23 aprile 2019

"Storie di whisky andati": la strada italiana dello swing

In un'interessante e sanguigna intervista rilasciata al mensile Rolling Stone in occasione dei trentacinque anni di Un sabato italiano, Sergio Caputo ha descritto l'atmosfera che si respirava ai suoi esordi. Erano gli anni Ottanta dell'ottimismo sfrenato e del benessere ostentato, della Milano da bere, di una crisi sotterranea che c'era ma non mordeva (ancora) quanti desideravano fare la bella vita. Storie di whisky andati (1988), il suo quinto LP, si pone decisamente come uno spartiacque, eppure ancora risente dei vizi e degli eccessi dei primordi, quando Caputo era soltanto un giovane pubblicitario trasferitosi dalla Capitale a Milano, che lavorava di giorno e trascorreva la notte ciondolando da un locale all'altro.
Un disco “alcolico”, dunque, come testimoniano la foto di copertina e quella della busta interna, che ritraggono l'artista intento ad accendersi una sigaretta, appoggiato mollemente al bancone di un bar. Nonostante l'alta gradazione alcolica, è un disco coerente e compiuto, unitario nelle fonti di ispirazione (il jazz e lo swing) e nelle tematiche trattate, attraversato da una sottile ironia. Mi spingo finanche ad affermare che è un LP divertente e mai scontato, impreziosito da testi che sono veri e propri inni del nonsense. Si leggano i versi che aprono Oh mama della jungla blu: «è mezzanotte, mama, e sai che c'è? C'è un anaconda dentro il frigidaire, ho un coccodrillo nella doccia, e sul parquet gli gnomi ballano la rumba». O ancora, il fulminante attacco di Anche i detective piangono: «Grazie, niente arsenico, fa venire l'ulcera». Sono testi paradossali e umoristici, che descrivono la realtà filtrata attraverso gli occhi di un disincantato viveur, che dorme di giorno e si accende di notte. Eppure non mancano le riflessioni profonde, come nell'ipnotica Quando l’amore va, da molti definita l'unica canzone d'amore, nel senso tradizionale del termine, nel repertorio dell'artista romano. Ricordi d'infanzia emergono poi nella nostalgica Maccheroni amari: «guardo le foto di quand'ero freak; ero un altro me, ero un altro chi?».
Come ho detto, jazz e swing sono gli ovvi punti di riferimento, sia pure riletti attraverso una sgangherata verve italica, che fa il verso alla musica americana, educandola secondo una sensibilità tutta latina. È un suono moderno e “americaneggiante”, una vena ispirata e mai troppo battuta da altri cantautori nostrani, che resta nella memoria a lungo e si mantiene attuale a distanza di oltre trent'anni. Il lato A si apre con la spumeggiante Non bevo più tequila, che se la gioca, quale migliore del disco, con la ritmata e fantascientifica Bingo torna giù. Onnipresenti basso e tastiere, mentre i fiati fanno capolino qui e lì, come nella splendida coda strumentale di Quando l’amore va. Merita una menzione anche Vieni a salvare la mia anima, rilettura in chiave ironica della leggenda di Aladino.
Storie di whisky andati non è il 33 giri più celebre di Caputo, eppure colpisce già al primo ascolto. Rimanere indifferenti non è possibile, perché se è vero che lo swing possa piacere o meno, è altrettanto indubbio che il disco abbia personalità da vendere. Ascoltarlo significa entrare in bar equivoci, frequentati da personaggi che sembrano usciti dalle canzoni di Carosone, dandies in «giacca a quadri di tweed», che regalano alle donne amate «rose rosse al plastico»; uomini duri solo all'apparenza, che affogano nell'alcool le delusioni della banalità del quotidiano.
Copertina e busta interna del 33 giri (CGD, 1988)

