della stagione punk.
Come già accennato, Songs to remember è un disco pubblicato nel 1982. Intorno all'ingombrante personalità di Green Gartside (voce e chitarre) si muovevano diversi musicisti, sebbene fosse proprio il leader l'autore di tutti i brani e dei sofisticati arrangiamenti. Si parte forte con Asylums in Jerusalem, brano dall'incedere sincopato in pieno stile ska/reggae. Il livello si alza subito con la successiva A slow soul, in cui la calda voce di Green è impreziosita e accompagnata dal sassofono di Jamie Talbot. Jacques Derrida, invece, potevano averla scritta i Beatles. È evidente l'influenza del quartetto di Liverpool, sebbene la coda elettronica finale segni un improvviso cambio di ritmo. Il testo ripropone tracce del passato politicizzato della band, filtrate tuttavia dall'ironia.
«I'm in love with a Jacques Derrida / read a page and know what I need to […] / I'm in love with militante / reads Unità and reads Avanti.»
Si cambia ancora con Lions after slumber, un raffinato synth-pop che esalta il grande lavoro del bassista, su cui si appoggiano le tastiere. Meno brillante Sex, caratterizzata da esuberanti coretti femminili in controcanto. I cori si ripetono nella successiva Faithless, per me l'apice del disco: un perfetto equilibrio fra voci, un pezzo soul che va ascoltato in cuffia per coglierne ogni sfumatura. Le influenze beatlesiane tornano in Rock-a-boy blue, che cala i Fab Four in un'atmosfera jazzata con tanto di assolo finale di contrabbasso. Gettin' havin' & holdin' ha un incedere che va dal funk al reggae, oscillando tra echi del passato e raffinatezze elettroniche. Si chiude con la celebre The sweetest girl, perfetta per i passaggi radiofonici. 
Già il titolo del disco è una dichiarazione di intenti, prima ancora che un proclama e una provocazione: Songs to remember, "canzoni da ricordare". Si dice di alcuni album che o li si ama o li si odia. Il primo lavoro di Gartside & soci rientra in questa categoria, destinato a dividere radicalmente pubblico e critica. In realtà, se non ci si lascia scoraggiare dal primo ascolto, si scoprirà un disco vario e ricco di intuizioni felici (se non addirittura geniali), un caleidoscopio di suoni che spaziano dall'art-pop al reggae, dall'elettronica al jazz, con spruzzate di funk e soul. Un lavoro decisamente figlio del suo tempo, tuttavia ancora piacevole per la proficua commistione di generi e ritmi. Tutto era cominciato con un gruppo che voleva imitare i Clash e che è riuscito a registrare un album pop praticamente perfetto. Vi sembra poco?

18 dicembre 2022

"Lord Jim" di Joseph Conrad: non si fugge dalla colpa

Il Patna è una nave "rugginosa come una vecchia tanica" su cui sono imbarcati ottocento pellegrini in viaggio spirituale. Jim, di cui non conosciamo il cognome, ne è il primo ufficiale, sotto l'imperioso comando di un rinnegato tedesco. L'armatore sa che il Patna è poco più di un rottame, ma per sete di denaro accetta di caricarlo all'inverosimile di uomini, donne, anziani e bambini, attratti dai benefici mistici del pellegrinaggio. Nel corso di una notte apparentemente tranquilla, lo scafo del Patna impatta contro qualcosa che galleggia a pelo dell'acqua. Si apre uno squarcio e la nave sembra sul punto di colare a picco, sostenuta miracolosamente a galla da una paratia marcia. Il capitano e gli altri sgherri dell'equipaggio non hanno dubbi in merito al da farsi: anziché pensare alla sorte degli inermi passeggeri, calano in acqua una sola scialuppa per salvare la pelle, lasciando gli ottocento pellegrini a bordo della nave in procinto di affondare. Jim sulle prime esita, conscio dell'estrema gravità del comportamento dei suoi compagni. Infine, spinto da una forza irrazionale e invincibile, salta e si mette in salvo. Contro ogni pronostico, però, il Patna non affonda e viene rimorchiato da un bastimento francese di passaggio. La verità non tarda a emergere e i membri dell'equipaggio vengono sottoposti a processo.
Jim è un uomo che non si perdona il gesto, pure umanissimo, di essere fuggito. Per lui non c'è giustificazione che tenga: né la paura né l'incoscienza valgono a scagionarlo. Si ritira allora a Patusan, nelle foreste della Malesia, in mezzo a nativi tagliati fuori dalla civiltà che non possono sapere di quale colpa si sia macchiato l'uomo bianco che essi rispettano con il nome di tuan Jim, che significa pressappoco lord Jim. Filo conduttore di questo celebre romanzo di Conrad è dunque il tema della colpa da espiare. Il protagonista è il più intransigente giudice dei propri comportamenti: non si assolve, non cerca attenuanti o scriminanti. Se volessimo utilizzare una categoria cara ai criminologi, potremmo dire che Jim non attua meccanismi di neutralizzazione del conflitto, a differenza dei suoi sodali. Il capitano e gli altri membri dell'equipaggio tendono a minimizzare il danno, a negare la stessa umanità della vittima, a delegittimare i giudici e a negare la propria responsabilità. Jim invece non si perdona e anzi si autoinfligge la pena suprema per un marinaio: l'esilio volontario dal consorzio dei suoi simili, l'addio alla marineria e il ritiro sulla terraferma. Ciononostante, egli non sarà mai sereno, perché la colpa lo seguirà fino alla prematura fine. È questo forse l'aspetto più moderno del romanzo di Conrad, a torto considerato un semplice racconto d'avventura. In Lord Jim c'è l'azione, ma il più si svolge nella coscienza turbata del protagonista. Jim è moderno nella misura in cui è un antieroe, un uomo che ha perduto la propria identità e vaga nel mondo senza potersi scrollare di dosso il senso di fallimento e inettitudine.
Conrad utilizzò un curioso espediente narrativo: la vicenda è infatti raccontata da Marlow, amico e confidente di Jim, agli avventori di un'osteria in un porto orientale. Il pubblico di Marlow è muto e immaginario, finendo di fatto con l'identificarsi nello stesso lettore. La scelta di utilizzare un punto di vista terzo rende a tratti faticosa la lettura, in quanto il continuo intersecarsi di piani temporali e narrativi richiede nel lettore un notevole sforzo d'attenzione. Come ho già scritto, è improprio parlare di un romanzo d'avventura. Lord Jim non è un libro leggero, affronta anzi tematiche complesse e controverse con uno stile tutt'altro che immediato.
Concludo con una considerazione personale. Negli anni il volume è stato presentato da diverse case editrici come libro per ragazzi. Potrei capire se si trattasse di una riduzione o di un adattamento, ma le edizioni che ho avuto modo di vedere erano integrali e non differivano in nulla dal testo originale, se non per la presenza di qualche illustrazione. Ritengo che non sia un libro "digeribile" da un bambino o un adolescente, sia per le tematiche trattate che per il ritmo lento e lo stile aulico. Penso che per avvicinare un giovane alla lettura sia necessario offrirgli opere accattivanti e vicine alla sua sensibilità. Non parlo necessariamente di libri leggeri, ma fra tutte le possibili scelte Lord Jim non è la più adatta. Il mio giudizio probabilmente è inquinato dall'esperienza personale: pur avendolo letto in età adulta, ho faticato a concluderlo. Si tratta ovviamente di un grande classico, eppure in una biblioteca ideale inserirei altre opere dello scrittore anglo-polacco.

