18 maggio 2024

Si può uscire dalla pancia del pescecane

È celebre la definizione che Italo Calvino ha dato dei classici, quali libri che non finiscono mai di dire quello che hanno da dire. È altresì inconfutabile che un romanzo come Pinocchio meriti a pieno titolo di essere inserito nel novero dei classici, non solo per il fatto di essere conosciuto in tutto il mondo. Il libro di Collodi può essere letto a più livelli, sia come favola edificante per i bambini che come romanzo di formazione adatto anche a un pubblico adulto. Come in tutte le grandi storie, inoltre, è possibile rinvenirvi sempre nuovi contenuti, se si ha la capacità di leggerlo secondo diversi angoli prospettici. Chiunque diffidasse dell'affermazione di Calvino o avesse semplicemente dei dubbi, dovrebbe assistere allo spettacolo teatrale Nella pancia del pescecane, rappresentato in un evento unico e speciale lo scorso 14 maggio nel suggestivo scenario della Sala Umberto di Roma.
Evento speciale perché la compagnia di attori è composta da quattordici detenuti della Casa di Reclusione di Rebibbia, formati e guidati dall'Accademia di teatro e arti performative "Stap Brancaccio" che da anni collabora con l'Istituto per l'organizzazione di attività trattamentali. Evento unico per il grande sforzo organizzativo a livello istituzionale che ha consentito di conciliare al meglio le esigenze artistiche con quelle della sicurezza. Evento speciale e unico per l'emozione palpabile del pubblico, composto dai familiari degli attori, da operatori penitenziari e figure istituzionali.
Nella pancia del pescecane è un'opera teatrale ispirata al Pinocchio di Collodi, che si rivela un romanzo così denso di significati palesi e nascosti da essere tuttora di ispirazione, a più di cent'anni dalla sua pubblicazione. La domanda è lecita: come è possibile sviscerare nuovi contenuti da un libro che negli anni è stato oggetto di innumerevoli riduzioni cinematografiche, di animazione e teatrali? È stato possibile grazie allo sforzo congiunto delle registe Emilia Martinelli e Tiziana Scrocca, della responsabile dell'Area educativa Sara Macchia, nonché dei quattordici attori che hanno arricchito il testo con i loro pensieri, frutto di dolorose esperienze di vita. Dal punto di vista organizzativo, essenziale l'impegno della Direzione, dell'Area educativa e del personale di Polizia Penitenziaria della Casa di Reclusione di Rebibbia, da sempre impegnati a rendere effettivo il dettato del terzo comma dell'art. 27 della Costituzione. Da menzionare inoltre il contributo dato dalla Chiesa Valdese, che ha finanziato il progetto con i fondi dell'Otto per mille.
I protagonisti della pièce sono quattordici burattini (in senso metaforico), quattordici Pinocchio che si incontrano per caso, imprigionati nella pancia di un pescecane. Tutti vittime di un simbolico naufragio, quello di un'esistenza che ha intrapreso strade devianti, per responsabilità proprie o del contesto sociale. I burattini sono sconfortati, perché temono di essere digeriti e di perdersi così definitivamente. Per dare un senso al tempo passato nella pancia del pescecane, anche e soprattutto per alimentare la speranza di uscirne, i naufraghi iniziano a raccontare la propria vita e le esperienze che li hanno condotti a perdersi in mare. Più che un racconto è una confessione, perché ciascuno ritrova nel volto dell'altro compagno uno specchio in cui riflettersi. Le numerose storie si fondono in una sola ed è a questo punto che lo spettatore inizia a capire che il pescecane è una metafora del carcere e la sua pancia simboleggia le mura entro le quali i detenuti trascorrono le loro giornate. Questa è, a mio avviso, la grande intuizione degli autori dello spettacolo: l'aver estrapolato dal testo di Collodi una riflessione sulla prigione né scontata, né banale. Ecco che allora tutti i pezzi si ricompongono e la storia di Pinocchio rivela sorprendenti analogie con quella dei detenuti: la povertà, la fame, le cattive compagnie, l'essere cresciuti in contesti sociali difficili, l'assenza di figure genitoriali stabili. Senza dimenticare le colpe proprie: l'abbandono scolastico, l'aver seguito le sirene del denaro facile, il non aver ascoltato la saggia voce dei tanti "grilli parlanti" incontrati nel corso degli anni. Il racconto diventa così catarsi, secondo la più classica tradizione teatrale, nonché occasione di riscatto.
Il messaggio più potente lanciato dallo spettacolo non è tuttavia il pentimento o la volontà di cambiare vita. Ciò è certamente presente, ma non è tutto. Il vero messaggio è un altro, è la ferma decisione di non farsi digerire dal pescecane. Dopo anni in cui non sono stati pienamente arbitri del proprio destino, prima fuori e poi dentro il pescecane, i quattordici burattini sono decisi a tagliare i fili che li tengono legati al passato e ad affacciarsi con spirito rinnovato al mare che li attende fuori, non più in tempesta.
Ho volutamente lasciato alla fine un giudizio sugli attori, davvero straordinari. La loro recitazione è stata impeccabile: hanno saputo far ridere e piangere il pubblico, grazie a innate doti comiche, insospettabili capacità introspettive e un'abilità di improvvisazione degna degli attori professionisti. Notevole la loro presenza scenica, soprattutto perché hanno recitato in quasi totale assenza di scenografia. Scope di saggina a figurare i denti del pescecane, un cappello per impersonare Mangiafuoco, una tovaglia a quadri per inscenare l'Osteria del Gambero Rosso, tanto è bastato a riempire la scena. Anche i brevi monologhi scritti dagli attori hanno un contenuto che potremmo definire letterario nel senso più pieno del termine.
Come ho già scritto, è stato un evento unico e speciale. Lo è stato per gli attori, le loro famiglie, i registi, gli autori e gli operatori penitenziari. Più in generale, è stato un evento che ha rimesso al centro i concetti di comunità e istituzione.
La locandina dello spettacolo teatrale

