31 gennaio 2020

Sulle orme di Arthur Lee: "Pacific Street"

Domandarsi perché i Pale Fountains siano rimasti un gruppo sconosciuto ai più è tutt'altro che una questione secondaria. Per dare una risposta esauriente non basta prendersela con la sorte poco benevola; la verità è più complessa e ci costringe a fare i conti con una stagione musicale fluida, la metà degli anni Ottanta, che aveva chiuso definitivamente con i furori del punk e si godeva un'ubriacatura elettronica da cui sarebbe uscita – almeno secondo il giudizio dei posteri – con le ossa rotte. D'altronde, gli stessi Joy Division, che pure avevano rivoluzionato il panorama appena un lustro prima, sembravano già lontani anni luce.
In un simile contesto era arduo trovare spazio per un gruppo che aveva assorbito così bene le divagazioni psichedeliche del 1967 da volerle riproporre secondo il gusto contemporaneo, non disdegnando un tiepido tappeto elettronico su cui innestare archi e fiati. Eppure i giovanissimi Pale Fountains incontrarono il favore di una major, la Virgin, che nel 1984 accettò la scommessa di produrre il loro primo LP, Pacific Street. L'azzardo fu ripagato solo in parte: il lavoro raggiunse al massimo la posizione n. 84 della classifica britannica, ma è tuttora ricordato da una schiera di fedeli appassionati. In copertina un celebre scatto del fotografo italiano Mario De Biasi, che ritrae un giovane combattente per le strade di Budapest nel 1956; la foto inganna, perché dà l'idea di un disco street-punk, tipo The Redskins per intenderci. Invece la miscela proposta dalla band di Liverpool guidata da Mick Head (voce e chitarra) è non solo atipica, ma difficilmente inquadrabile entro un genere. Su alcuni siti si parla di new wave, ma la definizione è incompleta, se non fuorviante. Se proprio volessimo accostare la musica dei Pale Fountains ad un genere, dovremmo richiamare il rock psichedelico di fine anni Sessanta e il suo alfiere, il compianto Arthur Lee dei Love. Alcuni passaggi di Pacific Street sembrano presi direttamente da Forever changes, magari adattati a un gusto più moderno grazie all'uso delle tastiere, comunque mai invasive; altrove i quattro di Liverpool sembrano invece indulgere verso suoni tropicali. Il tutto ha un sapore così squisitamente sixties che risulta difficile persino collocare cronologicamente l'album, quantomeno a un primo ascolto. I Love, dunque, ma anche i concittadini Beatles risuonano tra i solchi di Pacific Street. E non è un caso che un pezzo come Natural potrebbe benissimo fare parte del repertorio degli ultimi Jam, perché proprio la band di Paul Weller era tra quelle che strizzavano l'occhio con maggiore veemenza alla scena di vent'anni prima.
Analizzare il disco traccia per traccia ha poco senso; tuttavia, è necessario spendere qualche parola in più sulle canzoni. L'apertura di Reach è spettacolare; ricorda così tanto gli Smiths che, se l'avesse scritta Morrissey, oggi sarebbe ricordata come una delle migliori del suo repertorio. Certo i Pale Fountains non possedevano il tocco inconfondibile della chitarra di Johnny Marr, ma supplivano con solari innesti di tromba, capaci di aprire oltre le frontiere d'Albione, verso caldi lidi tropicali. La tromba di Andy Diagram si fa sentire anche nelle felici contaminazioni di (There's always) something in my mind, una sorta di bossanova, impreziosita da percussioni latine. La successiva Unless apre con ritmi tribali, per poi planare felicemente su spunti elettronici alla Ultravox. Come ho già ribadito, però, è Forever changes dei Love la vera pietra di paragone; ecco allora la spagnoleggiante Southbound excursion, oppure la trasognata Beyond Friday's field, che sembrano toccate dalla mano felice di Arthur Lee nei suoi giorni migliori.
Pacific Street è un gioiello poco conosciuto, che merita un ascolto non frettoloso. Certo non aspettatevi una scoperta miracolosa: rimane un disco piacevole e poco più, che trova il proprio limite nella scarsa omogeneità delle tracce, che non sempre seguono un filo conduttore comune. È stato ristampato in cd, ma non è difficile reperire il vinile dell'edizione italiana del 1984 a prezzi onesti.
The Pale Fountains - Pacific Street - 1984  

