23 maggio 2019

Massimo Priviero e il racconto di una vita (con un'intervista)

Amore e rabbia, l'autobiografia di Massimo Priviero, è uscita il 30 aprile per i tipi della Vololibero Edizioni. Ho detto autobiografia, ma sarebbe meglio parlare di un romanzo nella forma di memoriale. L'introduzione è di Matteo Strukul, che già qualche anno fa aveva curato una biografia del musicista. Per saperne di più, seguite il blog dedicato al libro, con approfondimenti, estratti e continui aggiornamenti. Inoltre, a conferma della vocazione di artista vicino al suo pubblico, una sezione del sito ufficiale è dedicata alle recensioni dei lettori.
Priviero è uno dei pochi veri rocker nostrani. Ha esordito nel 1988 con San Valentino, cui ha fatto seguito Nessuna resa mai (1990), che si è avvalso della produzione di Little Steven. Dopo tanti anni su e giù dai palchi e altri album, a novembre ha festeggiato i primi trent'anni di carriera con un concerto/evento a Milano; il libro è un altro fondamentale tassello dell'importante ricorrenza.
Vorrei iniziare partendo dal sottotitolo, che è semplicemente “il racconto della mia vita”. Ritengo che la parola “racconto”, oltre a rendere l'idea del ritmo dell’opera, si adatti bene all'autore, sia cioè plasmata intorno alla sua concezione del fare canzone, così simile a quella dei cantastorie, che per l'appunto declamavano veri e propri racconti in versi. Il titolo è Amore e rabbia, a descrivere efficacemente le due anime di un'intera carriera. L'amore è il sentimento per eccellenza, rivolto non solo agli esseri umani, ma anche alla musica, così immateriale eppure capace di diventare ragione di vita. È dunque (anche) l'amore per Dylan e Springsteen, gli inevitabili maestri e punti di riferimento. La rabbia è un sentimento altrettanto intenso, il marchio di fabbrica di ogni rocker che si rispetti; non si tratta solo di ribellione giovanile, ma più in generale della capacità di saper vedere oltre le verità preconfezionate e di mantenere un punto di vista personale eppure equilibrato sulle storture del mondo che ci circonda. Il titolo mi ha riportato alla mente la «rabbia come passione d’amore» di cui parlava il grande scrittore milanese Carlo Castellaneta: due sentimenti apparentemente distanti, ma che ben possono costituire ottime ragioni per campare. Le due anime di Priviero sono riassunte nella quarta di copertina, dove si parla della «fotografia di un uomo felicemente fuori dagli schemi: non etichettabile, che […] ha tenacemente seguito per trent'anni la sua vocazione in costante equilibrio tra musica e poesia».
A differenza di molti libri simili, Priviero compie un'operazione più complessa e, se si vuole, ambiziosa: non racconta solo se stesso e la propria famiglia, ma ricostruisce abilmente un pezzo di storia (e di provincia) italiana, con la consapevolezza di chi l'ha vissuto e l'intelligenza di chi ha saputo interpretarlo. Non mancano i riferimenti alla società, alla storia recente, alla politica, le riflessioni ironiche e commoventi, i giudizi aspri e senza infingimenti di un artista che è prima di tutto un uomo libero. E anche quando ci parla del mondo della musica, lo fa dalla prospettiva privilegiata di chi nuota da oltre trent'anni in quel mare, cercando di evitare le correnti inquinate per trovare una propria oasi pulita.
Non è facile scrivere di sé, perché è pur sempre un modo di mettersi a nudo, soprattutto se si è portatori di verità scomode. Per questa ragione non è un caso che Priviero abbia scritto il libro durante una pausa dagli impegni musicali, in inverno, in riva all'Adriatico; un'operazione al tempo stesso rievocativa e terapeutica.
Personalmente ho sempre amato le autobiografie dei musicisti, forse perché invidio un po' la loro vita errabonda on the road, la possibilità di entrare in contatto con tante persone e, soprattutto, di essere apprezzati e ricordati per il lavoro che amano. Che forse, come testimonia Massimo, è anche uno dei più difficili al mondo.

Segue l'intervista che Massimo mi ha gentilmente concesso in occasione della pubblicazione del libro. Lo ringrazio per la disponibilità e vi lascio alle sue parole.

