28 ottobre 2021

"Hibernation": suoni dalla città di ghiaccio

Tempo fa, recensendo il primo e unico disco dei Mercenaries di Claudio Dentes, utilizzai l'espressione “nostrani ma strani”, a significare l'eccentricità del gruppo nel panorama musicale italiano. La definizione ben si adatta ai Chrisma (poi Krisma), forse il più celebre e riuscito esperimento del synth-pop nazionale, un nome che non ha bisogno di presentazioni. La vicenda è nota: Maurizio Arcieri, già icona beat coi New Dada e modello di fotoromanzi, conobbe e sposò la svizzera Christina Moser; il duo prese il nome di Chrisma, dalle loro iniziali. Esordirono con un repertorio leggero di gusto danzereccio, per essere poi folgorati dal punk in quel di Londra. Il resto è storia: la pubblicazione di Chinese restaurant, il tentativo di portare in Italia il genere elettronico, l'equivoco di chi li scambiò per filonazisti, Maurizio che si tagliò un dito durante un concerto come risposta alle contestazioni. Al di là degli aneddoti, è indubbio che il duo abbia avuto una certa popolarità e diversi passaggi televisivi, a differenza di altri gruppi wave nostrani che pure cantavano in inglese, come Neon o Frigidaire Tango. Al successo ha contribuito molto la fama di coppia inossidabile, lei meravigliosa come una diva d'altri tempi, lui un bello da fotoromanzo. Ma i Chrisma erano tutt'altro che apparenza: sostanza pura e talento limpidissimo.

Si ascolti Hibernation, anno di grazia 1979, il loro secondo disco. Dentro c'è tutta l'essenza dei Chrisma: il punk, l'elettronica, i cosmici tedeschi, la new wave più algida e sperimentale. Una combinazione vincente, un suono al contempo decadente e futurista che oscilla tra Londra e fascinazioni mitteleuropee. Hibernation appunto, a indicare una musica fredda, spersonalizzata, algida. Il disco fu prodotto da Niko Papathanassiou, fratello del più noto Vangelis, con Dave Marinone quale ingegnere del suono, già collaboratore de Le Orme e Vecchioni. La copertina di Mario Convertino è splendida, sensuale e futuristica, tra le migliori del rock italiano. In sala di registrazione, oltre a Maurizio (voce e tastiere) e Christina, c'erano Ezio Vevey alla chitarra (dalla Locanda delle fate), Papathanassiou ai sintetizzatori e il grande Lucio Fabbri col suo violino (in Rush '79 e We r.).  
L'esordio di Calling è un perfetto esempio di electro-punk: un tappeto sghembo di sintetizzatori e la voce salmodiante di Arcieri, un andamento incalzante che potrebbe andare avanti all'infinito. Aurora B., la seconda traccia, è un capolavoro. Da dove cominciare? Dal piano su cui si innestano rimasugli di elettronica, dalla voce di Christina che è essa stessa un'interpretazione del testo, dagli struggenti violini o dalla fisarmonica che fa capolino in coda? Le parole non possono rendere l'idea: basti dire che è un brano raffinatissimo, dalle tonalità new romantic, forse il vertice della produzione italiana. Il primo lato si chiude con Hibernated nazi, in cui i Chrisma giocano con l'equivoco e ci regalano un pezzo che non avrebbe sfigurato in Before and after science di Brian Eno. A sorpresa, la seconda facciata alza ancora l'asticella. Fenomenale Gott gott electron, che all'epoca fu lanciato come singolo. L'incedere è marziale e algido, nello stile dei Kraftwerk; la voce di Maurizio è robotica, mentre Christina aggiunge un tocco caldo, umanissimo. La successiva We r. è un'evoluzione del sexy sound che li lanciò nel 1976, virato stavolta verso territori elettronici. Il testo è intrigante e due versi rendono bene l'idea: «she looks so chaste / putting on the leather mask». Infine, So you don't e Lover sono due cavalcate elettriche con la chitarra di Vevey in evidenza; è post-punk ai massimi livelli, che anticipa una tendenza che un paio d'anni dopo sarà il marchio di fabbrica dei primi Sound di Jeopardy.
Il disco è stato ristampato in vinile nel 2015 dalla Spittle Records, per cui è facilmente reperibile senza svenarsi. In un'epoca come la nostra, così povera di fantasia, Hibernation può ancora dire la sua. Electro-punk e synth-pop sembrano appartenere a epoche remote, eppure questo LP viene direttamente dal futuro.
La celebre copertina di Mario Convertino
Retro del 33 giri

