26 dicembre 2018

Il vecchio, la pistola, una questione d’amore

Old man & the gun è in programmazione in questi giorni nelle sale italiane. Il film di David Lowery, su soggetto dello scrittore americano David Grann, racconta l’incredibile vicenda umana di Forrest Tucker, rapinatore incallito e re delle evasioni. Il ruolo del protagonista è affidato a Robert Redford, che ha già annunciato il ritiro dalle scene. E in effetti non poteva scegliere un’interpretazione migliore per chiudere una carriera straordinaria; il film è praticamente costruito intorno a lui, con la telecamera che indugia in intensi primi piani sul viso scavato dalle rughe e sullo sguardo sornione che esprime più di mille parole.
Nel film Forrest ha settantacinque anni ed è a capo di una banda di tre rapinatori in età da pensione. In due anni svaligiano un centinaio di banche utilizzando sempre la stessa tecnica, che non prevede l’uso della violenza; dà loro la caccia il detective John Hunt, un compassato poliziotto interpretato da Casey Affleck. La pistola, che pure dà il titolo alla pellicola, non compare praticamente mai, perché le vere armi di Tucker sono l’eleganza e il sorriso, con cui convince i malcapitati impiegati a consegnargli il denaro. L’occasione per redimersi, sia pure tardivamente, ha il volto di Sissy Spacey, deliziosa vedova che Tucker incontra per caso e con cui inizia una sincera relazione affettiva, che non riuscirà tuttavia a cambiarlo.
Uscito dal cinema, mi sono chiesto per quale ragione Forrest Tucker meriti la nostra simpatia. Si potrebbe rispondere che si tratta del fascino del male, oppure dello stereotipo del ladro gentiluomo, ma non basta. La verità è che ci attira perché è un uomo che ama. Per lui la rapina è un atto d’amore, forse non l’unico di cui è stato capace nella vita, ma certamente il più importante, il solo che lo renda davvero felice; non a caso più volte nel film si fa riferimento al sorriso, vero e proprio marchio di fabbrica delle sue scorribande. Un amore così esclusivo da sacrificare persino gli affetti, come emerge chiaramente nel sorprendente finale. A Forrest non interessano i soldi, che ammucchia senza riguardo in un vano nascosto sotto il pavimento; per lui la rapina è il beau geste, l’azione elegante, quasi nobile, che lo eleva al di sopra delle convenzioni dell’uomo medio, fino a renderlo un personaggio eccezionale, fuori dal comune. Coerente con questa visione della vita, al poliziotto che gli domanda se non esista un modo più dignitoso per guadagnarsi da vivere, egli risponde semplicemente che «io non sto parlando di guadagnarsi da vivere, io sto parlando di vivere». Attenzione però ai fraintendimenti: il film non è un’apologia del male, non passa il messaggio che i crimini siano giusti o quantomeno giustificabili. Se dunque dobbiamo rispetto a Forrest Tucker, non è per le sue malefatte; è piuttosto il rispetto che si deve ad un uomo che sacrifica se stesso per amore, per quanto non comune e perverso sia tale amore.
Per tutte queste ragioni, Old man & the gun è innanzitutto un film sulla libertà, tutto incentrato su un personaggio in sé negativo, ma delicatamente anarchico; più precisamente, è un film d’amore, una pellicola sull'amore per la libertà, il canto del cigno di un grandissimo attore e un nostalgico ritratto di un’epoca che non c’è più.
Robert Redford è Forrest Tucker (da www.film.it)

