21 novembre 2023

"La velocità della luce" di Javier Cercas: una geografia del dolore

Chi è nato in Europa negli anni successivi al 1945 ha avuto la fortuna di non conoscere gli orrori della guerra. La democrazia, il welfare state e l'Unione europea non sono esenti da difetti, eppure sono le istituzioni che ci hanno consentito di raggiungere un grado invidiabile di sviluppo e benessere. I conflitti ci sono apparsi quali eventi lontani e quindi inoffensivi, poco più che notizie di telegiornale cui abbiamo prestato un'attenzione distratta. Quel che sta accadendo in Ucraina e Israele ha modificato la percezione, facendo definitivamente cadere l'illusione che la guerra sia un'entità astratta ed esotica che non ci riguarda. I mezzi di comunicazione si limitano però a riportare i fatti, ossia gli effetti materiali del conflitto, senza addentrarsi nel terreno altrettanto minato degli effetti psicologici. Di ciò devono occuparsi i libri.
È il caso de La velocità della luce, romanzo dello spagnolo Javier Cercas edito nel 2003. Racconta la storia di un'amicizia particolare, quella tra l'io narrante e un reduce del Vietnam di nome Rodney Falk. Il primo è uno squattrinato aspirante scrittore spagnolo che alla fine degli anni Ottanta, grazie all'intercessione di un accademico, accetta l'incarico di assistente alla cattedra di letteratura spagnola all'università di Urbana, nell'Illinois. Qui ha modo di conoscere il secondo, un quarantenne tormentato dai fantasmi della guerra combattuta per quasi due anni nel Paese asiatico. Rodney è considerato un disadattato, un outsider incapace di coltivare legami con i suoi simili. Eppure tra i due nasce inaspettatamente una profonda amicizia, finché l'americano carica la sua auto di bagagli e sparisce nel nulla, facendo perdere ogni traccia. Anche lo spagnolo lascia Urbana una volta terminato l'incarico all'università. Torna a Barcellona, portando con sé tre faldoni donatigli dal padre di Rodney: sono le lettere dolorose e allucinate che l'amico inviava dal Vietnam alla famiglia. Ed è proprio questo flebile ma corporeo legame che lo spingerà a tentare di dipanare il mistero che avvolge l'esistenza del reduce.
La velocità della luce è un libro duro e sconcertante, un impietoso atto d'accusa contro la politica statunitense in Vietnam e, più in generale, una feroce critica all'assurda convinzione secondo cui sia possibile risolvere i contrasti internazionali con la guerra. Come ho accennato sopra, Cercas indaga gli effetti psicologici prodotti sui soldati dall'esposizione alla violenza e dalla commissione di atti brutali. Non a caso il cuore del romanzo è nelle lettere che Rodney scrive ai familiari dal fronte; è in queste missive che viene delineata la geografia del dolore che solo chi ha vissuto gli orrori di un conflitto può comprendere fino in fondo. Inoltre, come avrà modo di capire chi lo leggerà, La velocità della luce è anche un'analisi impietosa dell'ipocrisia di una certa classe intellettuale che si fa abbagliare dalle lusinghe del successo, fino a perdere il contatto con i valori essenziali dell'esistenza.
Nonostante l'indubbia potenza della storia, conclusa la lettura mi sono interrogato su quali siano i punti deboli del romanzo. C'è nella trama qualche passaggio un po' forzato, però devo riconoscere che la storia nel complesso è credibile e scritta bene. Rodney Falk è una figura delineata perfettamente, destinata a rimanere a lungo nella mente del lettore. Cercas è stato abile e meticoloso a entrare nella mente del suo personaggio, descrivendo con dovizia di particolari tutti i fantasmi che l'affollano. La figura di Rodney è certamente il punto di forza del libro e la sua elaborazione un atto di coraggio da parte dello scrittore spagnolo. Cercas è riuscito a non trasformare il veterano nella macchietta del reduce, equivoco in cui si rischia di cadere quando si parla di Vietnam; in parole povere, Rodney non è un Rambo, ma un intellettuale sconvolto e segnato dalle drammatiche esperienze del conflitto. Viceversa, non mi è risultato particolarmente simpatico l'io narrante; forse la mia è una considerazione sciocca, ma non riesco a esprimerla diversamente. Lo scrittore protagonista della vicenda è infatti un personaggio con cui è difficile empatizzare: la sua trasformazione da aspirante artista ad arrivista senza scrupoli è troppo repentina per essere credibile. Sembra quasi che si tratti di una persona diversa rispetto a quella che racconta la prima parte della vicenda. Insomma, tanto è granitica la figura di Rodney, quanto debole quella dell'io narrante. Si tratta ovviamente di una considerazione personale che non intacca il valore di un'opera che merita di essere letta, per farci capire ancora (se mai ce ne fosse bisogno) quali orrori la guerra porti inevitabilmente con sé.