Domanda. Ho sempre pensato che l'autobiografia sia al tempo stesso un modo per farsi conoscere dagli altri e per conoscere meglio se stessi. Forse perché scrivendo si attua una sorta di distacco, e si possono vedere le cose secondo un'altra prospettiva. Quanto hai “scoperto di te stesso” raccontandoti agli altri?
Risposta. Sai, ho scritto senza pensare che quel che facevo dovesse per forza essere pubblicato. Non ho neppure cercato un editore. Solo questa cosa ha dato un taglio diverso a tutto. Questo per esempio ha tolto alcuni veli possibili. Non c'è fiction, diciamo, non c'è inganno. Ho guardato lo specchio, meglio sarebbe dire ho guardato i riflessi delle onde del mare dove sono cresciuto e il racconto ha preso forma da solo. Forse guardando non ho scoperto cose nuove, ma ho toccato quel che in gran parte sapevo con anima chiara. Forte e fragile allo stesso tempo come io sono.

D. Puoi parlarci brevemente della gestazione del libro? Scriverlo è stato come un fiume in piena, oppure è il frutto di lunghe meditazioni?
R. Scriverlo è stato parecchio un flusso emotivo ben poco arrestabile. Poi, ad un certo punto, chiaro che lasci decantare tutto qualche mese e rimetti le mani con un po' di razionalità. Sono stato più a lungo del solito nel tratto di costa veneta dove sono cresciuto e poi ho immaginato di fermarmi lì per qualche mese, per riannodare i fili della mia vita. Ho incominciato a scrivere. Questa volta una storia che non prevedeva la musica. Il resto è venuto di conseguenza.

D. Sei conosciuto come un artista schietto, che ha fatto della sincerità la strada maestra di un'intera carriera. Anche nel libro non ti sei certo risparmiato, raccontando la tua versione delle cose. Sei soddisfatto del risultato? E soprattutto, pensi che il libro ti rispecchi, così come ti rispecchiano i tuoi dischi?
R. Sono essenzialmente un uomo libero. Che dice quel che pensa considerando poco le conseguenze di questo, tanto più in un paese assai conformista e parecchio corrotto culturalmente e umanamente come il nostro. Ho raccontato la mia vita e il mondo dove sono cresciuto, prima e dopo i dischi e i concerti. Sì, Amore e Rabbia è tanto di quel che sono. Cadute e ripartenze. Sogni e idealità. Forza e fragilità. Non parlo mai di medaglie né di premi che ho pure preso, per esempio. Non accuso. Darei in quel modo a qualcuno un peso nella mia vita che non meriterebbe di avere, e questo non mi interessa per niente. Traccio un quadro. Senza sconti a me stesso. Ma anche probabilmente con un po' di orgoglio.

D. Il titolo, come ho scritto nella recensione, mi fa pensare ai due perni intorno a cui ruota la tua carriera: la volontà di raccontare i sentimenti e la capacità di arrabbiarsi per quanto non va su questa terra. Perché hai scelto, tra i tanti possibili, proprio un titolo così suggestivo?
R. L'amore e la rabbia sono da tradurre soprattutto in un ambito che chiameresti esistenziale. Sono due sentimenti che nella mia vita si sono alternati spesso. Sono concetti forti, parecchio totalizzanti se mi passi il termine. Ho spesso cercato un punto di equilibrio tra questi due aspetti che hanno timbrato il mio posto nel mondo. Qualche volta mi è riuscito di trovarlo. Altre volte ho alzato le mani, ma sono comunque andato avanti. Vivere è un mestiere talvolta parecchio difficile ma che resta meraviglioso.

D. Sono previste delle presentazioni del libro, oppure altre iniziative legate alla sua promozione?
R. Guarda, abbiamo un piano di presentazioni che prevede una trentina di appuntamenti solo nei primi due mesi. Mi piace molto incontrare la gente in questa nuova modalità. Mi piace che ci guardiamo negli occhi prima di tutto. Molte mie canzoni sono entrate dentro l'esistenza della gente che mi è vicina. Voglio anche dir loro grazie. Sperando di essere all’altezza del loro  amore.
Per approfondimenti, http://www.priviero.com/

16 maggio 2019

Ispirarsi al passato per costruire il presente: "Crocodiles"

