30 marzo 2019

Un antico rito contadino del Cilento: Sant'Elia e la pioggia

C’è un’Italia segreta, che ancora resiste alle spinte dell’omologazione e della modernità; si trova ai margini del grand tour, nelle zone rurali o montane poco battute dai flussi turistici. Castelli, chiese e borghi abbandonati sono i silenti guardiani di questi luoghi, dove ancora risuonano echi di ancestrali tradizioni quasi dimenticate. Tra le tante tradizioni dell’Italia contadina, mi ha sempre incuriosito il culto legato a Sant’Elia, diffuso anche nel Cilento, che ho conosciuto grazie ai racconti di mia nonna.
Il culto del profeta Elia è antichissimo, legato al mondo agricolo e a riti propiziatori che affondano le radici nel paganesimo. Elia è colui che protegge da fulmini e temporali, ma soprattutto è il santo da invocare nei periodi di siccità per far discendere la pioggia sui campi. Innumerevoli sono le cappelle rurali a lui dedicate lungo le strade di campagna dello Stivale. Durante le stagioni aride i contadini si rivolgevano ad Elia in attesa della salvifica pioggia, angustiati per la mancanza d’acqua che seccava le zolle. In molti paesi del Meridione era usanza portare in processione la statua del Santo, affinché invitasse il cielo ad elargire il desiderato temporale. E non di rado la statua veniva lasciata fuori dalla chiesa per più notti di seguito, nella speranza che il contatto con l’aria aperta favorisse il miracolo.
Voglio parlarvi proprio di una di queste cappelle campestri, che si trova nel Cilento, precisamente tra i comuni di Prignano e Torchiara, nella zona detta “Poglisi” o “Puglisi” per la presenza di un antico abitato oggi scomparso. La chiesetta di Sant’Elia è raggiungibile seguendo la strada asfaltata che parte dal retro del cimitero di Prignano. La stradina costeggia qualche abitazione e poi si inoltra tra campi e macchia mediterranea, scendendo nel vallone. Dopo aver percorso all’incirca un chilometro, bisogna imboccare un viottolo sterrato sulla sinistra. Si scende per una strada bianca, fino ad arrivare alla cappella. È un edificio modesto, dalla facciata semplice e intonacata, con una piccola campana sul tetto per richiamare i fedeli alla preghiera. Un luogo ameno, adatto ad eremiti e viaggiatori di passaggio. A differenza di molti altri posti simili, la porta è aperta. L’interno è semplice, come si conviene alla vita agreste. Lo spazio è occupato quasi interamente da una fila di banchi grezzi e vetusti, che attendono un’improbabile assemblea. In fondo, in una nicchia sopra l’altare, è la statua del santo. Elia guarda in alto e punta l’indice destro verso il cielo; è questo il particolare che rivela la magia del luogo e il forte valore simbolico. In un’epoca neppure tanto lontana, quando pioggia o siccità potevano significare vita o morte per un’intera comunità, era ad Elia che i contadini del Cilento si rivolgevano, nella speranza che anche da una chiesetta in mezzo ai campi potesse scaturire il miracolo.
Luoghi come questo andrebbero preservati. Fanno parte di un mondo minimo, ormai scomparso, da cui la cultura nazionale e il senso di identità di un Paese non possono prescindere.
L'interno della cappella di Sant'Elia nelle campagne di Torchiara (Sa)
Un particolare della facciata

20 marzo 2019

"Zagor Classic": lo Spirito con la Scure è vivo e lotta insieme a noi

Da qualche anno Sergio Bonelli Editore sta portando avanti numerosi progetti, che corrono lungo due direttrici parallele. Da un lato, ha lanciato alcune serie innovative, che si diversificano dalla precedente produzione nei contenuti e negli scenari (Mercurio Loi), nel formato (collana Audace) o nei temi trattati (Bonelli Young). Si tratta di prodotti destinati negli intenti ad avvicinare nuove fasce di pubblico, composte specialmente dai più giovani, piuttosto allergici al fumetto. D'altro canto, la Casa editrice ha ampliato il catalogo delle ristampe, grazie a nuove serie regolari; sto parlando in particolare de Il Dylan Dog di Tiziano Sclavi, Tex Classic e Julia, i casi archiviati. In questo secondo filone si colloca Zagor Classic, che ricalca le orme dell'analogo e fortunato progetto su Tex.
Zagor Classic, il cui primo numero è uscito il 13 marzo, è una ristampa cronologica del tipo di Tutto Zagor, andato avanti dal 1986 al 1998 per un totale di 235 numeri. Rispetto alla precedente ristampa, Zagor Classic presenta interessanti novità. La prima è l'uso del colore, scelta che farà storcere il naso ai puristi del bianco e nero, ma che consente di apprezzare secondo un altro punto di vista le vignette del maestro Ferri. Il formato è quello classico bonelliano, per un totale di 80 pagine. Si tratta di un mensile che regalerà ad ogni numero un omaggio diverso. Al primo numero è abbinato un grande poster a colori, mentre dal secondo in poi saranno allegate cartoline riproducenti le copertine realizzate da Gallieno Ferri per la Collana Zenith. Come spiegato dal curatore Moreno Burattini, le copertine di Zagor Classic sono una selezione di quelle degli albi a striscia della Collana Lampo, usciti tra il 1961 e il 1970.
Il primo numero, in questi giorni in edicola, è il celebre La foresta degli agguati del 1961. Il lettore si immerge subito nel mondo di Darkwood, guidato dall'inconfondibile tratto di Ferri e dalla sceneggiatura di Guido Nolitta, alias Sergio Bonelli. Leggendo l'albo, uscito quasi sessant'anni fa, ci rendiamo conto di come la serie sia rimasta sostanzialmente invariata. Ci sono già i siparietti col mangione Cico, le scene di combattimento alternate a quelle di quiete silvestre, gli scenari mozzafiato delle grandi foreste americane, i nemici spietati da combattere, e la fiducia inossidabile nel bene, destinato a trionfare sul male. Se è indubbio che l'essere rimasto fedele a se stesso sia la forza dello Spirito con la scure, è altrettanto vero che si tratta di un limite, data la scarsa attrattiva del classico fumetto di avventura sul pubblico più giovane. Forse l'aspetto più “datato” (lo dico con il massimo rispetto) è dato dall'uso massiccio delle vignette lunghe, a discapito dell'azione. Certo non siamo ai livelli di Kinowa, per me davvero indigesto a causa delle troppe didascalie, ma siamo comunque lontani dallo Zagor attuale, caratterizzato anche da lunghe sequenze mute, che conferiscono maggiore rapidità all'azione.
Per chi, come me, ama il personaggio e non ne aveva mai conosciuto le origini, si tratta di un acquisto necessario. Ogni albo costa € 3,50; considerando l'elevatissima qualità delle storie dell'accoppiata Nolitta-Ferri, ne vale davvero la pena. Anche perché, come chiarisce Moreno Burattini nell'editoriale, la maggior parte di questi albi sono da tempo esauriti.
Zagor Classic n. 1 - La foresta degli agguati - marzo 2019 - euro 3,50