20 gennaio 2020

Morire di saudade ad Hammamet

Come era lecito attendersi, l'ultimo film di Gianni Amelio è stato accompagnato da polemiche e giudizi, anche preventivi, segno che la parabola umana e politica di Bettino Craxi è una ferita ancora aperta, che divide il Paese in opposte fazioni. E allora è subito opportuno sgombrare il campo da possibili fraintendimenti: Hammamet (2020) non è un film agiografico o celebrativo, e neppure strettamente ideologico. Le vicende politiche sono accennate e si riducono di fatto alla scena iniziale del Congresso 1989 del Partito Socialista. Le vicende giudiziarie sono presenti in sottofondo, costituendo il necessario presupposto della trama, senza entrare a far parte del cuore della narrazione. È tutto un gioco sottile di citazioni e sottintesi, di riferimenti volutamente mascherati, che si rivolgono ad un pubblico che conosce la vicenda e non ha bisogno di vedersela raccontata con la freddezza del cronista giudiziario. Gianni Amelio concentra la sua attenzione sul dramma umano e personale di un uomo di potere che fugge all'estero per scampare ad un processo che ritiene iniquo, sentendosi perseguitato dalla magistratura.
La mia impressione, ma potrei sbagliarmi, è che il nome “Craxi” non venga mai fatto durante i centoventi minuti della pellicola, così come altri personaggi di quegli anni sono indicati con nomi inventati. In una scena, addirittura, il figlio dell'ex Presidente del Consiglio usa l'espressione “il caso C.”, a riprova che si tratta di una precisa volontà degli sceneggiatori. La scelta è funzionale al messaggio di fondo; se per un momento si abbandona l'identificazione tra il protagonista e Bettino Craxi, si scopre l'essenza profonda del film, il valore universale della storia diretta da Amelio. Il protagonista trascende la storia recente italiana per diventare l'emblema dell'uomo politico caduto in disgrazia, colui che nel giro di pochi mesi passa dal dirigere le sorti di uno Stato all'essere spogliato di ogni potere.
In questo senso, sgombrato dagli ineliminabili riferimenti alla storia contemporanea del Belpaese, il lungometraggio potrebbe andare bene ad ogni latitudine. Non posso dire con certezza che fossero queste le intenzioni del regista, ma di certo il film ruota intorno all'uomo e non al politico, approfondisce la dimensione privata ed evoca solamente quella pubblica. Tre sono i temi fondamentali: la malattia, la famiglia e il rimpianto. Il Craxi di Amelio non è quello che si oppose agli americani a Sigonella; pur mantenendo la dignità e l'austerità dei suoi giorni migliori, è soprattutto un uomo sofferente, costretto ad estenuanti ricoveri in un ospedale pubblico tunisino. La famiglia, trascurata negli anni gloriosi, diventa così l'approdo sicuro, unico legame solido che resiste nonostante l'esilio. Ancora una volta, però, regista e sceneggiatori non hanno optato per la soluzione più semplice, ovvero quella di rappresentare la famiglia come il rifugio obbligato contro ogni malinconia; in verità, le dinamiche familiari sono sviscerate con realismo e cinismo, senza nulla nascondere dei piccoli odi, delle incomprensioni, delle meschinità e dell'incomunicabilità di fondo che isola i protagonisti nella bolla del loro dramma individuale. Resta poi il terzo grande tema: il rimpianto, o forse sarebbe più corretto parlare di saudade. Il Presidente è un uomo ambizioso, abituato a muovere a piacimento i fili del Paese; per questa ragione, l'inazione coatta a cui è costretto diventa cocente frustrazione, come quella che deve provare una tigre chiusa in gabbia. In questo guazzabuglio di depressione e mortificazione, l'unica speranza per ricucire le ferite del passato e dare una speranza al futuro è quella di aiutare Fausto, il figlio del compagno di partito Vincenzo, morto suicida pochi giorni dopo aver ricevuto un avviso di garanzia. E proprio alla figura di Fausto sono dedicati gli ultimi minuti della pellicola, con una struggente incursione nel dramma privato, che trascende e supera la desolazione della cosa pubblica.
Nulla da aggiungere sull'interpretazione di Favino, monumentale come affermato da tanti e più autorevoli commentatori. È certamente un film da vedere, purché si affronti la visione con animo sereno e neutrale, sgombrato dagli inevitabili pregiudizi.
La locandina di Hammamet, di Gianni Amelio (2020)