7 maggio 2024

"Nella casa della gioia" di Franz Werfel: sic transit gloria mundi

In ogni letteratura nazionale ci sono dei tòpoi, motivi e tematiche ricorrenti che in qualche modo definiscono lo spirito di un popolo, o comunque sono di ispirazione per quanti hanno l'incarico gravoso di farsi portavoce del sentimento nazionale, ossia scrittori e poeti. Di solito si tratta di vicende pubbliche significative che hanno segnato un dato periodo storico; raramente eventi lieti, quasi sempre tragedie collettive. In Italia il tòpos d'eccellenza della letteratura novecentesca è la Resistenza, per Spagna e Portogallo la lunga dittatura, per l'Austria è inevitabilmente la fine dell'Impero asburgico. La finis Austriae è l'evento con cui si sono confrontati tutti i principali autori austriaci (e in misura minore cechi e ungheresi), da Lernet-Holenia a Schnitzler, da Joseph Roth a Werfel, per citarne solo alcuni. Il crollo dell'Impero austro-ungarico ha rappresentato la linea di demarcazione tra un passato glorioso e un futuro fosco e decadente, culminato con l'Anschluss.
La letteratura ha la capacità di captare lo sgomento di una nazione sublimandolo in arte; e ciò avvenne precisamente in Austria dopo il 1919. La fine della monarchia generò stagnazione economica e una strisciante crisi politica, ma soprattutto fece maturare in molti – specialmente aristocratici, militari, artisti e commercianti – una nostalgica melanconia per un passato aureo definitivamente tramontato. Una tragedia collettiva, dunque, l'amara consapevolezza di un'antica gloria destinata ad annegare nella volgarità del presente.
Tra le opere che raccontano questo passaggio cruciale, va segnalato il romanzo breve, o racconto lungo che dir si voglia, Nella casa della gioia. In verità Franz Werfel nacque a Praga nel 1890, primogenito di una famiglia ebraica mediamente agiata. Tuttavia era germanofono e la sua carriera di intellettuale decollò dopo la Prima guerra mondiale, con il trasferimento a Vienna. Abbandonò l'amata città dopo l'annessione dell'Austria alla Germania nazista, peregrinando tra la Francia e gli Stati Uniti, dove spirò nel 1945.
Nella casa della gioia non è la sua opera principale, eppure è un libro godibile che si legge d'un fiato e si fa apprezzare per stile e contenuti. La prospettiva da cui viene osservata la fine dell'Impero asburgico è quella di una casa di piacere, il rinomato casino di Via del Camoscio, un antico locale fondato, secondo la leggenda, da un membro della Casa reale. I suoi clienti appartengono alle classi altolocate: aristocratici, militari, magistrati, alti funzionari pubblici, ricchi commercianti. In parole povere, è un postribolo d'alto bordo. Werfel ricostruisce in sole cento pagine l'atmosfera del luogo, presentando al lettore uno straordinario caleidoscopio di personaggi, ossia clienti, prostitute e gerenti. Il casino è un microcosmo, uno specchio della società gaudente dell'ultimo scorcio dell'Impero asburgico. Non c'è una trama vera e propria: ciò che interessava allo scrittore era offrire un fedele ritratto di un luogo e un'epoca irripetibili, nonché dei personaggi che l'animavano. Ci sono delle sottotrame accennate, come la storia d'amore tra la sfuggente Ludmilla e il cupo Oskar, ma il fulcro del romanzo è un altro, ovvero il raccontare gli ultimi giorni del casino di Via del Camoscio, coincidenti per uno straordinario sincronismo con gli ultimi palpiti dell'Impero. La sera del 28 giugno 1914, infatti, l'atmosfera libertina del bordello è scossa dalla notizia dell'assassinio a Sarajevo dell'arciduca Francesco Ferdinando, di fatto il casus belli che diede il via alla Prima guerra mondiale. Negli stessi giorni muore improvvisamente anche Maxl, proprietario dell'appartamento di Via del Camoscio e tenutario della casa di piacere. In una delle scene più emblematiche e simboliche del libro, il catafalco del povero Maxl è innalzato nella Sala Grande del postribolo, divenuta camera ardente.
«E ancora una volta trascorse, inavvertito, uno di quei momenti che sono saturi delle contraddizioni sublimi, shakespeariane, della vita.»
La dipartita di Maxl di fatto chiude il romanzo e al tempo stesso è una morte simbolica, perché con lui si inabissa «un'epoca gioconda, serena e spensierata che ormai giaceva nella bara, per scomparire per sempre».
Nella casa della gioia è, a mio modesto avviso, un gioiellino della letteratura del primo Novecento, ingiustamente dimenticato e negletto dai più. Sfido altri scrittori, anche più blasonati e celebri, a saper riassumere il sapore pieno e il senso più profondo di un'epoca in appena cento pagine. Werfel c'è riuscito, adottando per giunta l'originale punto di osservazione di una casa di tolleranza elevata a istituzione pubblica. Se a ciò aggiungiamo il tono confidente e complice della narrazione, come se l'io narrante sussurrasse all'orecchio del lettore, possiamo affermare senza tema di smentita che si tratta di un piccolo capolavoro.
Un'edizione TEA degli anni Novanta