8 marzo 2019

"La sorella" di Sándor Márai: la vita può essere un veleno

Intesa come patologia fisica, oppure quale stato di prostrazione emotiva, la malattia è un vero e proprio topos della letteratura europea del Novecento. Non a caso il “malato” è protagonista di tanti celebri romanzi dello scorso secolo, da La montagna incantata a La coscienza di Zeno. Si potrebbe persino azzardare che il malessere sia il tratto distintivo dell’uomo contemporaneo, perché se è vero che la società del benessere ci ha liberati dall'ansia del pane, è al contempo indiscutibile che abbia gravato l’Occidente di un carico di nevrosi prima sconosciute. Forse per questo Márai non rivela i nomi dei personaggi; li identifica con un’iniziale, come a voler dire che nessuna vicenda ha una portata soltanto individuale, ma ognuna riguarda la natura profonda e universale dell’umanità.
Il protagonista del libro è Z., un celebre pianista e compositore ungherese che si ammala di un oscuro morbo mentre si trova a Firenze, invitato dal Governo italiano a tenere una serie di concerti. Sono i mesi convulsi che precedono lo scoppio del secondo conflitto mondiale, ed è il mondo intero a sembrare malato. In questo senso la vicenda di Z. travalica l’aspetto personale, per assurgere a simbolo di un’epoca tragica. Z. viene ricoverato in una clinica d’élite, accudito amorevolmente da due medici e quattro suore infermiere, diversissime per temperamento eppure complementari. Sono loro, più che i dottori, a contribuire alla guarigione di Z., con una dedizione che non è solo professionale, ma si avvicina alla più alta manifestazione dell’essere donna, la maternità. Il loro amore disinteressato e casto è la forza costruttiva che bilancia l’impeto distruttivo dell’amore carnale.
Un punto resta avvolto dal mistero: quale sia la malattia di cui è affetto Z. Márai non lo rivela, perché d'altronde, come afferma anche il medico che ha in cura il pianista, una parola latina vale un’altra e non risolve l’enigma. Le interpretazioni possono essere tantissime, dalla sclerosi amiotrofica alla depressione, passando per la tesi secondo cui la malattia sarebbe solo una generica metafora del male di vivere. Eppure c’è un punto del libro che, a mio avviso, ne è la chiave di volta. Sono due righe in tutto, ma contengono un’inaspettata rivelazione.
«La vita diventa un veleno se non crediamo in essa, quando non è che un mezzo per saziare la vanità, l’ambizione, l’invidia.»
Il male di Z. è dunque la vita stessa. È una risposta cruda ed estrema, che non lascia scampo, eppure è l’unica verità. La sua non è una vita qualsiasi, ma un’esistenza straordinaria votata all'abnegazione e al sacrificio. Abnegazione perché Z. rinuncia a tutto per amore della musica, da lui considerata la massima espressione dell’animo umano. Sacrificio perché è tramite la musica che conosce E., donna sposata ad un suo caro amico, che lo avvince in una passione tanto intensa quanto insoddisfatta. Musica e passione sono le due entità che prosciugano le forze di Z. giorno dopo giorno, fino a condurlo alla paralisi. La malattia nasce così dagli irrisolti conflitti, dai paradossi che soffocano un animo destinato alla grandezza. Z. è celebre e acclamato in tutto il mondo, eppure è solo. Ha talento da vendere e per questo attira su di sé invidie. Ha dedicato ogni sua energia all'arte, fino ad esserne sopraffatto. In più, ama una donna che non può ricambiare con il medesimo ardore. Questo è il male di vivere che giorno dopo giorno si addensa su di lui, come un veleno inoculato a piccole dosi, fino a diventare letale. Esiste un rimedio? Forse sì, ma ha il sapore della rinuncia.
«Non so che cosa sia la felicità. Ma se una condizione di assenza di desiderio, di totale appagamento, di coscienza della realtà informata dalla gratitudine e dall'umiltà non assomiglia alla felicità, allora non sono curioso di conoscere tale stato d’animo.»
La sorella è un libro difficile, a tratti ostico, ma non si può non definirlo grandioso. È un’opera labirintica, a più livelli, nel senso che la prima lettura non le rende completamente giustizia, perché è impossibile coglierne subito tutte le possibili sfumature. In fondo, però, tante parole non servono; basti dire che è uno dei vertici della letteratura europea del Novecento.