9 gennaio 2020

"Dentro la Stella" di Luigi Compagnone: le conversazioni napoletane

Sono stato a lungo indeciso se scrivere qualche riga su questo romanzo minore di Luigi Compagnone (Napoli, 1915-1998), pubblicato nel 1977 per l'editore Rusconi. L'indecisione era dovuta non tanto e non solo al fatto che il libro non ha incontrato il mio favore, quanto piuttosto per non aver letto prima Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini. Invero, non si tratta di una mia considerazione, perché Dentro la Stella è a tutti gli effetti una riscrittura del celebre romanzo dello scrittore siciliano. È lo stesso Compagnone, nell'introduzione al volume, a chiarire che il racconto «vuol essere un atto di riconoscenza che molti uomini della mia generazione devono a Vittorini per la grande lezione, lirica e morale, con cui egli seppe interpretare i nostri sgomenti in uno dei più tragici periodi della storia d'Europa». Non un semplice omaggio, dunque, ma un vero e proprio atto di devozione. Compagnone sente una connessione tra l'Italia del 1938 e quella del 1977 a lui contemporanea; due epoche difficili e drammatiche, dilaniate rispettivamente dal totalitarismo e dalle minacce allo Stato democratico. Lo scrittore napoletano percepisce che «le antiche paure della fame e della violenza» sono tornate, e che ora come allora sono gli intellettuali a dover scendere in campo. Per questo è corretto parlare di una riscrittura del romanzo di Vittorini, vuoi per l'afflato socialista che anima le pagine, vuoi per l'identicità della trama e dei nomi dei personaggi.
Il protagonista, Silvestro Ferrauto, intraprende un viaggio in treno da Roma a Napoli, dopo essere stato avvisato delle gravi condizioni di salute in cui versa la madre. Sebbene la distanza che separa le due città sia minima, per Silvestro il ritorno nel quartiere natale “della Stella”, uno dei più antichi e popolosi di Napoli, rappresenta un viaggio nella memoria, un tuffo nelle origini, un'immersione in ricordi e odori che parevano sopiti, se non addirittura dimenticati. Silvestro rivede il padre, il vecchio avvocato Ferrauto, che arrotonda la magra pensione tenendo la contabilità a negozianti e artigiani del rione; il lungo giro che compie assieme al papà, di bottega in bottega, diventa l'occasione per ripensare a un passato mitico, ancora vivo nella memoria ma offuscato dalle ansie e dalle paure del presente. La paura più grande è sempre la stessa, la madre delle paure partenopee: la miseria, e con essa la fame. Come Conversazione in Sicilia, anche Dentro la Stella è un romanzo fatto di incontri e di lunghi dialoghi; ad un certo punto si entra persino in una dimensione onirica, dove labili e indefiniti sono i confini tra sogno e realtà.
In Dentro la Stella tornano tanti temi della tradizione letteraria della città partenopea: la dignità della miseria, il dolore eterno camuffato con l'ironia, i piccoli sotterfugi per campare la giornata, la secolare rassegnazione e al contempo il desiderio di cambiare le cose, un vago anarchismo di fondo e il senso della libertà, la solidarietà e la forza dirompente del collettivo. In poche parole, la vita dei bassi con tutte le sue contraddizioni.
In conclusione, non so se consigliare o meno la lettura di questo romanzo. Si tenga presente che si tratta di un'opera minore dello scrittore campano; magari potrebbe essere un utile complemento a Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini. Ma chi, come me, non ha ancora letto il capolavoro dello scrittore siciliano, farebbe bene a dirottarsi verso quest'ultimo, anziché sulla “riscrittura” di Compagnone.