6 dicembre 2022

Roma da (ri)scoprire n. 7: il "piccolo Pantheon"

Come ho già scritto, a Roma ci sono innumerevoli tesori che si collocano ai margini dei consueti giri turistici. Sono chiese, monumenti, edifici e manufatti dal grande valore intrinseco, che tuttavia patiscono la concorrenza di altre e più blasonate opere d'arte. Oggi vorrei parlare brevemente di una chiesa che spesso sfugge al viaggiatore distratto o frettoloso, nonostante costituisca un unicum nel patrimonio artistico romano.
La chiesa di San Bernardo alle Terme si trova nell'omonima piazzetta, tra via Nazionale e via Venti Settembre, a due passi dal largo di Santa Susanna, dalla celebre Fontana del Mosè e dalla chiesa di Santa Maria della Vittoria. È collocata in posizione defilata e patisce la presenza delle automobili in sosta; piazza di San Bernardo è infatti adibita a parcheggio, circostanza che penalizza il luogo di culto.
I lavori per la costruzione della chiesa iniziarono nel 1598 per volere di Caterina Nobili Sforza di Santa Fiora, che fece adattare allo scopo uno dei quattro torrioni angolari delle Terme di Diocleziano. Secondo un'altra versione, l'edificio era in origine un'aula circolare compresa nel recinto esterno delle terme. Da ciò, com'è ovvio, la denominazione di San Bernardo "alle Terme". Sin dalla sua fondazione è stata amministrata dall'Ordine cistercense, i cui monaci tuttora vivono nel monastero a latere.
All'esterno si presenta col corpo cilindrico sormontato da un tamburo ottagonale decorato con stucchi. La semplice facciata è senza finestrature e segue l'andamento cilindrico, con lesene, nicchie vuote e un affresco che sormonta il portale appena sopra il timpano. La facciata ispira al tempo stesso rigore e armonia.
L'interno, a pianta circolare, è sovrastato da una vertiginosa cupola di oltre venti metri di diametro a cassettoni ottagonali che si rimpiccoliscono verso l'apertura sommitale. Scontato il riferimento a un ben più celebre monumento che è valso alla chiesa il soprannome di "piccolo Pantheon". L'interno è stato rimaneggiato nei secoli XVIII e XIX, ma «conserva integra la sua originale suggestiva spazialità di chiara ascendenza palladiana», come spiega un opuscolo che è possibile acquistare in loco con una modica offerta.
La suggestiva cupola

All'interno si viene colpiti da tre elementi: la cupola, il bianco accecante e le statue. Il colore bianco è ovunque: pareti, capitelli, modanature in stucco, statue e cupola. Le uniche note di colore sono le due pale d'altare di cui parlerò fra poco. In grandi nicchie sono collocate, secondo un ordinamento circolare, otto gigantesche statue in stucco opera di Camillo Mariani (1567-1611), alte circa tre metri. Sono raffigurati Sant'Agostino mentre legge un libro, Santa Monica in abiti da suora, Santa Maria Maddalena, San Francesco che volge lo sguardo sofferente verso un crocifisso, San Bernardo che sorregge in una mano il modellino della chiesa, Santa Caterina d'Alessandria con le ricche vesti e la corona che testimonia la sua origine nobiliare, Santa Caterina da Siena e infine San Girolamo. Quest'ultima è la più celebre delle statue: il Santo è raffigurato intento a scrivere, emaciato e assorto, circondato da rocce che alludono al suo eremitaggio nel deserto.
Come ho precisato, le uniche note di colore sono le pale dei due altari laterali, entrambe attribuite a Giovanni Odazzi (1663-1731) e risalenti agli anni 1705-10. La prima raffigura Cristo che abbraccia San Bernardo, mentre la seconda è lo Sposalizio mistico di San Roberto con la Vergine. San Roberto è uno dei fondatori dell'Ordine cistercense ed è raffigurato in ginocchio mentre riceve un anello dalla Vergine, simbolo di protezione. Le tele sono incorniciate da colonne in marmo verde venato che probabilmente provengono dalle Terme di Diocleziano. Capitelli e angeli della trabeazione sono attribuiti al Mariani.
Le due pale degli altari laterali
L'altare maggiore è di fronte all'ingresso, ricavato in una apertura circolare. Dietro si erge un imponente coro con gli stalli in noce, completato alla fine del XVII secolo. Diversi i monumenti funebri degni di nota, tra cui quelli del religioso Jean de la Barrière e dello scultore Carlo Finelli, opera di Rinaldo Rinaldi.
A destra dell'altare maggiore una porticina conduce a un'aula rettangolare, una piccola e silenziosa cappella dedicata a San Francesco, ideale luogo di raccoglimento. La scultura sull'altare, raffigurante Francesco in estasi, è opera di Jacopo Antonio Fancelli, scultore allievo del Bernini. Il soffitto della cappella è riccamente decorato a stucco con motivi floreali e vegetali.
Sono tanti dunque i motivi per visitare questo gioiello nascosto, di solito aperto per buona parte della giornata e anche di domenica.
La cappella dedicata a San Francesco
Particolare della facciata
La cupola da un'altra prospettiva

23 novembre 2022

Smarrire la fede: "I sovversivi"

Nella ricchissima produzione cinematografica nostrana degli anni Sessanta e Settanta alcune pellicole sono invecchiate benissimo, altre risentono un po' degli anni e infine ci sono quelle che non hanno più niente da dire. Le prime vanno guardate con l'occhio del critico, le seconde si adattano ai nostalgici, le terze possono stimolare al più qualche velleità archeologica. Personalmente ritengo di non appartenere a nessuna di queste categorie: quando guardo un vecchio film, cerco semplicemente qualcosa che possa incoraggiare una riflessione, magari in relazione al presente. E invero sono tanti i lungometraggi, sia pure figli del proprio tempo, che a distanza di oltre quarant'anni sono ancora in grado di dirci qualcosa, se non addirittura di interpretare angosce e sentimenti dell'uomo contemporaneo. Questo è forse il tratto distintivo di molte opere dei fratelli Taviani che dialogano egregiamente con il tempo presente, pur occupandosi di eventi storici lontani. Tre esempi su tutti: San Michele aveva un galloAllonsafàn e I sovversivi.
Proprio di quest'ultimo vorrei parlare, facendo una premessa: per uno strano paradosso è forse il film che appare più "datato". Ho parlato di un paradosso perché, dei tre, è ambientato in un anno a noi più vicino, il 1964. Ciononostante, i protagonisti degli altri due film, Giulio Manieri e Fulvio Imbriani, pur essendo uomini dell'Ottocento, mi sono sembrati più vicini alla sensibilità contemporanea per un tormento indefinito che non sa trasformarsi in azione e forza propulsiva. San Michele aveva un gallo, Allonsafàn e I sovversivi sono, sia pure a livelli e intensità diverse, opere magistrali sul disinganno e il disimpegno, sulla fine degli ideali e l'amara scelta di mettere i sogni in disparte. I sovversivi è stato il primo lavoro in cui i fratelli Taviani hanno affrontato queste complesse tematiche; uscito nel 1967, è stato il loro esordio in tandem alla regia, dopo aver collaborato assieme a Valentino Orsini.
Fine agosto 1964, in una Roma torrida e confusa si celebrano i funerali del segretario del PCI Palmiro Togliatti, morto pochi giorni prima a Jalta, in Crimea. La camera ardente e le esequie sono un momento di partecipazione e lutto collettivo che coinvolge giovani e vecchi militanti, donne e uomini provenienti da ogni parte del mondo. Tra questi, ci sono i personaggi del lungometraggio. Ne I sovversivi non c'è un solo protagonista, perché il film si compone di più storie tra loro slegate che tuttavia si riuniscono nella scena finale dell'incedere del feretro tra due ali di folla. Sebastiano è un piccolo funzionario di partito, devoto alla causa, dotato di una fede politica incrollabile, da lui vissuta come e più di una religione: pur essendo un comunista, ha atteggiamenti e pensieri piccolo-borghesi. Durante il viaggio a Roma scopre che la moglie Giulia ha tendenze omosessuali e in pochi giorni il suo castello di certezze granitiche va in fumo. Lo stesso contrasto tra conservazione e rivoluzione contrappone Muzio a Ermanno. Il primo è un fotografo incaricato di fare un reportage sui funerali di Togliatti; anche lui, come Sebastiano, vive la fede politica e la professione senza dubbi, nel pieno conformismo di tecniche e idee. Ermanno, l'amico e collaboratore interpretato da Lucio Dalla, è invece critico verso il partito e, più in generale, verso tutto ciò che è considerato socialmente accettato o auspicabile. È sposato con una donna più grande contro la volontà dei genitori e inoltre ha idee innovative e antiaccademiche anche sull'arte e la fotografia. Poi c'è Ettore, interpretato da Giulio Brogi, un oppositore politico venezuelano nascostosi a Roma per sfuggire alla polizia del suo Paese. Dopo due anni lontano da casa ha quasi dimenticato le ragioni che l'hanno portato a essere un latitante, la sua fede è smarrita o comunque affievolita. Con l'arrivo dei compagni venezuelani a Roma, si troverà a dover scegliere tra la fedeltà a ideali che gli appaiono superati e l'amore puro e incondizionato di Giovanna. Infine c'è Ludovico (un bravissimo Ferruccio De Ceresa), regista impegnato a ultimare un film su Leonardo da Vinci. Ludovico vorrebbe dirigere un lavoro all'avanguardia, ma le sue precarie condizioni di salute e gli inestricabili dubbi esistenziali lo bloccano in una gabbia.
Per tutti i personaggi del film il viaggio a Roma non è soltanto un atto di omaggio o cordoglio: ognuno ha un motivo diverso per andare ai funerali di Togliatti, ciascuno ha una crisi d'identità da dipanare, un dramma personale da affrontare. Devono fare i conti con se stessi, perché la morte del segretario segna lo smarrimento dei loro ideali. Nel film Togliatti non è un politico, né il segretario del PCI e neppure semplicemente un uomo: egli è il monolite delle certezze, rappresenta il pilastro degli ideali immutabili a cui i protagonisti del film cercano disperatamente di aggrapparsi. Le lacrime che versano davanti alla bara non sono un omaggio d'addio al leader, piuttosto la manifestazione tangibile, si potrebbe dire corporale, di uno smarrimento che è al tempo stesso collettivo e individuale.
Una locandina del film