Parafrasando Jerome K. Jerome, potrei dire che la recensione parla di tre uomini e una scatola. Leggenda vuole che Echo fosse il nomignolo dato da Ian McCulloch ad una drum-machine; i Bunnymen erano lo stesso McCulloch (voce e chitarra), Will Sergeant (chitarra solista) e Les Pattinson (basso). Originari di Liverpool, vissero un po' in disparte la scena punk, che aveva in Londra e Manchester i centri nevralgici. Quando però anche a Liverpool aprì un locale di nuova tendenza, l'Eric Club, gli acerbi Bunnymen, tre uomini e una macchina per l'appunto, cominciarono ad esibirsi raccogliendo i primi modesti successi. Notati dalla Korova Records, mandarono in pensione la batteria elettronica e ingaggiarono un vero batterista, Pete de Freitas. La formazione così composta registrò Crocodiles ai Rockfield Studios di Monmouth, in sole tre settimane nel 1980. Il risultato è eccellente, per essere un album d'esordio.
Avere a disposizione il mare magnum di internet non ha fatto venire meno una mia vecchia abitudine. Ogni volta che acquisto, o sto per acquistare, un disco, consulto il fedele Dizionario del pop-rock del 2006 di Tonti & Gentile, testo sacro perché riesce a condensare in poche battute il senso più profondo degli album di artisti più o meno famosi. Crocodiles è definito il «rifondatore della Psichedelia liverpooliana», che «sembra guardare ai Doors e all'America underground dei Sixties». La definizione coglie nel segno, perché Crocodiles è un disco zeppo di felici rimandi, che ha nella psichedelia degli anni Sessanta il primo e ovvio campione di riferimento. Si ascolti Going up, che all'inizio sembra degli Electric Prunes e va avanti come una canzone dei Love. Certo il sapore eighties si sente, ma un pezzo così non avrebbe sfigurato in I had too much to dream o nel monumentale Forever changes, che pure lo precedono di una quindicina d'anni. Oppure prendete Pride, che starebbe bene in S.F. Sorrow dei lisergici Pretty Things, senza se e senza ma.
Tuttavia, se limitassimo il giudizio a questi elementi, non si coglierebbe l'originalità del progetto, che va al di là della derivazione psichedelica o neo-psichedelica, che dir si voglia. Echo and The Bunnymen si muovevano infatti nel solco della new wave di terra d'Albione, calderone eterogeneo in cui convivevano le ossessioni dei Joy Division e dei Sound, gli echi neoromantici degli Chameleons, le sperimentazioni elettroniche di Japan e Ultravox, le divagazioni swing dei Comsat Angels e la claustrofobia dei primi Cure. Echo and The Bunnyman, seguendo la direttrice delle chitarre acide e delle melodie dolcemente perverse, raspavano a piene mani nel recente passato, rileggendolo in un'ottica cupa, convulsa e malinconica, come dimostrano i testi. Crocodiles resta un disco meraviglioso a distanza di quasi quarant'anni proprio per la capacità di mantenere un occhio al passato senza esserne tuttavia ancorato, ad ulteriore dimostrazione di quanto la nuova onda fosse feconda di innovazioni, ben più del punk dal quale pure derivava.  
Crocodiles è un disco così compiuto che è arduo preferire una traccia rispetto alle altre. Probabilmente i picchi sono Picture on my wall e Villiers terrace, che portano il segno dei Bunnymen più delicati e malinconici. Personalmente preferisco la canzone che dà il titolo al disco, nonché la meravigliosa Stars are stars, che condensa richiami psichedelici con un testo tipicamente wave: «Now you spit out the sky / because it's empty and hollow. / All your dreams / are hanging out to dry. / Stars are stars / and they shine so cold».
Il disco è stato ristampato in diversi formati, anche in vinile. La versione più completa resta comunque quella in cd del 2003 della Warner, perché contiene dieci tracce bonus tra versioni alternative e dal vivo, oltre all'EP live Shine so hard.

6 maggio 2019

"La grande mattanza" di Enzo Ciconte: il Brigantaggio, male cronico del Meridione

