21 settembre 2018

Quando più della musica poté la copertina

Con gli anni è cambiato decisamente il modo di acquistare i dischi. L’avvento di internet ha semplificato le cose, annullando tuttavia la magia e l’ansia della scoperta che provavo quando portavo a casa un album solo perché mi aveva ispirato la copertina, senza sapere nulla del gruppo o del genere suonato. Lo smartphone consente di sapere tutto in pochi secondi: se ti imbatti in un disco sconosciuto, basta digitarne gli estremi su Google o Discogs per avere giudizi, recensioni e tutte le informazioni di cui hai bisogno. Prima non era così; se non avevo già programmato un acquisto, spesso mi affidavo al fiuto, o meglio alla vista. Sono molti i dischi che ho comprato perché ispirato dalla copertina. A volte si è trattato di una piacevole rivelazione, altre un fallimento. Questi sono i casi a cui sono più legato.
Affinity – Affinity – 1970
Anche a distanza di anni, la meravigliosa copertina apribile del primo, omonimo e unico LP degli Affinity mantiene la medesima suggestione che mi spinse a comprarlo. Non avevo mai sentito parlare di questo gruppo minore della scena prog-jazz inglese degli anni Settanta, ma rimasi praticamente folgorato dall’immagine di copertina. Ritrae uno scorcio autunnale di campagna inglese, di una bellezza placida e malinconica. Una ragazza (forse la cantante Linda Hoyle?) è seduta in primo piano sul bordo di uno stagno, in atteggiamento cogitabondo e con un ombrellino cinese a proteggerla dalla pioggia sottile. Non vediamo il suo viso, non sappiamo se piange o è semplicemente assorta. Dispiegando l’immagine completa, appaiono a sorpresa due cigni che beccheggiano placidamente nell’acqua, attenuando il senso di solitudine che la scena ispira. Pura poesia.
[I credits riportano “Album designed and photographed by Sandy Field and Keef”]

Biglietto per l’inferno – Live 1974 – 2003
Avevo diciannove anni e non so dire se a colpirmi fu più l’immagine o il nome del gruppo. All’epoca mi sembrava strano che una band nostrana avesse avuto l’ardire di chiamarsi Biglietto per l’inferno. Doveva trattarsi di qualcosa di particolare, a giudicare anche dalla foto di copertina, uno scatto rubato durante un concerto, dal retro del palco. È un’immagine di spontanea immediatezza, che restituisce il clima di un’epoca purtroppo lontana, l’età d’oro del progressive nostrano. Una forte luce dal fondo nasconde il pubblico e illumina due membri del gruppo. In primo piano il tastierista, impegnato al sintetizzatore. Oltre un intrico di cavi si intravede la batteria, mentre sulla destra c’è il cantante Claudio Canali, seduto sopra una bassa seggiola. Niente lustrini o effetti speciali: solo musica e sudore.
[I credits non riportano l’autore della fotografia]

Japan – Tin drum – 1981
I Japan li conoscevo superficialmente per averne ascoltato qualcosa alla radio. Il loro synth pop non mi aveva entusiasmato, così come lo stile dell’efebico David Sylvian. Quando però mi sono imbattuto nella copertina di Tin drum ho accantonato le prime superficiali impressioni e ho acquistato il disco. Si tratta di un’immagine evocativa, perfetta nella sua costruzione. Un azzimato e platinato Sylvian è seduto al povero desco di una casa della campagna cinese. Una nuda lampadina illumina debolmente lo spazio, evidenziando gli altri oggetti: una scodella di riso, un tipico cappello a cono di paglia, il Libretto Rosso, pochi essenziali utensili. Appesa malamente al muro, un’immagine del Grande Timoniere Mao sorveglia la scena, conferendole un senso straniante di paradossale solennità e mestizia. Resta aperta la domanda: cosa ci fa un occidentale vestito di tutto punto, per giunta a capo di un gruppo chiamato Japan, a mangiare riso con le bacchette in una misera casupola cinese, guardato a vista da Mao? Uno straordinario gioco degli opposti, che stupisce e incuriosisce.
[I credits riportano “Cover concept D. Sylvian, Design Steve Joule, Photography Fin Costello”]

Rare Earth – The collection – 2004
Avete presente quei cestoni negli ipermercati pieni di cd in ordine sparso, buttati confusamente come se fossero stati rovesciati da un tir in corsa? Difficile trovare qualcosa di decente, ma vale sempre la pena dare un’occhiata distratta. La roba buona viene fuori da sé, magari rimestando con violenza senza farsi vedere dai commessi. Così ho trovato questa compilation dei Rare Earth, spinto da una copertina forse non bellissima, ma sicuramente curiosa. Si tratta di una soluzione grafica di matrice folk, con le teste dei sei membri del gruppo che spuntano dalle radici di un grosso tronco. Può piacere o meno, ma a me ha dato un’impressione esoterica, di un gruppo ancestrale e misterioso. L’ascolto del disco ha mutato la prima idea, in quanto i Rare Earth erano una validissima band di soul bianco sotto contratto con la Motown. In ogni caso, una piacevole scoperta casuale.
[I credits non riportano l’autore del disegno di copertina]

Solid Senders – Solid senders – 1978
Obiettivamente non è una copertina “bella”, nè originale o suggestiva. Un livido sfondo da periferia industriale e la band in primo piano. Eppure mi ha colpito perché l'unico e omonimo LP dei Solid Senders era buttato alla rinfusa in uno scatolone di dischi usati pieno di ciarpame, soprattutto dance e pop di bassa lega. Questo disco era invece diverso da tutti gli altri, mi ricordava vagamente Marquee moon dei Television. L’ho dunque acquistato alla cieca, senza avere la più pallida idea di chi fosse il chitarrista e leader Wilko Johnson, che dalla copertina ti fissa con uno sguardo folle di sfida e un atteggiamento tra il serio e il minaccioso, una sorta di Tom Verlaine meno emaciato e più incazzato.
[I credits riportano “Sleeve design Andrew Judd”]