11 novembre 2022

"Villa di delizia" di Carlo Castellaneta: un dramma borghese

Castellaneta pubblicò Villa di delizia nel 1965, a trentacinque anni, quando aveva già alle spalle due significativi romanzi di formazione, Viaggio col padre e Una lunga rabbia. Mentre questi ultimi guardavano al presente, all'Italia del dopoguerra tra lotta politica e boom economico, Villa di delizia era invece un romanzo storico in controtendenza. Si tratta di un racconto ambientato al tramonto dell'età umbertina, fino ai tragici moti del maggio 1898. Di lì a due anni, come noto, la mano vendicatrice di Gaetano Bresci chiuderà definitivamente una stagione di chiaroscuri.
Il libro si snoda su due piani, il collettivo e l'individuale, la vicenda pubblica e quella privata. Gli scontri di piazza e le rivolte popolari non sono il fulcro della narrazione, piuttosto costituiscono la cornice storica entro cui Castellaneta fa muovere i suoi personaggi. Soltanto le ultime pagine sono dedicate ai moti che condurranno alla strage ordita dal generale Bava Beccaris. Lo scrittore meneghino conferma dunque la sua predilezione verso il mondo anarchico, socialista e operaio, sublimata qualche anno dopo ne La paloma. Se pure emerge la sua vocazione a raccontare gioie e dolori dei ceti popolari, Villa di delizia è prima di tutto il romanzo dell'alta borghesia milanese della fine del secolo decimonono. Il titolo è una vera e propria dichiarazione d'intenti: erano infatti chiamate "ville di delizia" le residenze estive di campagna dell'aristocrazia e della rampante borghesia industriale e finanziaria milanese. La vicenda scandalosa raccontata da Castellaneta si dipana proprio tra il grande appartamento nel centro cittadino e la lussuosa magione di Canonica Lambro, nella verde Brianza.
«Da mesi, la sera, ci corichiamo in tre.»
Luigi e Fernanda Solbiati sono una coppia perfetta e senza macchie, almeno all'apparenza. Ricchissimi, ancora giovani, ben inseriti nella società e con amicizie influenti, sono rispettati e invidiati. In realtà, dietro la facciata delle convenzioni borghesi, si nasconde una torbida verità. Fernanda è vittima delle perversioni erotiche e dei tradimenti del marito. Sebbene anche lei abbia un amante, è Luigi a tenere saldamente in mano i fili del gioco, piegando la moglie a ostinati capricci e incontenibili voglie. Il culmine dell'abiezione è raggiunto quando Luigi si invaghisce di Celestina, una popòla appena sedicenne, figlia di un portinaio e sorella di un fervente socialista. La ragazza viene coinvolta in un peccaminoso rapporto a tre che fa precipitare i protagonisti in un abisso di depravazione e perversione. La condotta di Luigi non è dettata semplicemente da lussuria e concupiscenza, ma cela un progetto ben preciso, tanto abietto proprio perché tenacemente perseguito. Umiliando Celestina, vuole punire la moglie e imporre il suo potere sulle classi inferiori, affermarsi come uomo e come padrone in spregio alla morale corrente e al di sopra delle leggi umane e naturali. Eppure anche la sua ribellione, come tutte le cose umane, sarà destinata ad annegare nel gorgo del tempo, questo sì spietatamente egualitario più di qualsiasi rivoluzione.
«Assisteremo dai nostri posti numerati ad altre regate e rivoluzioni, a concorsi ippici e tumulti plebei, per altre estati spierò dal terrazzo il suo schiocco di frusta alla curva del Lambro, avremo tutto meno la cosa che insieme abbiamo distrutto, avremo mille false ragioni di vivere, e di nuovo andando saremo immobili, senz'altro sollievo di saperci salvi, nel gran vuoto che ci circonda, per arrivare illesi alla morte.»
In merito allo stile, ci sarebbe da fare un discorso lungo e articolato, per il quale non ho le necessarie competenze. Semplificando all'osso, in Villa di delizia si alternano due diversi registri linguistici, quello raffinato della ricca borghesia e quello popolare delle classi meno abbienti, spesso infarcito di errori o espressioni grossolane. Castellaneta fa ampio uso del dialetto, a cui attribuisce una funzione di livellamento sociale, in quanto è parlato da tutti i suoi personaggi. Se l'uso del dialetto è naturalmente il modo esclusivo di esprimersi delle classi popolari, padroni e aristocratici non lo disdegnano, magari per dare maggiore veemenza ai concetti che intendono esprimere. Non si contano le volte in cui si ripetono parole come ligera, tosa, popòla, cadrega, oppure verbi come barbellare e simili.
Villa di delizia è dunque il romanzo meneghino per eccellenza. D'altronde, Milano è assoluta protagonista in tutti o quasi i libri di Castellaneta, dai già citati volumi d'esordio a opere più mature come La paloma e Notti e nebbie. Al contempo, si tratta di un libro che ha i toni impietosi del j'accuse contro l'alta borghesia milanese di fin de siècle, destinata a costituire l'ossatura della classe dirigente del Paese dal fascismo fin quasi ai giorni nostri. Una borghesia arrivista, cinica, vuota, malata di ostentazione e onnipotenza, che coltiva i propri sogni di prevaricazione nel chiuso di un appartamento o nel dorato sepolcro di una villa di campagna.
Edizione B.U.R. 1975

