L’omologazione del linguaggio e dei costumi
è uno dei pericoli maggiori che minacciano le culture storiche. Veniamo
quotidianamente bombardati da annunci entusiastici che ci dicono che il mondo è
sempre più piccolo, che ogni distanza può essere colmata o annullata. Il merito
di questo risultato, sulla cui utilità nessuno può obiettare, è tutto dei mezzi
di comunicazione di massa. Il rovescio della medaglia, però, è rappresentato
dalla globalizzazione del pensiero, dall’affermazione di un sentire unico, che
è quello dominante ma non necessariamente il migliore. La posta in gioco è
molto alta: è a rischio il concetto stesso di diversità culturale, in un
sistema che ci vuole tutti uniformi nei gusti e negli orientamenti. La
prevedibilità del pensiero diventa prevedibilità e orientabilità delle scelte,
specie quelle del consumatore, il tutto a vantaggio delle multinazionali e
delle grandi distribuzioni. Il linguaggio risente di questo processo, per cui,
oltre ad impoverirsi, viene letteralmente violentato dall’abuso di espressioni
straniere, spesso e volentieri anglosassoni, che ci sembra possano esprimere al
meglio nozioni e concetti che, per la verità, sono stati da sempre definiti
facendo riferimento alla lingua madre. Ecco che un fuorigioco diventa un
“offside”, uno studio legale una “law firm” e un piano per il rilancio
dell’occupazione si trasforma in “job act”. Molti di quelli che usano siffatte
(e altre) espressioni lo fanno per sembrare più alla moda, o forse per dare
apparenza di sostanza a discorsi vacui e fumosi.
A tutti questi, consiglio di ascoltare (è
disponibile su YouTube) il famoso “discorso sul debito” che il Presidente del Burkina
Faso, Thomas Sankara, fece ad Addis Abeba nel luglio del 1987, di fronte ai
rappresentanti dell’Organizzazione dell’Unione Africana e agli osservatori
europei. In sintesi, il giovane Presidente dalla voce limpida e dal sorriso
sincero, che di lì a pochi mesi sarebbe stato assassinato, secondo alcuni
proprio per l’eco suscitata da quel discorso, invitava gli Stati africani a non
pagare il debito pubblico, perché essi non ne sono responsabili. Il debito è
stato prodotto dai Paesi sviluppati e dalla loro politica coloniale e
neocoloniale; per tale ragione, chi ha prodotto tali dannose conseguenze non
può chiedere a chi le subisce di rimediarvi: “se noi paghiamo, moriremo; se non
paghiamo, gli altri non moriranno”.
Eppure, non è questo l’aspetto su cui
vorrei soffermarmi, che pure richiederebbe un’analisi approfondita. Mi
interessa, invece, porre l’accento su quello che Sankara dice alla fine di quei
sedici memorabili minuti, quando, con parole semplici e un esempio pratico di
immediata comprensione, fa la più bella e commovente apologia della difesa
della propria cultura e del non conformismo. Indicando la sua giacca, Sankara
spiega che tutto il filato usato per produrla proviene dal suo Paese e che è
stato tessuto da manodopera burkinabè. Non un solo filo deve provenire
dall’Europa, perché l’autoproduzione è il primo passo verso l’emancipazione
economica e culturale. Detto questo, a chiusura del suo intervento, il giovane
primo ministro conclude così: “dobbiamo vivere africano. È il solo modo di
vivere liberi e degni”. Ritengo che questo sia un grande insegnamento morale,
valevole per tutti i popoli ed a tutte le latitudini, specialmente oggi, a
quasi trent’anni da quel discorso. “Vivere africano” è la metafora del vivere
secondo la propria cultura, senza farsi sopraffare da quei modelli importati,
quasi tutti di origine nordamericana, che pretendono di imporre un’unica e
manichea visione del mondo. I modelli che ci sono stati imposti, sul
presupposto di una presunta superiorità, sono spesso risultati deleteri, nel
mondo del lavoro, della scuola e dell’università. Oggigiorno, ascoltare le
parole di molti professionisti rampanti o politici di nuova e vecchia generazione è diventata una triste
assuefazione ad un vomito incolore, che il più delle volte serve a nascondere
l’imbarazzo del non sapere cosa dire. La sopraffazione culturale è l’arma più
potente usata dai colonizzatori; dietro quelle parole che ci possono sembrare
più vicine alla sensibilità moderna, si nasconde spesso la volontà di assuefare
le coscienze e di annullare il pensiero. Questo Sankara lo sapeva bene, lui che
non aveva esitato a mutare il nome del proprio Paese da Alto Volta
(denominazione meramente geografica imposta dai colonizzatori) in Burkina Faso,
che è un’espressione bellissima, perché significa “il Paese degli uomini
integri”. E uomo integro è innanzi tutto colui il quale è in grado di mantenere
e difendere il proprio linguaggio e la cultura di appartenenza. La
colonizzazione è diabolica perché mira, come fine ultimo, a privare gli
assoggettati della propria cultura. La destrutturazione della personalità e la
disgregazione dell’individuo si realizzano con il pensiero unico, senza
necessità di catene. Eppure, più ancora delle catene sono in grado di assoggettare
i popoli.
Thomas Sankara ci insegnava che non
dobbiamo farci fottere. La sua lezione di “uomo integro” contiene al tempo
stesso un avvertimento e una raccomandazione. L’avvertimento è che la
dominazione culturale è l’arma più potente e subdola, perché ottunde le
coscienze generando pericolosi desideri di emulazione; la raccomandazione è
quella di decolonizzare la nostra mentalità, per vivere finalmente da uomini
liberi e degni.
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