9 novembre 2023

Il Cilento della millenaria devozione: il Santuario della Madonna del Granato

Sono sette i santuari mariani che costellano il territorio del Cilento, dalla marina all'entroterra. Di solito sono collocati su alture, come nel caso della chiesa della Madonna del Sacro Monte di Novi Velia, posta sulla cima del Gelbison a 1705 metri sul livello del mare. La tradizione popolare, per meri fini didascalici e senza voler contraddire l'unicità della Vergine, tramanda che le sette Madonne fossero sorelle. Per questo si parla convenzionalmente delle "sette sorelle del Cilento". Un elemento in comune a questi luoghi è che le immagini che ivi si venerano hanno le medesime caratteristiche iconografiche bizantine; comuni sono anche i riti, le tradizioni e persino i canti.
La Madonna del Granato è una di queste "sorelle". Parlare del santuario dedicatole non significa semplicemente risalire alle origini della devozione popolare, ma ricostruire una parte essenziale della storia locale, nonché vicende che hanno contribuito a definire la storia dell'intero Mezzogiorno. L'edificio si trova appollaiato su un versante del monte Calpazio, poco più in basso rispetto ai ruderi del castello di Capaccio Vecchio, teatro di una celebre congiura. Come ho scritto altrove, nel 1246 alcuni tra i principali notabili del Regno ordirono una cospirazione per uccidere l'imperatore Federico II di Svevia e suo figlio Enzo. Grazie ad alcuni fedelissimi, il sovrano scoprì il complotto e i rivoltosi furono costretti a rifugiarsi nel castello di Capaccio, ritenuto inespugnabile. La fortezza fu cinta d'assedio per tre lunghi mesi dalle truppe di Federico II, fin quando capitolò nel luglio del 1246 per mancanza di approvvigionamenti. Per punizione venne rasa al suolo e tuttora è ridotta a rudere.
Il Santuario della Madonna del Granato a Capaccio (SA)

L'attuale chiesa era un tempo la cattedrale della diocesi di Paestum, soppressa nel corso dell'Ottocento con spostamento della sede vescovile a Vallo della Lucania. La sua origine dovrebbe risalire alla fine del IX secolo d.C., quando i pestani abbandonarono la pianura per sfuggire alle incursioni dei saraceni, rifugiandosi sui primi contrafforti delle alture retrostanti. Nel corso del X secolo anche la sede vescovile fu spostata sul monte Calpazio, come testimonia il Codex diplomaticus cavensis che riferisce dell'esistenza nel 989 di una chiesa dedicata alla Vergine situata in prossimità del castello di Capaccio Vecchio. Secondo una leggenda tramandata oralmente, l'immobile fu costruito dalle medesime maestranze che operarono sul duomo di Salerno. Tracce di un incendio hanno fatto pensare alla distruzione dell'edificio originario, forse di origine basiliana. L'attuale chiesa fu innalzata in posizione più arretrata e servì da alloggio per le truppe assedianti il castello di Capaccio durante il citato episodio. Il titolo di Santa Maria del Granato compare per la prima volta nel 1630; la venerabile statua è invece attestata a partire dalla prima metà del XVIII secolo, quando l'immagine non era permanentemente esposta a causa delle precarie condizioni del luogo. Nel corso del XIX secolo venne costruita una prima casa per accogliere i pellegrini, finché nel 1851 con la soppressione della diocesi di Paestum la chiesa fu elevata a santuario.
L'interno della chiesa
Lo splendido soffitto

Il complesso in origine era costituito da un edificio a tre navate e da una torre campanaria, cui a metà Ottocento è stato aggiunto un corpo di fabbrica a tre piani destinato a canonica. L'interno della chiesa è imponente, anche per effetto del pavimento in leggera salita che amplifica la sensazione di ascensione e accresce gli spazi. Una esauriente descrizione si trova sul sito del Catalogo Generale dei Beni Culturali.
«Le tre navate terminano in un transetto triabsidato, posto ad una quota maggiore di circa 0,56 m rispetto alla parte terminale delle navate, che a loro volta hanno il pavimento in forte pendenza (1,28 m di dislivello). Le navate laterali sono coperte da una serie di voltine a crociera sorrette da colonne mentre la navata centrale conserva la copertura a capriata più volte rifatta. Sul lato destro del transetto, superato un piccolo vano, si accede ad un ambiente absidato, a pianta quadrata, coperto da una pseudocupola impostata su pennacchi generati da una crociera; si tratta di una cappella del XIII secolo, con una copertura a timpani estradossati e un'alta cupola a pan di zucchero, che ha subito notevoli trasformazioni. La torre campanaria, di imponenti proporzioni, è posta sul lato sinistro del transetto; ha un basamento a scarpa e barbacani laterali.»
In fondo alla navata di destra c'è la statua della Vergine che sorregge la melagrana, una raffigurazione di origine greca. Alla foce del Sele, a poca distanza dal santuario, è infatti presente l'Heraion, un tempio dedicato alla dea Hera Argiva; qui è stata trovata una statua in marmo raffigurante la dea seduta in trono con una melagrana in mano. Sembrerebbe che il culto di Hera sia sopravvissuto in età cristiana, trasfigurato nella Madonna del Granato. Tornando alla statua, nel 1918 l'originale medioevale fu distrutta da un incendio, per cui nel 1921 venne collocata quella che è possibile ammirare oggi. L'opera d'arte più pregevole è invece il pulpito di epoca romanica a metà della navata centrale; è sorretto da tre esili colonnine ed è decorato con dischi e lastre marmoree policrome. La bassa volta è affrescata con motivi geometrici e scene di santi.
La statua
Il pulpito romanico
Particolare degli affreschi del pulpito

Da menzionare, infine, lo splendido panorama che si ammira dalla terrazza antistante il santuario. Le fotografie non rendono l'idea; basti dire che la vista spazia su tutta la piana del Sele, con la marina da Agropoli alla Costiera amalfitana, il monte Stella e il Cilento Antico, punta Licosa e i templi di Paestum.
Le fotografie sono liberamente riproducibili, purché ne venga indicata la provenienza da questo blog.
Il panorama dalla terrazza del santuario