30 ottobre 2022

Jinx, il killer del tempo

Le Grandi Storie Bonelli è una nuova collana trimestrale da edicola che si propone di ripubblicare in unico volume alcuni classici moderni della casa editrice, esauriti o addirittura introvabili. I volumi, di oltre trecento pagine, sono arricchiti da esaustivi redazionali. Il prezzo è di quasi dieci euro cadauno, giustificato a mio avviso dalla consistente foliazione. I primi due albi sono dedicati a Zagor, il terzo a Tex, il quarto a Mister No. Il protagonista del numero attualmente in edicola è Martin Mystère, alle prese con uno dei suoi più temibili nemici: Mister Jinx. Il volume, intitolato per l'appunto Mister Jinx, ristampa due celebri storie. La prima è Tempo Zero, originariamente pubblicata nel 1986 sui numeri 47 e 48 della serie regolare, con soggetto e sceneggiatura di Castelli e disegni di Freghieri. Medesimi gli autori della seconda storia, Operazione Dorian Gray, apparsa in origine sugli albi 63 e 64 del 1987.
Jinx è il cattivo per eccellenza: mefistofelico, geniale, cinico, spietato, dotato di un'astuzia non comune. Ha l'aspetto e le movenze del gentiluomo e assomiglia vagamente all'attore Burgess Meredith. Il suo gesto tipico consiste nell'accendere il sigaro con lo schiocco delle dita, trucco ereditato dal suo vecchio mestiere di illusionista, o forse indice di una natura diabolica. È il grande antagonista di Martin Mystère, come Mefisto per Tex o Hellingen per Zagor. A differenza dei "cattivi" tradizionali del fumetto e del cinema, Jinx appare come un imprenditore che offre un servizio a facoltosi clienti. L'originalità del personaggio sta nel presentarsi come una sorta di benefattore al servizio dell'umanità. I suoi clienti soffrono l'ossessione del tempo, vuoi perché hanno grandi responsabilità e pochissimo tempo libero, oppure perché sono vicini alla fine e vorrebbero riconquistare la gioventù perduta. Jinx ha una soluzione miracolosa a questi problemi all'apparenza insormontabili. In Tempo Zero lo vediamo alla guida di una società che propone ai suoi facoltosi clienti un'occasione allettante: grazie a uno speciale liquido iniettabile che accelera il metabolismo, potranno vivere ventiquattro ore come se fossero un mese intero. Quale soluzione migliore per il manager fuso dal lavoro, oppure per chi ha un progetto da terminare in tempi brevissimi? A Tempo Zero, una specie di resort di lusso, potranno trascorrere un mese intero mentre il mondo "di fuori" avanzerà di sole ventiquattro ore. Unica piccola controindicazione: un'overdose di siero determina la morte per autocombustione. In Operazione Dorian Gray, invece, Jinx mette in atto un progetto degno della mente di Wilde, dando ai suoi anziani clienti la possibilità di appropriarsi di un corpo giovane e forte, pur mantenendo i ricordi e l'esperienza di un ottuagenario. Anche in questo caso c'è un solo piccolo problema: Jinx non ha scrupoli a far sparire clochard, alcolizzati o individui ai margini, al fine di dare un nuovo corpo ai propri clienti. Sarà Martin Mystère a tentare di intralciare i piani del perfido personaggio.
La ristampa viene proposta in un momento importante della storia editoriale della testata, che da poco ha festeggiato i quarant'anni ed è prossima a tagliare il traguardo del numero 400. Se dunque è un'occasione per invogliare chi ancora non conosce il Detective dell'impossibile, al tempo stesso è un'uscita che spinge i lettori storici a qualche riflessione di tipo comparativo. Tempo Zero e Operazione Dorian Gray, come d'altronde tutte o quasi le storie degli anni Ottanta, possiedono una forza espressiva dirompente che col tempo e il progredire della serialità è andata affievolendosi. Niente di anomalo o biasimevole, lo tengo a precisare: è praticamente impossibile mantenere lo stesso livello dopo quarant'anni nelle edicole. Voglio piuttosto dire che i due episodi dello speciale su Mister Jinx sono veramente grandiosi (in qualche misura, insuperabili) per scrittura, resa delle immagini e tensione emotiva. Confermano a pieno quanto la serie ideata da Castelli sia una pietra miliare del fumetto italiano, l'anello di congiunzione tra i personaggi classici e le inquietudini contemporanee, che troveranno in Dylan Dog il massimo rappresentante. Una sottile trepidazione accompagna il lettore dalla prima all'ultima vignetta, perché Jinx non è un cattivo stereotipato, ma una figura complessa che ci turba perché sfrutta a proprio vantaggio alcuni dei nostri desideri più reconditi. D'altronde, chi non ha desiderato almeno una volta di ringiovanire, oppure di trascorrere giornate più lunghe delle canoniche ventiquattro ore? Jinx trasmette angoscia proprio per la sua imprevedibilità e l'impossibilità di ricondurlo entro i confini del classico antagonista: non è uno scienziato pazzo e non vuole diventare il padrone del mondo, sebbene sia indubbiamente geniale e desideri acquisire una posizione di primato sui propri simili.
Consiglio vivamente l'acquisto del volume, arricchito peraltro da corposi redazionali che ricostruiscono la storia editoriale del personaggio.

17 ottobre 2022

Crepuscolari, poeti della negazione

Nei libri di scuola e nelle antologie si parla di Crepuscolarismo ingenerando l'idea che si trattò di un movimento. In verità, i poeti che noi chiamiamo crepuscolari non fondarono un'accademia, né elaborarono manifesti o programmi. Li univa una sensibilità comune che tuttavia non si concretizzò mai in una scuola o in un progetto strutturato. Vissuti nel periodo storico a cavallo tra Scapigliatura e Futurismo, non sono riconducibili a queste due correnti. A differenza degli scapigliati, non si sentivano parte di un'avanguardia; a differenza dei futuristi, non volevano rovesciare l'estetica e lo status quo tramite roboanti manifesti e dichiarazioni di intenti. Rifuggivano l'eroismo e i facili entusiasmi, non volevano costruire l'uomo nuovo né fare da apripista a rivoluzioni politiche o culturali, non volevano bruciare le accademie né inventare un nuovo linguaggio, a loro non interessava arringare le folle o essere un modello. «Io sento che fo da comparsa e che non ho niente da dire», scriveva in proposito Carlo Vallini. I crepuscolari sono dunque gli antieroi per eccellenza, poeti della negazione che tuttavia hanno conquistato un posto di rilievo nella nostra letteratura. Nino Oxilia così ricordò i suoi amici Gozzano e Corazzini: «la vostra sorte / fu quella dell'onda che sciacqua / lieve lieve sulla sabbia, / non quella dell'ondata che si squassa / sugli scogli con impeti di rabbia; / foste la nuvola che passa, / il vostro nome fu scritto sull'acqua». Tutto vero, salvo per l'ultimo verso.
«Poesia è sentirsi morire», scriveva Fausto Maria Martini nel suo romanzo autobiografico Si sbarca a New York. «Io non sono un poeta», annunciava mestamente Corazzini in Desolazione del povero poeta sentimentale. Il crepuscolo come momento più triste della giornata, metafora della fine della giovinezza e dell'ingresso nell'età adulta, tono soffuso che riveste le cose di una polvere malinconica e richiama alla mente immagini di finitezza e di morte. La poesia crepuscolare è una poesia del quotidiano, che tuttavia non cerca negli oggetti chissà quale significato nascosto o esoterico. Le cose sono come le vediamo, richiamano la vita di chi le ha possedute e sopravvivono alla sua scomparsa. Non a caso le liriche parlano di ville abbandonate, vuoti salotti piccolo-borghesi, sanatori per tisici, conventi, convitti, cimiteri, lunghi viali solitari. L'organo di Barberia sostituisce gli squilli di tromba e le pagine grondano di umori malinconici e desolati. Le loro liriche sono popolate di sartine, suorine, bellezze appannate dall'incipiente vecchiaia, giovani melanconici e feriti dalla vita, collegiali, maestrine e convittori. Per capire cos'è stato il Crepuscolarismo, basterebbe leggere lo scarno epitaffio sulla modesta tomba di Corazzini nel cimitero del Verano a Roma: «per chi ricorda, Sergio Corazzini, poeta, a vent'anni». Parole semplici, quasi remissive, rivolte non a un vasto pubblico, ma alla sparuta schiera di "chi ricorda" questo poeta bambino tra i più prodigiosi della nostra letteratura.
Una raccolta esauriente per chi volesse avvicinarsi a questa corrente è quella a cura di Francesco Grisi edita da Newton Compton nella collana Grandi Tascabili Economici. Sebbene sia di difficile reperibilità in quanto edita nel 1995, è un'antologia completa perché ospita sia la "sacra triade" Gozzano-Corazzini-Moretti che una miriade di autori meno noti come Yosto Randaccio, Remo Mannoni, Enzo Marcellusi, Nino Oxilia e altri. Da questa raccolta ho scelto tre liriche che trattano il tema dell'abbandono, uno tra i più cari a questi "poeti della negazione".

Sergio Corazzini (1886-1907) – La villa antica
Dopo tant'anni, ieri. Il viale breve
dietro il vecchio cancello si distende
come un tempo; però sotto la neve
non vi sono più fiori, e più non pende
alcun frutto dai rami; stanca e lieve
ne la triste fontana l'acqua scende...
Nel portico, due legiadrette Eve
un Don Giovanni sotto braccio prende.

Sorridentesi sempre! O, se la pioggia
vi renda gialle o brutte o, se di notte
vi allieti il bacio buono delle stelle
di fra l'edera verde de la loggia,
o statuette moribonde e rotte,
o, della villa dolci sentinelle!


Corrado Govoni (1884-1965) – Villa chiusa
So d'una villa chiusa e abbandonata
da tempo immemorabile, secreta
e chiusa come il cuore d'un poeta
che viva in solitudine forzata.

La circonda una siepe aggrovigliata
di bosso, ed una magica pineta
la cui ombra non più rende inquieta
la garrula fontana disseccata.