17 dicembre 2018

"La panne" di Friedrich Dürrenmatt: un delitto si trova sempre

La lettura de La panne ha confermato l’impressione che già avevo avuto con Il giudice e il suo boia: a Dürrenmatt interessavano specialmente gli aspetti patologici della giustizia umana, lo intrigavano le implicazioni distorte della funzione giudiziaria. Secondo lo scrittore svizzero, il diritto non è das Recht, la strada dritta verso la verità, quanto piuttosto una linea contorta, che può essere piegata a piacimento lungo le direttrici del giusto o dell’abuso. E mentre ne Il giudice e il suo boia la domanda è se possa esistere un delitto perfetto, ne La panne l’interrogativo riguarda la possibilità di accusare taluno di un reato che non ha mai commesso, fino a convincerlo della propria (insussistente) colpevolezza. D’altronde, uno dei principali personaggi del romanzo, il pubblico ministero, dichiara senza mezzi termini che un delitto si trova sempre, basta indagare nel vissuto di ogni uomo.
Alfredo Traps, un modesto rappresentante di commercio, è costretto a fermarsi per la notte in un villaggio svizzero, a causa di una panne alla sua automobile. Viene ospitato dall'anziano proprietario di una dimora signorile, che lo invita a partecipare ad un gioco insieme ai suoi tre più cari amici. I quattro vegliardi sono pensionati che hanno calcato le aule di giustizia nelle vesti di giudice, pubblico ministero, avvocato e boia. Il loro gioco preferito consiste nel rinverdire i fasti del passato, inscenando finti processi a personaggi storici; quando però si presenta un ospite a cena, è quest’ultimo a venir coinvolto nel gioco, in veste di imputato. Traps si sottopone volentieri alla farsa, divertito e convinto della propria innocenza. Il pubblico ministero, invece, con una requisitoria logicamente impeccabile, anche se giuridicamente infondata, finirà per inchiodarlo ad una terribile verità, convincendolo di aver commesso un turpe delitto. È a questo punto che si verifica una panne anche nel cervello del povero Traps, un vero e proprio cortocircuito emotivo che lo condurrà ad esiti tragici.
Il breve romanzo lancia diversi interrogativi e spunti di riflessione. In primo luogo, centrale è il ruolo del caso, che per Dürrenmatt è il vero gerente dei destini umani. Il fatto che dà il via ad una concatenazione di eventi irreversibili e drammatici è una semplice panne, un guasto meccanico che genera conseguenze imprevedibili. Il titolo è dunque centrale nell'analisi del romanzo, perché richiama un tema assai caro all'autore svizzero: quello dell’evento fortuito e apparentemente marginale, che diviene il fulcro di coincidenze imponderabili.
Ad una lettura più approfondita, il libro è un'acuta riflessione sulla sacralità della giustizia, un affare troppo serio per diventare oggetto di giochi o spettacoli. Ed è proprio questo l’aspetto di più stretta attualità del romanzo; viviamo in un’epoca che ha fatto dei processi mediatici un vero e proprio affare milionario, ad uso e consumo di spettatori del tragico che cercano nella condanna altrui una catarsi dalle proprie meschinità. Dürrenmatt, sia pur involontariamente, anticipa i tempi e vuole dirci che la sala da pranzo del giudice in pensione, così come i moderni studi televisivi, non sono aule di udienza. Eppure, allo stesso modo e con la stessa effettività, possono decidere i destini umani. Sta dunque a noi, alla nostra intelligenza e sensibilità, fare in modo che ciò non accada.

4 dicembre 2018

"Nessuna resa mai": un manifesto del rock italiano

Nessuna resa mai non è solo il titolo del secondo album di Massimo Priviero, uscito nel 1990. È piuttosto il manifesto di un artista che ha avuto la coerenza e il coraggio di non conformarsi alle dinamiche del mercato e di seguire la propria strada, anche a costo di rinunciare ad una più ampia popolarità. Nessuna resa mai è dunque prima di tutto uno slogan, divenuto negli anni titolo onorifico, a garanzia di una musica indipendente e senza compromessi.
Grande era l’attesa intorno a Priviero quando il disco uscì, dopo gli ottimi riscontri di pubblico e di critica che aveva suscitato il lavoro d’esordio, San Valentino (1988). Il musicista si presentò alla seconda prova con il peso di una grande responsabilità sulle spalle; basti pensare che l’etichetta discografica, la Warner, si prodigò parecchio nella produzione e nella promozione del nuovo LP dello “Springsteen italiano”. Non a caso, produzione e arrangiamenti furono affidati al grande Little Steven, storico chitarrista della E Street Band, chiamato direttamente dagli Stati Uniti per definire e perfezionare il suono. Little Steven suonò anche le parti di chitarra acustica in diversi brani, assieme ad una formazione di tutto rispetto che comprendeva, tra gli altri, Lele Melotti alla batteria, Lucio “Violino” Fabbri e Flavio Premoli alla fisarmonica.
Nove le tracce. Apre Angel, una classica ballata rock con le chitarre in evidenza, che fa da preludio all’incalzante Dormirò (quando sarò morto), in cui Priviero sfodera il suo piglio aggressivo. Un discorso a parte merita la celebre title-track, un vero e proprio inno che incita a seguire la propria strada senza arrendersi. Egualmente ispirate le ballate prevalentemente acustiche, come La storia di Jerry e la conclusiva Un amico irlandese. Priviero racconta la vita vera, non fa politica e non è il menestrello di un’ideologia; nel solco della tradizione del rock di oltreoceano, la strada è la vera protagonista del disco, crocevia di storie e abbandoni (Un amico irlandese), cornice di una vita ai margini (Suonando sui marciapiedi) o di vicende di emigrazione (La storia di Jerry). Il suo è un rock senza fronzoli, ammansito dal gusto della melodia, in cui predominano le chitarre acustiche ed elettriche. Il linguaggio, essenziale e diretto, contribuisce a definire il quadro d’insieme del disco, forse poco incisivo in alcuni punti, ma certamente coeso dall’inizio alla fine.
“Steven, non ho parole per dirti grazie”, scrive Priviero nei ringraziamenti dell’album, a voler rafforzare l’impronta decisiva del musicista e produttore italo-americano. Se certamente la mano di Little Steven si fa sentire negli arrangiamenti, la buona riuscita del disco è dovuta principalmente alle doti di scrittura di Priviero, capace di allontanarsi dalla gabbia del cantautorato italiano per intraprendere una strada innovativa e in salita. Nessuna resa mai è un LP che in alcuni momenti risente un po’ del peso degli anni, ma a distanza di quasi sei lustri resta uno dei pochi pilastri del rock cantato in italiano, o meglio, di una certa canzone rock all’italiana.
 La copertina dell'album
Massimo Priviero e Little Steven (foto tratte dalla busta interna del disco)