Un professore universitario, di cui non ricordo il nome, sosteneva che nella
biblioteca di un giurista non può mancare Il giudice e il suo boia dello scrittore svizzero Friedrich
Dürrenmatt (1921-1990). Per tanti anni l’affermazione ha galleggiato nei
meandri della memoria, senza tradursi in atti concreti, fin quando non mi è
capitato tra le mani il libro. L’ho letto senza indugi e l’ho trovato
sorprendente.
È stato scritto di tutto su questo romanzo del 1950, fior di critici ne
hanno esaltato il perfetto meccanismo narrativo, l’inquietante cupezza delle
ambientazioni e finanche la scrittura attraversata da una sottile e spietata
ironia. Non è stato però sottolineato a sufficienza l’aspetto di cui parlava il professore, ovvero che Il giudice e
il suo boia non è semplicemente un poliziesco, ma un romanzo che scruta
uno tra i più dibattuti nodi del diritto penale: il rapporto tra colpevolezza e funzione della pena. Proprio di questo aspetto ho intenzione di parlare.
Non vorrei svelare
troppo della trama, ma non è possibile sviscerare i contenuti più profondi del
romanzo se non si riassume la vicenda. Durante una serata ad alta gradazione
alcolica, il funzionario della polizia elvetica Bärlach e l’immorale Gastmann discutono
sulla possibilità di commettere il delitto perfetto. Ad avviso del primo, non
esistono delitti che non possano essere scoperti, perché è la stessa
imperfezione ed imprevedibilità dell’essere umano a negare tale possibilità. Il
malvagio Gastmann è invece convinto del contrario e convince l’altro a
stipulare un diabolico patto. Gastmann scommette che sarà in grado di compiere reati
efferati senza che Bärlach possa raccogliere le prove per incastrarlo. Per oltre quarant’anni i
due si inseguono: il povero poliziotto cerca senza esito di inchiodare
Gastmann, autore di delitti all’apparenza non riconducibili a lui. Il
poliziotto svizzero conosce la verità, ma non riesce a raccogliere prove
sufficienti per fare arrestare l’altro, che beneficia di amicizie influenti e
si nasconde dietro la stimabile apparenza dell’uomo d’affari. Quando tutto
sembra ormai perduto, Bärlach raggiunge l’obiettivo a cui ha sacrificato l’intera esistenza. Con
una macchinazione crudele e perfetta, incastra Gastmann e lo fa finanche
uccidere. Il punto, su cui si innestano i temi più profondi del libro, è che
Gastmann viene condannato e punito per un reato che in realtà non ha mai
commesso. Bärlach lo
inchioda pur sapendolo innocente in relazione a quel singolo fatto.
Si leggano in proposito le parole che il poliziotto rivolge al suo
nemico nelle ultime pagine del romanzo: «non
ho saputo incastrarti per i delitti che hai commesso, ora ti incastro con
quello che non hai commesso». Sorge così la domanda, che dà inizio alla
riflessione propriamente giuridica. Si può punire taluno per un delitto mai
commesso? Chiunque di noi risponderebbe di no, perché non si può condannare un
innocente. Ma se la persona condannata da innocente ha dedicato la vita al
delitto, e solo per ventura non è mai stata scoperta, sarebbe giusto sanzionarla
per un illecito che non ha mai commesso? O meglio, la pena è una retribuzione
per la condotta di vita, anziché per il singolo fatto? Forse l’uomo comune
risponderebbe di sì, che si tratta di un male necessario. Il giurista non può
invece condividere tale impostazione, perché nessuno può essere punito per un
fatto che non ha commesso, fosse anche il peggiore delinquente sulla faccia
della terra.
Bärlach, così agendo, si pone al di sopra della giustizia degli uomini.
Egli diventa al contempo giudice e boia. Un giudice iniquo perché emette una
sentenza delittuosa, dolosamente ingiusta. Al contempo, un boia che esegue
spietatamente tale condanna. Facendo così, però, arriva a contraddirsi. Non era
forse lui a sostenere che non esiste il delitto perfetto perché «non è possibile muovere gli uomini come
pedine su una scacchiera»? Facendo uccidere Gastmann, Bärlach dimostra
esattamente il contrario, ovvero che muovendo gli uomini come pedine di una
scacchiera è possibile commettere il delitto perfetto. L'uomo di legge
architetta un piano sadico per far uccidere il criminale; nel fare ciò, solo
apparentemente vince la quarantennale sfida. In realtà Bärlach perde, e lo fa
nel più misero dei modi. Per avvalorare la sua tesi, ovvero che nessun delitto
può mai rimanere impunito, commette egli stesso un reato perfetto, così
perfetto che nessuno saprà mai la verità. Bärlach cumula in sé tre funzioni: giudice, boia, ma anche
assassino. Egli non crea diritto, ma delitto. Non fa giustizia, ma si pone allo
stesso livello del criminale Gastmann. Per questa ragione, secondo il mio
modesto parere, è proprio quest’ultimo a vincere la scommessa: con la sua morte
ingiusta, o meglio, moralmente giusta ma contra
ius, dimostra che il delitto perfetto esiste.
Copertina Adelphi con un autoritratto dell'Autore
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