Tanta è la pace in questa intisichita
villa, che pare quasi che ogni cosa
sia veduta a traverso d'una lente.

Solo una ventarola arrugginita,
in alto, su la torre silenziosa,
che gira, gira, interminatamente.


Yosto Randaccio (1880-1938) – Chiesa abbandonata
Chiesa bianca solitaria,
sopita nel sogno de l'aria.
E le buone preghiere?
E le anime salmodianti,
e gli organi tuonanti
nel mistero de le sere?

Sento che spira un triste vento
d'esulamento.
Per dove? Il mio cuore non lo sa,
anima de l'eternità.
La nostra tristezza chi la porta?
Quale gigante s'affatica
ne la lotta infinita
che non terminerà?

Tu pure sei morta!
Non lo senti stasera
nel vuoto di questa navata
desolata,
non lo senti questo vento
d'esulamento,
queste grida di suicida?
Antologia Newton Compton del 1995 a cura di F. Grisi

4 ottobre 2022

"Un anno terribile" di John Fante: il sogno del déraciné

Da adolescente lessi Chiedi alla polvere, nell'edizione uscita in abbinamento al quotidiano La Repubblica. Poi nella biblioteca della scuola scovai un altro libro di Fante, La strada per Los Angeles. Da allora, sto parlando degli anni 2002-2004, non mi ero più imbattuto nello scrittore italo-americano. Difatti, nonostante le buone impressioni, non è un autore che ho avuto modo di approfondire. In questi giorni mi è invece capitato tra le mani un suo romanzo breve, tra i meno noti, pubblicato postumo nel 1985 per intercessione della moglie. Un anno terribile è un libricino che rivela il talento cristallino di un grande scrittore, addirittura meglio delle sue opere più celebri. Non è dunque un caso se Fante ci lavorò per molti anni a intervalli irregolari, morendo senza averne ultimato la stesura definitiva.
Un anno terribile è la storia di un ragazzo che sogna di diventare un giocatore di baseball professionista. Dominic Molise, questo il suo nome, è figlio di due immigrati italiani e vive in una gelida cittadina del Colorado. Il padre è un muratore disoccupato abruzzese, la madre è di origini lucane. Facile rinvenire profili autobiografici, dato che la madre di Fante era della Basilicata, mentre papà Nicola veniva da Torricella Peligna in provincia di Chieti. La famiglia Molise è povera ma dignitosa e Dominic sogna di avere successo nel baseball per migliorare le condizioni di tutti. É esile, basso e con le orecchie a sventola, ma crede di essere un lanciatore provetto perché ha dalla sua parte il potente braccio sinistro, da lui personificato e chiamato con magniloquenza il Braccio. Esilaranti le pagine in cui Dominic parla con il Braccio, lo coccola, lo consola se è preoccupato, lo riscalda se ha freddo e lo protegge con un formidabile unguento, il balsamo Sloan dalla fragranza di pino.
In questo romanzo il baseball non è semplicemente uno sport popolare, ma è simbolo e incarnazione del "sogno americano". Fante si fa portavoce dei ragazzi cresciuti a cavallo tra gli anni Venti e Quaranta del Novecento, per i quali il baseball era uno strumento, anzi l'unico strumento, di affermazione e scalata sociale. Tema centrale del romanzo è l'analisi del conflitto tra Dominic e i suoi genitori, ossia tra gli immigrati di prima generazione e i loro figli nati in America. Mentre i padri confidavano nel lavoro come strumento di riscatto e rivincita anche contro il razzismo, i figli non credevano che il cambiamento potesse venire dalla fatica e dal sudore della fronte. Il lavoro non era considerato da loro un ascensore sociale: l'unica strada da seguire per uscire da una vita di stenti ed emarginazione era il baseball. Non a caso i miti di Dominic sono come lui, hanno nomi americani e cognomi italiani: Joe Di Maggio, Tony Lazzeri, Joe Cicero. Ragazzi poveri, figli del nulla divenuti celebrità.
Nonostante sia un romanzo breve, Un anno terribile offre una straordinaria carrellata di indimenticabili personaggi. Il talento di Fante sta proprio nella capacità di tratteggiare un carattere con poche rapide e incisive pennellate. Questa naturalezza nel saper delineare a tuttotondo un personaggio in poche pagine e battute è, a mio avviso, la chiave del suo successo di critica e di pubblico.
Molteplici gli spunti di riflessione e le chiavi di lettura. In primo luogo, Un anno terribile offre un vivace spaccato della vita degli immigrati italiani negli Stati Uniti nella prima metà del ventesimo secolo. Immigrati che, per dirlo con le parole dello stesso Fante, si commuovevano fino alle lacrime sulle note di Torna a Surriento, ma allo stesso tempo guardavano con ammirazione al modello americano. Fante non nasconde nulla della loro misera vita, eppure non lo fa con toni lacrimevoli; anzi, l'ironia è il punto forte della sua scrittura. Il vero dramma non è materiale, ma identitario, inerente al senso di appartenenza. Dominic Molise è l'emblema di questo tormento: egli è un déraciné, uno sradicato senza un'identità forte. Non si sente pienamente italiano perché non è mai stato in Abruzzo, terra che conosce solo per i racconti nostalgici dei suoi familiari. Al tempo stesso, non è pienamente americano perché porta impressa sulla pelle e nel nome una diversa origine. Cosa fare allora? L'unico strumento per emanciparsi e diventare parte del sogno americano è il baseball, che da sport si fa promessa di eguaglianza e livellamento sociale. Tuttavia, il richiamo delle radici avrà infine la meglio persino sulla ferma volontà di Dominic.

22 settembre 2022

Que viva, que viva, el bandido Litfiba!

Finora sul blog avevo parlato dei Litfiba in un'unica occasione. La ragione è presto detta: sulla band fiorentina è stato detto tutto, si sono espresse così tante voci che non potrei aggiungere nulla di nuovo o di utile al dibattito. Poi è maturata un'idea legata a un personalissimo anniversario: sono passati esattamente venticinque anni dal giorno in cui acquistai il mio primo disco. Nel settembre del 1997 comprai la musicassetta di Mondi sommersi, dopo aver visto a ripetizione il videoclip di Goccia a goccia su Videomusic e MTV. Ho consumato quel nastro con un vecchio walkman Philips e un altrettanto obsoleto mangianastri Panasonic, finché un giorno fatale si è spezzato con mia somma disperazione. Ventisettemila lire mi sembravano un'enormità e rinunciai a ricomprarlo, anche perché nel frattempo stavo recuperando i precedenti album dei Litfiba, avvicinandomi contemporaneamente ad altri gruppi che in quegli anni portavano alta la bandiera del rock italiano, come Marlene Kuntz, C.S.I. e Bluvertigo.
In occasione di questo anniversario, e in previsione dell'annunciato definitivo scioglimento della band, ho deciso di fare una personale classifica dei loro album in studio. Sono esclusi da questo elenco i live (come lo splendido 12.5.87: aprite i vostri occhi), le colonne sonore (Eneide), le raccolte, gli EP e i tre dischi senza Piero Pelù (con Cabo alla voce). Ovviamente è una classifica personale, un gioco che non ha nessuna pretesa di verità o esaustività. Mi piacerebbe però conoscere il vostro parere nei commenti.

10. Grande nazione (2012). È stato il disco del ritorno dopo il primo scioglimento del 1999 e la parentesi con Cabo alla voce. Inevitabilmente era circondato da grandi attese, ma è sempre sbagliato aspettarsi miracoli da artisti che hanno già dato tantissimo alla musica. Nessuna divagazione pop, solo buon rock fatto con tanto mestiere: le migliori tracce sono Elettrica e Tra te e me. A mio modesto avviso non è invece all'altezza Squalo, pezzo lanciato come singolo radiofonico.

9. Eutòpia (2016). Probabilmente resterà l'ultimo album in studio a marchio Litfiba. Grafica di copertina e libretto interno in stile cyberpunk, dieci pezzi piacevoli tra cui spiccano Oltre, Maria coraggio e Straniero. L'impossibile è invece un singolo trascinante che ricorda i vecchi tempi. Secondo me potrebbe essere considerato il seguito ideale del discorso interrotto con Mondi sommersi.