15 ottobre 2021

"La Bibbia al neon" di John Kennedy Toole: ombre dalla provincia americana

Fino a una settimana fa non sapevo neppure chi fosse John Kennedy Toole, né l'avevo mai sentito nominare. Faccio ammenda e riconosco che la mia conoscenza della letteratura americana della seconda metà del XX secolo è piuttosto limitata: Kerouac, Fante, Burroughs e qualcun altro. Il nome di Toole si è aggiunto alla ristretta schiera dopo la lettura de La Bibbia al neon, pescato per caso su una bancarella di libri usati. La scelta, per quanto casuale, si è rivelata così azzeccata che ho deciso di procurarmi l'altro suo libro, Una banda di idioti, recensito entusiasticamente da critica e pubblico. Ho scritto “l'altro” e non “un altro” suo libro, perché John Kennedy Toole è autore di due romanzi, per giunta pubblicati postumi. Si suicidò nel 1969, all'età di trentadue anni, senza aver dato alle stampe un solo volume; fu per la caparbietà della madre e l'intercessione dello scrittore Walker Percy se nel 1980 Una banda di idioti vide finalmente la luce nelle librerie americane.

La prima edizione de La Bibbia al neon risale invece al 1989, anche se in realtà è il primo libro di Toole in ordine cronologico. L'autore lo ultimò all'età di sedici anni, giudicandolo troppo acerbo e ingenuo per poter essere pubblicato. Sorge dunque un dilemma: se sia giusto dare alle stampe un volume contro la volontà del suo autore. Se infatti Toole tentò di far pubblicare Una banda di idioti, chiuse invece in un cassetto il suo precoce esordio. Ovviamente non è possibile dare una risposta univoca; di certo l'iniziativa fu presa dalla madre, per cui si presume che abbia fatto la scelta più rispettosa della memoria del figlio. Al di là di questo aspetto, è fuor di dubbio che sarebbe stato un peccato se questo libro non fosse mai esistito. Certo ci sono delle ingenuità, sicuramente si nota una giovanile esuberanza senza freni, eppure, se venisse offerto in lettura a scatola chiusa, sono certo che nessuno lo bollerebbe come un prodotto adolescenziale. La Bibbia al neon forse non è un grande romanzo, nondimeno è egualmente memorabile. Sfido molti degli autori a noi contemporanei a diffondersi in pagine di così sofferta intensità emotiva, nella descrizione lucida e commossa di un travaglio interiore che non ha risposte.
Io narrante e protagonista è David, un bambino che vive in una piccola contea della Louisiana, nella bigotta e sonnolenta provincia americana. A vegliare sui costumi e sulla moralità degli abitanti ci sono le supreme autorità di un ancien régime stantio e polveroso, eppure ancora duro a morire: lo sceriffo, il pastore protestante e gli insegnanti. Simbolo materiale di questa oppressione del pensiero è una grande bibbia al neon piazzata sopra il tetto della chiesa, che di notte spande la sua luce artificiale per tutta la valle, intimando ai nottambuli di pentirsi e orientare i propri pensieri verso ciò che è giusto e casto. La famiglia di David è malvista, perché ha in sé i marchi del peccato: nessuno è iscritto nei registri parrocchiali e la zia Mae aveva un passato come ballerina e cantante in locali di terz'ordine. Il romanzo inizia quando la zia Mae va a vivere a casa di David, ancora bambino, e si conclude con la fine dell'adolescenza di quest'ultimo. È dunque un romanzo di formazione, anche se inquadrarlo entro un genere non rende pienamente giustizia. La Bibbia al neon è in primis un romanzo corale e una feroce critica alla provincia americana a cavallo del secondo conflitto mondiale: una società ripiegata su se stessa, razzista, classista, incapace di slanci vitali, conformista fino alla fobia del diverso. In questo contesto uno come David non può che soccombere. D'altronde, lui proviene da una famiglia modesta, a cui si aggiunge una donna scandalosa come la zia Mae. É un ragazzino immaginoso e solitario, che guarda il mondo da una prospettiva eccentrica rispetto al comune sentire, in una società che non accetta siffatte deviazioni.
Il romanzo può essere agevolmente diviso in due parti. La cesura è rappresentata dalla morte del padre in guerra, nella lontana Italia. Se nella prima parte predominano i toni ironici e soffusi, nella seconda c'è un vero e proprio climax drammatico, che culmina nel doloroso finale. La Bibbia al neon è un'opera che nelle prime pagine ti accarezza docilmente, per poi colpirti senza pietà come un pugno allo stomaco. Affrontata l'ultima riga, si rimane tramortiti. È giusto trattare così il lettore? Una risposta non c'è, ma una cosa è certa: questo è l'effetto della vera letteratura.