10 aprile 2019

"Racconto d'autunno" di Tommaso Landolfi: oltre la letteratura di genere

In Racconto d'autunno (1947) convivono in perfetta simbiosi le due anime di Landolfi, ovvero lo scrittore puro e il solitario. Parlo di pura scrittura perché il romanzo è un perfetto esercizio di stile; ogni pagina, e si potrebbe ben dire ogni parola, è costruita con maniacale attenzione ai particolari, sì da sprigionare una forza evocativa difficilmente eguagliabile. Si pensi al lessico, all'uso di parole rare, ricercate, auliche, desuete o finanche inventate, come “ordinotte”, “amoerro”, “sguancio”, “canova”, “droppiere” e innumerevoli altre. Parlo poi di uno scrittore solitario, perché Landolfi non può essere ricondotto entro correnti o mode; come scrisse Carlo Bo nella prefazione di un'edizione BUR del 1975, egli «non obbedisce ad alcun codice, non segue riti d'alcun genere, è uno che vive davvero in un'isola e ogni tanto affida al mare dei piccoli messaggi sotto forma di divertimento, tra l'irrisione e la disperazione». Un uomo che proteggeva la propria libertà, al punto di scegliere la strada della non appartenenza ad alcun movimento. Per comprendere Racconto d'autunno si deve pertanto partire da tali premesse, da una componente autobiografica, si potrebbe dire quasi spirituale, arricchita da elementi di pura fantasia.
Racconto d'autunno è principalmente un romanzo d'interni, che si sviluppa tutto nelle stanze di un avito palazzo costruito sopra un isolato pianoro. Protagonista è un partigiano, anche se Landolfi non lo presenta mai espressamente come tale. Separato dai suoi compagni di lotta e braccato dall'esercito nemico, il protagonista, dopo aver vagato per aspri crinali e forre, raggiunge un antico palazzo all'apparenza disabitato, in cui decide di rifugiarsi. Qui vive, assieme a due feroci cani, un vecchio burbero e dispotico, di nobile famiglia decaduta, che decide a malincuore di ospitarlo. Nel palazzo aleggia però un'inafferrabile presenza femminile, che si rivelerà soltanto nel climax finale, grazie ad un rito esoterico. La casa, o meglio il maniero, non è solo lo sfondo in cui sono collocate le vicende, ma è uno dei personaggi del racconto, se non addirittura il vero protagonista. Immensa, labirintica e decadente, fagocita gli abitanti e li induce in uno stato di prostrazione emotiva che è l'anticamera della follia. Una casa all'apparenza vuota, ma in realtà permeata di presenze, un po' come la magione degli Usher del celeberrimo racconto di Poe.
C'è chi ha parlato di “romanzo gotico”, chi ha giustamente citato la corrente del “realismo magico”. In effetti, pur valendo le premesse circa la non riconducibilità di Landolfi ad alcun genere, Racconto d’autunno presenta gli elementi dell'uno e dell'altro. Certamente ricorrono aspetti del gotico ottocentesco, come il rapporto amore/morte, la negromanzia, la strisciante inquietudine che pervade le pagine dall'inizio alla fine. Tuttavia, appare evidente la volontà dello scrittore di inserire con naturalezza elementi fantastici in una cornice realistica, finanche provinciale, come nella migliore tradizione del cosiddetto realismo magico italiano.
A mio parere, non si può poi tacere un altro aspetto. Anche Landolfi, come tutti gli scrittori italiani della prima metà del secolo scorso, fu toccato e impressionato dalla guerra. A differenza di Vittorini, Fenoglio o Pavese, che fecero del romanzo civile una vera e propria bandiera, Landolfi scelse una strada diversa e appartata, ma non meno critica. In Racconto d'autunno, pur in forma indiretta, si allude a patrioti (i partigiani), a invasori (i tedeschi) e alleati (gli americani). Ma soprattutto, nella scena più drammatica del romanzo, Landolfi descrive le violenze inflitte alla popolazione civile dalle truppe inquadrate nei reparti alleati. È questo un evidente e dolente richiamo ai crimini di guerra compiuti in Ciociaria dai soldati nordafricani dell'esercito francese, i c.d. goumier. Per quanto lontano dal dibattito e dalla polemica, Landolfi espresse così, sia pure entro la cornice di una storia di fantasia, tutta l'indignazione per i torti subiti dai propri conterranei. Voglio pertanto chiudere con le sue parole, che fanno luce su un'ulteriore e possibile chiave di lettura di questo prezioso racconto.
«Essi, che in tempi precedenti avevano avuto a subire gravi torti, nel loro paese medesimo, dai nostri connazionali, giungevano ora qui colla sete della vendetta e l'animo dei saccheggiatori e degli stupratori, né, ebbri di conquista, si brigavano di distinzioni purchessia fra amici e nemici, armati e non.»
Edizione BUR del 1975