8. Mondi sommersi (1997). Il disco che ha fatto nascere la mia passione, tuttavia non uno dei miei preferiti. Si caratterizza per un tocco elettronico che mancava nei lavori precedenti; ne risulta un muro di suono pieno, corposo, eppure meno duro rispetto al passato. Ci sono dentro canzoni che hanno ottenuto ottimo riscontro radiofonico, ma sono Dottor M., Si può e soprattutto Sparami a valere da sole il prezzo del biglietto.

7. Infinito (1999). Sono molto legato a questo album, perché è il primo di cui attesi con ansia l'uscita, precipitandomi al negozio di dischi già il primo giorno di vendita. Ascoltarlo fu uno shock: era un disco di pop-rock, così diverso dai precedenti. Alcuni fan di vecchia data gridarono al tradimento, soprattutto per il successo radiofonico de Il mio corpo che cambia. Si disse che i Litfiba erano diventati "commerciali", accusa che negli anni Novanta poteva costarti una buona fetta di pubblico cosiddetto "alternativo". Anche le recensioni dei critici di professione non furono lusinghiere. Lo ascoltai qualche volta e poi lo chiusi in un cassetto. A distanza di oltre vent'anni l'ho rivalutato e oggi lo ascolto spesso. Infinito va letto come una parentesi nella storia della band, quasi una sperimentazione. Anzi, a dirla tutta, è un ottimo disco di pop-rock. Prendi in mano i tuoi anni, I nuovi rampanti, Vivere il mio tempo e Incantesimo sono gioielli che si fanno apprezzare alla distanza.

6. El diablo (1990). Album di transizione, l'inizio della cosiddetta Tetralogia degli elementi, il primo dopo la dissoluzione della formazione originaria a causa della fuoriuscita di Maroccolo e della morte di Ringo De Palma. È il disco che inaugura gli anni Novanta e infatti non c'è più traccia del sound del decennio precedente; anche il modo di cantare di Pelù diventa più personale e perde quell'aura new wave della Trilogia del potere. Dentro ci sono veri e propri inni come Proibito, Gioconda e Woda woda. Tuttavia si avverte una malinconia di fondo in brani come Il volo e Ragazzo.

5. Litfiba 3 (1988). Nella sua autobiografia intitolata Perfetto difettoso, Piero Pelù non parla bene del suono di questo disco, registrato in digitale a sedici bit quando questa tecnica era ancora agli albori. Lo possiedo sia in cd che in LP e devo dire che il vinile suona decisamente meglio, nonostante la registrazione in digitale. Litfiba 3 segna un primo, parziale cambio di passo, che si accentuerà nel live Pirata del 1989. Il gruppo abbandona le atmosfere dei primi due lavori per abbracciare un discorso politico e di impegno civile. Straordinarie Santiago, Louisiana e Tex, quest'ultima col basso di Maroccolo in evidenza. Il vero capolavoro è secondo me Paname, un carnevale in musica in cui è evidente la commistione tra lingue e generi diversi, marchio di fabbrica dei primi Litfiba.

4. Terremoto (1993). Il disco più duro, politico e arrabbiato. Ci sono feroci strali contro i poteri forti, attacchi diretti alla mafia, al Vaticano, allo Stato italiano, all'ipocrisia della società, al consumismo, alla guerra. Senza dubbio, è l'album che ha contribuito a definire l'immagine dei Litfiba come vere e proprie rockstar, cosa che fino a quel momento in Italia era mancata. Per la prima volta si sentono di meno le tastiere di Aiazzi, mentre le chitarre di Ghigo Renzulli e Poggipollini diventano le assolute protagoniste. Disco comunque variegato: c'è spazio sia per l'impegno civile (Prima guardia, Dimmi il nome) che per l'ironia pungente (Firenze sogna, Il mistero di Giulia, Soldi).

3. Desaparecido (1985). Uscito un anno dopo Siberia dei Diaframma, è stato il primo vero banco di prova alla lunga distanza. Esame decisamente superato, perché ad ascoltarlo attentamente sembra opera di un gruppo con molta più esperienza. D'altronde, erano già cinque anni che giravano l'Italia e mezza Europa in tour, per cui l'affiatamento era perfetto. È l'inizio di un grande percorso nonché l'apripista della Trilogia del potere, considerata la loro fase più creativa. Eroi nel vento, Tziganata, Istanbul e La preda sono brani immortali, che vanno oltre il concetto di new wave a cui il gruppo è stato associato in questa prima fase. In realtà i Litfiba portavano avanti un discorso personalissimo, che prendeva spunto dalle mode provenienti da terra d'Albione, rielaborate però secondo una sensibilità tutta mediterranea.

2. Spirito (1994). Metterlo sul podio è davvero una scelta personalissima, che immagino non sarà condivisa da molti lettori. Eppure, secondo il mio modesto parere, Spirito è un disco piacevolissimo dall'inizio alla fine, armonioso, fantasioso, ricco di spunti interessanti. Per quanto possa sembrare un'affermazione eretica, è un album che mette di buonumore. Dopo l'impegno civile di Litfiba 3 e gli attacchi a testa bassa di Terremoto, Pelù & soci decisero di invertire la rotta: Spirito parla di amore, conflitti interiori, viaggi immaginari, "diavoli illusi di possedere il male". Animale di zona, Lo spettacolo e No frontiere i pezzi migliori.

1. 17 re (1986). Vincitore per distacco. Album doppio, sedici tracce, una più bella dell'altra. Il vertice della nostra new wave assieme a Siberia dei Diaframma. Uno dei più grandi dischi di rock cantato in italiano, se non addirittura il migliore. Imprescindibile, obbligatorio possederlo. La band in stato di grazia: la teatralità del canto di Piero, il basso pigliatutto di Maroccolo, gli inconfondibili fraseggi esotici delle tastiere di Aiazzi, la precisa sezione ritmica di Ringo e la chitarra dalle tinte wave di Ghigo. Impossibile dire quali siano i pezzi migliori, bisognerebbe citarli tutti. L'incipit di Resta è una bomba, la conclusione di Ferito è un colpo al cuore. E ancora, Re del silenzio, Pierrot e la luna, Vendette, Gira nel mio cerchio, Apapaia, Univers. Con questo lavoro i Litfiba hanno elaborato una personalissima miscela di new wave d'Oltremanica, ritmi mediterranei e balcanici, post-punk e cantautorato all'italiana. Irripetibile.
Il mio podio: 17 re, Spirito e Desaparecido

9 settembre 2022

"Conservatorio di Santa Teresa" di Romano Bilenchi: i turbamenti del giovane Sergio