2 ottobre 2021

I giganti silenziosi del Monte Stella

Il Monte Stella (o della Stella) è un rilievo del Subappennino lucano che ha rivestito un ruolo centrale nella storia locale, sebbene non appartenga alla schiera dei giganti del Cilento, ossia il Cervati (1.899 m), il Panormo (1.742 m), il Faiatella (1.710 m) e il Gelbison (1.705 m). Nonostante la ridotta altezza di 1.131 metri, "la Stella" ha una centralità storico-antropologica che la rende più importante dei rilievi citati.

In primo luogo, va ricordato che l'area che si estende alle sue pendici corrisponde ai confini originari del Cilento, il cosiddetto "Cilento antico". Nei tempi passati, la regione era identificata con il territorio "al di qua del fiume Alento", dunque in prossimità del monte. Non è un caso che gli unici paesi a cui sia stato aggiunto nel nome il suffisso "Cilento" siano quelli che si trovano alle pendici o nelle vicinanze della Stella: Sessa, San Mango, Laureana, San Mauro, Prignano, Ogliastro, San Martino. Secondo alcune ricostruzioni storiche, sulla cima del monte sorgeva Petilia, mitica capitale della confederazione dei Lucani, circondata da mura megalitiche e inespugnabili di cui tuttora rimangono tracce. Secondo altri quei massi sarebbero i resti di una fortezza di epoca medioevale, nota come Castrum Cilenti; anche in questo caso ritorna il legame tra la montagna e l'area di riferimento.
Oggi la vetta è raggiungibile percorrendo a piedi numerosi sentieri, oppure seguendo una comoda strada asfaltata di sette chilometri che parte dall'abitato di Omignano. Arrivati in cima si gode un magnifico panorama che spazia dalla Piana del Sele a Capo Palinuro, nonostante la presenza di un'ingombrante base radar di proprietà Enav. Sulla vetta troneggia inoltre la chiesa della Madonna del Monte della Stella, una delle "sette sorelle" della tradizione locale, oggetto di secolare devozione.
Panorama dalla vetta
Tra i tanti punti di interesse storico-naturalistico del monte, segnalo un percorso breve, agevole e facilmente raggiungibile, che conduce a tre alberi di castagno millenari. I cosiddetti castagnoni cilentani sono dei veri e propri monumenti naturali. Sono tra i castagni più antichi d'Europa, in quanto la loro messa a dimora sarebbe avvenuta tra il V e il X secolo dopo Cristo, oltre mille anni fa. I tre giganti hanno una circonferenza alla base che va dai quindici ai ventuno metri; le parole e le fotografie danno un'idea, ma soltanto vedendoli dal vivo è possibile comprenderne davvero l'eccezionalità. La strada più agevole per raggiungerli è quella asfaltata che parte da Omignano e arriva sulla vetta; i castagnoni si trovano più o meno a metà del percorso, a circa tre chilometri dal centro abitato. L'imbocco del sentiero si trova presso un tornante ed è ben segnalato da un cartello in legno e da alcuni massi scolpiti che raffigurano la Madonna del Monte. Il sentiero è stretto ma facilmente percorribile e i tre castagnoni sono a breve distanza l'uno dall'altro, sulla sinistra. Come ho detto, le parole e le immagini non rendono l'idea di cosa significhi trovarsi di fronte a esseri viventi che hanno attraversato epoche e mutamenti storici, che erano lì ai tempi dei Longobardi e degli Angioini. Se i tronchi rugosi potessero parlare, potrebbero chiarirci tanti punti oscuri della storia cilentana, raccontarci del Castrum Cilenti, dei monaci basiliani e finanche dei briganti che cercavano rifugio nei boschi della Stella. Purtroppo questi giganti serbano gelosamente il loro silenzio e chiedono che venga rispettato, almeno per altri mille anni.
Ringrazio Irene Nigro per avermi accompagnato e per le fotografie. Le immagini sono liberamente utilizzabili, purché venga indicata la fonte.
Il tornante da cui parte il sentiero per i castagnoni
Il cippo all'imbocco del sentiero


Il primo castagno gigante


Il secondo castagnone



Particolare del tronco del terzo albero