10 settembre 2018

La probabile origine etrusca del nome "Cilento"

Lo studio dei toponimi può offrire preziose informazioni sulle origini e le vicende storiche di un territorio. Il ricercatore Fabio Astone, dell’Università di Salerno, ha pubblicato nel 2012 sulla rivista Annali Storici di Principato Citra (X, 1, pp. 5 ss.) un interessante saggio sul significato del nome Cilento, intitolato «Alle origini del toponimo Cilento: la fondazione di Poseidonia ed i Tirreni-Etruschi del golfo di Salerno. Riflessioni ed ipotesi».
Il saggio, sulla base di lunghe ricerche archeologiche e con il supporto di una corposa bibliografia, sostiene la tesi dell’origine etrusca del nome Cilento. L’Autore parte da due considerazioni. In primo luogo, evidenzia che il toponimo Cilento comparve per la prima volta nel corso del Medioevo, in un documento amministrativo del 1134 noto come Actus Cilenti, oggi conservato presso la Badia di Cava. In precedenza, la regione era conosciuta come Lucania (minor), né risulta che il termine Cilento sia mai stato utilizzato da Greci, Romani o Italici. In secondo luogo, l’Autore, richiamando una tesi già esposta dal professor Aversano, afferma che la tradizionale ricostruzione etimologica del nome, che deriverebbe da cis-Alentum, ovvero “al di qua dell’Alento”, non appare del tutto soddisfacente, in quanto non sufficientemente specifica.
Sulla base di queste premesse, Fabio Astone dedica la parte centrale del saggio allo studio della presenza etrusca nel territorio cilentano. Viene così offerta un’ampia ricostruzione, suffragata da riferimenti storici, letterari ed archeologici, tesa a dimostrare che non solo gli Etruschi si spinsero anche a sud del fiume Sele, ma che sarebbe attestata la loro presenza persino a Paestum e Velia. In particolare, per quanto riguarda Poseidonia, molti sono gli elementi culturali e materiali di tipo tirrenico, che addirittura farebbero pensare che all’origine della polis vi fossero accordi tra i Sibariti, che secondo la tesi più accreditata avrebbero fondato la città, e i potenti Etruschi che occupavano la zona più a nord, corrispondente all’attuale Pontecagnano. Scrive infatti l’Autore che «allo sbocco dei ricchi itinerari commerciali che dalle valli fluviali dell’Enotria interna giungevano al centro della feracissima pianura attraversata dal Sele, i Sibariti, forse in ossequio ad accordi che, come ipotizzato, dovevano aver raggiunto con i potenti partner etruschi di Pontecagnano, riuscirono, finalmente, a fondare Poseidonia». L’Autore si diffonde sulle testimonianze etrusche rinvenibili nella città di Paestum, quali il cd. “sacello ipogeico”, oppure la celeberrima “Tomba del tuffatore”, che secondo alcuni studiosi non costituirebbe l’unica superstite della pittura greca, ma «l’esito più meridionale della diffusa, notissima pittura funeraria etrusca».
Nella parte finale del saggio, sulla base di tutte le premesse esposte, viene dunque ipotizzata l’origine etrusca del toponimo Cilento, al pari di molte altre località dell’Italia meridionale, campane in particolare. L’Autore concentra la propria attenzione su uno dei più celebri reperti dell’età etrusca, il c.d. “fegato di Piacenza”. Si tratta di una lastra di bronzo che riproduce il fegato di una pecora, suddivisa in più parti con i nomi di varie divinità incisi; si pensa che l’oggetto venisse utilizzato dai sacerdoti per finalità divinatorie. Il modello riporta per ben tre volte il nome Cilens, un’importante divinità etrusca. Conclude dunque Fabio Astone che «è interessante evidenziare l'immediata analogia che si coglie tra il nome della divinità etrusca Cilens ed il toponimo Cilento. Una suggestione fonologica che poteva restare solamente tale, tout court; l'insieme delle argomentazioni fin qui affrontate ha però creato le condizioni per avanzare possibili ipotesi. Si tratta di riflessioni che, oltre ad essere supportate dalle odierne conoscenze relative agli antichi contatti tra i Tirreni e le terre a sud del Sele, trovano, ad esempio, ulteriori, indicativi spunti nella denominazione attuale di alcune macroaree. La geografia degli Etruschi ha condizionato gran parte dell’Italia antica, ed ancora oggi se ne serba il ricordo: il mare Adriatico prende il nome dalla città etrusca di Adria, ed il mare Tirreno è così detto perché Tirreni erano chiamati gli Etruschi dai Greci». È allora possibile ipotizzare che il nome Cilento abbia un’origine tirrenico-etrusca, rispondente al nome di un’antica divinità, che certamente doveva essere centrale nel pantheon etrusco, al punto da venire riportata su un oggetto divinatorio quale il c.d. “fegato di Piacenza”.
Consiglio a tutti di leggere il saggio, disponibile anche in rete, in quanto di sicuro interesse per molte ragioni, prima di tutto per lo stile scorrevole e coinvolgente con cui è scritto.
Il c.d. "Fegato di Piacenza" (immagine tratta da commons.wikimedia.org, autore Lokilech)