In un'autorevole recensione di Chiamalo sonno di Henry Roth che ho letto tempo fa, l'articolista sosteneva che nella nostra letteratura non se ne rinverrebbe un equivalente, ossia un romanzo narrato così puntualmente attraverso gli occhi di un bambino. In verità tale romanzo esiste, è stato pubblicato nel 1940 ed è considerato il capolavoro di Romano Bilenchi, scrittore e giornalista senese nato nel 1909 e morto nel 1989. Conservatorio di Santa Teresa non è semplicemente un libro sull'infanzia: è prima di tutto una grande prova narrativa. Bilenchi si è calato con delicatezza e maestria nella mente del suo protagonista bambino, sviscerandone pensieri, punti di vista ed emozioni.
La vicenda è ambientata in un territorio caro a Bilenchi e che egli conosceva bene: la zona brulla e collinare delle Crete senesi. In questo fazzoletto di terra, in un'antica magione detta semplicemente "la villa", il piccolo Sergio vive assieme ai genitori, alla nonna e all'amata zia Vera. La nonna Giovanna è una donna saldamente ottocentesca che cerca vanamente di imporre la sua autorità sul figlio Bruno, padre di Sergio. Bruno è un impulsivo, un socialista convinto di appartenere a un'umanità eletta che muterà le sorti del mondo. E invece anche lui è costretto a scendere nelle trincee del primo conflitto mondiale, da cui uscirà irrimediabilmente cambiato. La nonna e il padre sono per Sergio i due poli di un conflitto ideologico che egli subisce senza comprenderne fino in fondo le ragioni. I due fari luminosi della sua esistenza sono invece la madre Marta e la zia Vera, dispensatrici di un amore totalizzante, a tratti soffocante. Sono proprio loro a iscrivere Sergio al Conservatorio di Santa Teresa, convitto e scuola privata tra i più rinomati della provincia.
L'ingresso nella scuola è l'evento che segna il passaggio di Sergio dall'inconsapevole infanzia all'età delle prime delusioni e responsabilità. Il Conservatorio di Santa Teresa è la capitale di un microcosmo che riflette virtù, piccolezze ed egoismi della società di fuori. Sergio è inizialmente affascinato da questo luogo, da lui identificato come un simbolo di rigore e purezza; quando però comprende che persino la scuola è uno specchio del mondo, inizia un'operazione mentale di distruzione e distacco. Il lettore segue passo dopo passo la crescita di Sergio e la sua acquisizione di consapevolezza, come nei più classici romanzi di formazione.
Sergio si impone come una delle figure infantili meglio tratteggiate della nostra letteratura. È un bimbo buono, immaginoso, ansioso, dotato di una sensibilità spiccata che si accende in slanci romantici. È naturalmente portato all'introspezione, a chiudersi in sé per osservare con occhio critico la realtà e mutarla nella fantasia secondo i propri intendimenti. Sergio presta grande attenzione ai particolari del mondo intorno e sa perdersi nella beatitudine della natura che circonda la villa. Bilenchi non nasconde tuttavia i difetti del suo protagonista, spinto a volte da una fanciullesca ostinazione che lo porta a eccedere nel suo intransigente rigore morale. In ciò assomiglia ad Agostino, il protagonista dell'omonimo romanzo di Moravia, egualmente ossessionato dal pensiero che qualche uomo potesse insidiare la madre. Sergio è sconvolto dalla esuberante femminilità della madre e della zia, arrivando così ad attuare forme più o meno consapevoli di boicottaggio nei confronti delle due donne. Le pagine più intense del romanzo sono proprio quelle dedicate al conflittuale rapporto del ragazzino con l'altro sesso e più in generale con la sensualità. Qui si esalta la capacità introspettiva dell'autore, la totale identificazione del narratore onnisciente con il protagonista bambino.
Spesso si esagera nel parlare di libri e autori "da riscoprire". Ebbene, non è questo il caso. Conservatorio di Santa Teresa è davvero un grande libro che negli anni ha acquisito la dignità di un classico. Ciononostante, quando si parla di pietre miliari della nostra letteratura del Novecento, non di rado viene colpevolmente ignorato.

28 agosto 2022

"Il passo lungo" di Giorgio Saviane: sulle orme dei propri fantasmi

Il Novecento è stato un secolo fecondo e forse irripetibile per la letteratura italiana. Tantissimi i nomi di primo piano, altrettanti gli autori che hanno ottenuto riconoscimenti in vita e poi sono stati un po' dimenticati dal grande pubblico e dagli editori. Giorgio Saviane (1916-2000) è uno di questi. Veneto di nascita e fiorentino d'adozione, ha esercitato a lungo la professione di avvocato, affermandosi in letteratura col romanzo Il papa (1963), vincitore del Campiello. Il passo lungo (1965), Il mare verticale (1973) e Eutanasia di un amore (1976) sono altri suoi libri di successo.
Il passo lungo è quello di Carola, quando altezzosa e sicura camminava sulla spiaggia di Follonica prima che la guerra mutasse irrimediabilmente i destini di ciascuno. E lungo è anche il passo della veneziana Giulia, che si muove rapida tra calli e campielli nello splendore dei suoi diciannove anni. L'unico in grado di riconoscere il passo delle due ragazze è Alberto, protagonista e narratore in prima persona di una vicenda che si snoda tra gli anni del fascismo e quelli che seguono il secondo conflitto mondiale. Alberto è di Castelfranco e proviene da una famiglia della media borghesia veneta ancorata a due inossidabili monoliti: il denaro e la moralità. A dominare sul nucleo familiare è la figura vizza e autoritaria della nonna, sebbene le sostanze siano di fatto amministrate dai due figli maschi, zii di Alberto. Sono loro i dispensatori del tanto agognato "valsente", per cui è a costoro che il ragazzo deve rispetto e obbedienza pur di ottenere a fine mese una piccola somma per le sue esigenze. Ogni deviazione rispetto alla rigida morale familiare (invero tutta di facciata) determina una decurtazione del credito mensile. Ed è per il timore di perdere il denaro che gli ardori giovanili di Alberto vengono puntualmente castrati e le sue timide rimostranze ridotte al silenzio. Tanto severi e grifagni sono gli zii, quanto amorevole e generoso è invece il padre Stanislao, tuttavia povero di sostanze e a sua volta sottomesso alle scelte dei cognati. Alberto è perdutamente innamorato di Carola, conosciuta durante le lunghe vacanze estive a Follonica, ma rinuncia a sposarla proprio per compiacere gli zii e non inimicarseli. Sono loro a dissuaderlo dal proposito, ancorati alla rigida morale piccolo-borghese che vuole che l'uomo sia economicamente "sistemato" prima di prendere moglie. La perdita di Carola è l'evento che segna l'esistenza di Alberto: egli non dimentica la ragazza e passa i successivi quindici anni all'inseguimento del suo fantasma nel ricordo dei giorni radiosi trascorsi a Follonica.
Né la guerra e la Resistenza, né il trasferimento a Firenze e il successo nella professione di medico attenuano l'ossessione di Alberto: tutte le sue giornate trascorrono nell'attesa di Carola. Si convince infine di averla ritrovata in Giulia, una donna molto più giovane che di Carola ha il medesimo passo lungo. La sua ricerca non è retta soltanto da ragioni sensuali: attraverso il fantasma di Carola e la corporeità di Giulia, Alberto si illude di riappropriarsi della giovinezza perduta e dell'epoca spensierata in cui era se stesso senza le sovrastrutture imposte dalla sua professione e dalle responsabilità che ne conseguono.
Saviane lancia con questo volume un'impietosa invettiva contro la media borghesia italiana ricca di sostanze ma povera di contenuti, incapace di slanci ideali e tenacemente aggrappata all'apparenza di una morale stantia. Tuttavia questa morale ha una sua forza attrattiva, è allettante e vischiosa al punto che ribellarsi non è solo un atto di disobbedienza, ma una prova di forza che riesce solo a metà. Alberto è l'emblema di questo fallimento, lui che ha sacrificato la sua felicità al rispetto di regole indigeste.
Il passo lungo è certamente un romanzo d'amore, sebbene si tratti di una definizione riduttiva che non rende completamente l'idea. Più nello specifico, è un romanzo sulla forza dirompente delle passioni, sulla loro capacità di orientare i destini umani verso esiti tragici e involontari. Saviane identifica nel denaro e nella sensualità due tra queste passioni divoratrici, e in effetti l'esistenza dei suoi personaggi è dilaniata da entrambe. Solo la figura di Stanislao si eleva al di sopra delle passioni, è lui il personaggio meglio riuscito del libro. Proprio colui che gli altri indicano come inetto e coglione, rivela un'onestà e un'indipendenza di pensiero che lo elevano moralmente al di sopra della suocera, del figlio e dei cognati.
Edizione Rizzoli del 1965

18 agosto 2022

L'anello del Monte Stella: un itinerario ciclo-turistico nel Cilento antico

Il Monte Stella (o della Stella) è un rilievo del Subappennino lucano che ha rivestito un ruolo centrale nella storia locale, sebbene la sua ridotta altezza di 1.131 metri non lo collochi tra le vette più alte del Cilento, che sono il Cervati (1.899 m), il Panormo (1.742 m) e il Faiatella (1.710 m). Mentre queste cime sono di grande interesse naturalistico, "la Stella" ha soprattutto una centralità storico-antropologica. E invero, l'area che si estende alle sue pendici corrisponde ai confini originari del Cilento, il cosiddetto Cilento antico. Non a caso gli unici paesi a cui è stato aggiunto nel nome il suffisso "Cilento" sono quelli che si trovano nelle vicinanze della Stella: Sessa, San Mango, Laureana, San Mauro, Prignano, Ogliastro, Mercato, San Martino. L'importanza del monte è confermata dal ritrovamento sulla cima di megaliti sicuramente disposti da mano umana. Secondo alcuni si tratterebbe dei resti di Petilia, la leggendaria capitale della confederazione dei Lucani che sarebbe stata circondata da mura spesse e inespugnabili. Secondo altri studi, i lastroni sarebbero più recenti, ruderi di una fortezza di epoca medioevale nota come Castrum Cilenti. Sulla cima inoltre si trovano due ulteriori punti di interesse: il piccolo santuario medioevale della Madonna della Stella e una grande base radar di proprietà Enav, la cui caratteristica cupola bianca (o radome) è visibile da tutto il circondario. La cima è raggiungibile a piedi, percorrendo numerosi sentieri, oppure in automobile seguendo la stretta ma panoramica strada asfaltata di sette chilometri che parte dall'abitato di Omignano.
La zona del Monte Stella si presta al ciclo-turismo ed è tradizionalmente battuta dagli appassionati delle due ruote. Solitamente i ciclisti seguono due itinerari principali: l'ascesa alla vetta e il cosiddetto anello. È chiamato "anello del monte Stella" un percorso circolare di circa ventinove chilometri che abbraccia le pendici della montagna. Lungo il suo tracciato si incrociano ben otto centri abitati: Mercato Cilento, San Mauro Cilento, Galdo, San Giovanni di Stella, Guarrazzano, Omignano, Sessa Cilento e San Mango. Il percorso è caratterizzato dall'alternanza di ripide salite e altrettante discese, con brevissimi tratti pianeggianti di solito in corrispondenza dei centri abitati.
Mappa del circuito noto come "anello del Monte Stella"