Di libri sul Brigantaggio ne sono stati scritti molti, secondo le prospettive più disparate. Alla letteratura agiografica dei primi anni dopo l'Unità, tendente a dare un'immagine eroica e senza macchia del Risorgimento, hanno fatto seguito una serie di volumi più aderenti alla realtà dei fatti, attenti alla ricostruzione delle vicende per come sono state, senza edulcorazioni ideologiche. Ha poi avuto un certo riscontro la corrente revisionista di stampo meridionalista, se non addirittura neoborbonico, che sostiene la tesi – in parte condivisibile, a parere dello scrivente – secondo cui l'unificazione del Paese sarebbe avvenuta ad esclusivo danno del Sud, trattato al pari di una colonia. Indipendentemente dai punti di vista contrapposti, non bisogna tuttavia dimenticare che la società meridionale, già prima dell’Unità, era arretrata, stritolata da una borghesia miope e priva di slanci, da una burocrazia inefficace e corrotta, con larghi strati della popolazione che boccheggiavano appena al di sopra del limite della sopravvivenza. Mali oscuri, mali antichi, mai del tutto superati. Si dovrebbe partire da questi dati per costruire finalmente un “Meridionalismo intelligente”, slegato da prese di posizione aprioristiche di stampo “leghista”, capace di leggere oltre i dati statistici, in grado di affrontare un discorso più complesso e avvincente.
Il saggio di Enzo Ciconte, La grande mattanza, uscito nel 2018 per i tipi degli Editori Laterza, intraprende proprio questa terza strada. L'Autore studia il fenomeno del Brigantaggio senza prendere le parti di uno dei contendenti, mantenendo una stretta aderenza ai fatti. La sua è una prospettiva de-ideologizzata, che lascia al lettore ampia libertà di analisi. Ciconte segue la scia del sangue; già il titolo è in tal senso una chiara lettera d'intenti. La lotta contro il Brigantaggio è raccontata senza nulla tacere degli episodi più crudi: le fucilazioni sommarie, la decollazione dei nemici, l'esposizione dei corpi mutilati come monito, le torture, gli eccidi di massa come quelli tristemente celebri di Pontelandolfo e Casalduni.
Al di là del racconto postunitario, La grande mattanza è prevalentemente un'indagine retrospettiva. È la storia della repressione perpetrata in Italia contro banditi e briganti dal Cinquecento al 1870. Come efficacemente riassunto nella quarta di copertina, è «il racconto di tre secoli di violenze efferate compiute soprattutto nel Meridione». Il saggio può infatti essere diviso in due parti. Nella prima, vengono analizzati i primordi del fenomeno del banditismo, non solo al Sud, arrivando fino alle repressioni adottate dagli Stati preunitari. Nella seconda parte, più corposa, sono trattati gli eventi successivi al 1860. Grazie al confronto tra epoche diverse, l'Autore mette in evidenza le costanti del fenomeno, per quanto concerne cause e rimedi. È allora sorprendente scoprire che l'origine del banditismo è sempre la medesima in tutte le epoche: le rivendicazioni rurali dovute alla mancata distribuzione delle terre. Ugualmente sorprendente è scoprire le costanti dei meccanismi repressivi: stragi, processi sommari, corruzione, amnistie, tradimenti, uso indiscriminato del bastone o della carota. Sempre così, dagli Aragonesi ai Savoia, passando per i Borbone e Gioacchino Murat.
A mio avviso è possibile muovere due elogi e una critica al saggio di Ciconte. Il primo punto di forza è rappresentato dall'analisi degli aspetti giuridici; molto interessanti sono infatti le pagine in cui l'Autore concentra la sua attenzione sull'illegalità dell'operato dei militari piemontesi nel Sud Italia. Ciconte spiega esaurientemente la difformità delle procedure attuate rispetto alle norme vigenti e allo Statuto Albertino, nonché il pervicace contrasto tra magistratura ed esercito, la prima garantista e il secondo spietato e illiberale. Per approfondire gli aspetti giuridici, Ciconte fa ampio uso di stralci di lettere e memoriali dell'epoca; la trascrizione e il successivo commento di queste fonti è il secondo punto di forza del libro. D'altro canto, però, alcune parti del saggio soffrono di una carenza di approfondimento, in quanto si limitano a snocciolare una serie impressionante di dati, nomi e vicende, tanto che spesso ho avuto l'impressione di smarrirmi nella lettura, perdendo il filo del discorso complessivo.
Il libro può essere apprezzato anche da quanti hanno già letto tutto (o quasi) sul Brigantaggio, specialmente per l'excursus storico sulle origini del fenomeno, dal XVI secolo in poi. Quanti invece hanno conosciuto superficialmente tali vicende solo dai libri di scuola, dovrebbero leggerlo, per scoprire che la cosiddetta lotta al Brigantaggio è stata in verità una pagina infamante della storia italiana, una vera e propria guerra civile, un massacro in parte ingiustificato, mascherato dietro l'apparenza della ragion di Stato. Una vicenda esemplare, che purtroppo non costituirà un unicum nella nostra storia unitaria.