Partendo da Mercato, al bivio in cima al paese si deve svoltare a destra in direzione Serramezzana. Questo può essere convenzionalmente considerato l'inizio del giro per chi proviene dalla vecchia strada statale 18. I primi due chilometri, interamente nel bosco, sono di salita piuttosto intensa fino ad arrivare al valico in prossimità di Punta Carpinina.
Il bivio da cui inizia il percorso
Il tratto boscoso che conduce al valico di Punta Carpinina
Segnaletica in prossimità di Punta Carpinina

Superato il valico inizia una lunga e panoramica discesa: sulla sinistra il versante del Monte Stella con il radome in evidenza, sulla destra il dolce declivio che conduce alle zone costiere. In una curva prima di arrivare all'abitato di San Mauro, sulla sinistra è facilmente riconoscibile un punto di sosta nel bosco con una provvidenziale fontana. La strada prosegue e si attraversa il grazioso comune di San Mauro Cilento, in località detta Casal Soprano. Poco dopo il municipio si arriva a un altro bivio: svoltando a destra si va verso il mare, mentre l'anello prosegue a sinistra.
La fontana prima di San Mauro
Verso San Mauro

Lasciato San Mauro, il percorso continua in falsopiano tra boschi e orti per raggiungere Galdo, frazione della celebre Pollica. Superata la piazzetta di Galdo, bisogna svoltare a sinistra al bivio per San Giovanni. Da qui inizia la parte più selvaggia e panoramica dell'anello, attraversando un lungo tratto praticamente disabitato in mezzo alla natura. Un raccordo quasi pianeggiante conduce alle due frazioni del comune di Stella Cilento, San Giovanni e Guarrazzano: due villaggi ameni e silenziosi alle pendici del monte.
Ingresso a Galdo
Il bivio dopo Galdo

Verso San Giovanni e Guarrazzano

L'ultimo tratto del percorso conduce a Omignano, dove ci si può ristorare alla Fontana dei Santi, celebre in tutto il circondario per le sue acque fresche. La strada riprende a salire e si passa per Sessa Cilento e la sua frazione San Mango, casale fondato nell'anno Mille e ricco di storia e di fresche sorgenti. Superato San Mango, si affronta l'ultimo tratto in costante e regolare salita. Si giunge così nuovamente al punto di partenza di Mercato Cilento, dopo aver pedalato per quasi trenta chilometri nel cuore del Cilento antico. Ovviamente l'anello può essere percorso anche a piedi o in moto, ma è la bicicletta il mezzo più adatto per coglierne appieno ogni sfumatura.
Sessa Cilento vista da Omignano

7 agosto 2022

Suonare la rivoluzione: "Entertainment!"

L'aggettivo “seminale” viene ampiamente utilizzato da riviste e siti musicali per definire quei dischi o gruppi che hanno precorso i tempi. Sono seminali gli album che hanno circostanziato i canoni di un genere, oppure sono stati di spunto per altri artisti o movimenti. L'aggettivo a volte è abusato, al punto che vi è chi si rifiuta categoricamente di utilizzarlo. La verità, come sempre, sta nel mezzo: se è vero che spesso si abusa di tale definizione, vi sono casi in cui calza a pennello.
Si consideri Entertainment!, il primo disco degli inglesi Gang of Four. Era il 1979 e il punk sembrava già morto e sepolto, sebbene fossero passati poco più di tre anni dalla sua esplosione. Serviva un suono nuovo che sapesse prendere quanto di buono e innovativo aveva regalato la stagione del punk e al tempo stesso ne fosse un superamento. Bisognava abbandonare la logica di chi pretendeva che non fosse necessario saper suonare per fare buona musica, senza tuttavia tornare alle elaborate orchestrazioni del periodo progressivo. Questa scena innovativa fu chiamata semplicemente new wave, la nuova onda. Il passaggio dai Sex Pistols ai Joy Division non fu però immediato, com'è naturale. Ci furono sperimentazioni che produssero risultati eccelsi, come i grandi Magazine di Devoto. I Gang of Four rientrano in questo clima di transizione. Si costituirono a Leeds e la formazione originaria comprendeva Dave Allen al basso, Jon King alla voce, Andy Gill alla chitarra e Hugo Burnham alla batteria. Entertainment!, il loro esordio, è puro post-punk, un tentativo ottimamente riuscito di proiettarsi verso il futuro.
Non è un caso che il progetto conti autorevoli estimatori. Michael Stipe dei R.E.M. ha dichiarato che "Entertainment! ha fatto a pezzi tutto quello che era venuto prima", mentre per Tad Doyle dei TAD "è stato il disco che ha cambiato la mia vita […]; io stesso suonavo in una cover band dei Gang, ci chiamavamo Red Set". Ancora più entusiastiche le parole di Flea, bassista dei RHCP: "ha cambiato completamente il mio modo di concepire il rock e ha fatto nascere la mia fissazione per il basso".
Entertainment! è di base un disco punk, ma le canzoni sono più dilatate rispetto ai canonici due-tre minuti che caratterizzano il genere. Del punk vengono riprese le bordate di chitarra, affilate come lame di rasoio. Il suono dei Gang of Four è tuttavia "sporcato" da chiare influenze reggae e funk, al punto che vi è chi ha parlato di funk-punk. Il loro stile a tratti ricorda qualcosa dei Clash di London calling e Combat rock, con una differenza di fondo: mentre il gruppo di Joe Strummer nei dischi citati superava definitivamente i dettami del punk, i Gang of Four invece seguivano il genere come fosse la stella polare, pur non rinunciando all'ambizioso progetto di farlo evolvere in qualcosa di diverso e più completo. Al tempo stesso, si differenziavano anche da band come The Redskins, troppo derivativi o comunque debitori di Bob Marley & co. Per il gruppo di Leeds è dunque riduttivo parlare di funk o reggae. Si ascoltino in proposito Not great men, I found that essence rare e la celebre Damaged goods: se pure si rinvengono chiare influenze, bisogna ammettere che le bordate di chitarra di Gill e il basso prepotente di Allen creano un sound riconoscibile tra mille. E ancora, degni di nota sono il reggae sporco di Contract, l'incedere sincopato dell'iniziale Ether, nonché la grandiosa sezione ritmica di Natural's not in it. Il disco è un continuo dialogo tra passato e futuro: c'è dunque posto per il taglio quasi psichedelico di Return the gift, così come per il sintetizzatore di 5.45, il brano più new wave dell'album. Sebbene ci siano pezzi più orecchiabili, il capolavoro è la compassata Anthrax, un brano cupo e disturbato che chiude magistralmente il disco.
Un'altra peculiarità è nei testi. Già il nome del gruppo tradisce una precisa matrice ideologica: la Banda dei Quattro era infatti il nome dato a quattro politici cinesi dei tempi della Rivoluzione culturale, arrestati subito dopo la morte di Mao. I Gang of Four volevano veicolare un messaggio politico di stampo marxista attraverso la loro musica; i testi delle canzoni sono dunque lo strumento per lanciare veri e propri slogan contro la società occidentale e consumistica.
Entertainment! è un disco rivoluzionario per suono e contenuti, l'anello di congiunzione tra i riff selvaggi del punk e le raffinate divagazioni della nuova onda. Per questo e tanti altri motivi è un LP che non può mancare in una collezione che si rispetti.