Tira un ventaccio
gelido giù al molo, un soffio incessante e fastidioso, che scompiglia i capelli
ma almeno porta via il tanfo delle ciminiere del petrolchimico. Ma d’altronde,
se vivi a Canvey Island, che altro puoi fare se non scendere giù al molo? Per
andare a spaccarti la schiena in raffineria per pochi quattrini la settimana,
oppure anche solo per vedere un po’ di gente. Ecco perché nel 1975, quando i
Dr. Feelgood pubblicarono il loro primo LP, non potevano esserci molti dubbi
sul titolo: Down by the jetty, "giù al molo", appunto.
Copertina semplice ma
di grande impatto: i quattro sulla banchina del porto squassata da un vento
freddo, con un’espressione tra l’arrogante e l’infastidito, perché non era
gente da perdersi in pedanti servizi fotografici. Lo scatto è memorabile,
perfettamente evocativo dei personaggi. Il primo è il bassista John B. Sparks, che
sembra una comparsa da bisca di certi poliziotteschi italiani degli anni
Settanta. Segue il batterista, noto semplicemente come The Big Figure, sorta di
antesignano blues brother. E finalmente i due più inquietanti e pericolosi:
Wilko Johnson e Lee Brilleaux. Il primo è una strana razza di chitarrista
alieno senza plettro, vestito perennemente a lutto e con uno sguardo liquido e allucinato. Infine, l’immenso Lee Brilleaux, che sul palco ringhia nel
microfono e suda, si scuote, si agita nei suoi completi chiari da dandy della
working class, mentre suona indiavolato l’armonica. Tutti e quattro poco
rassicuranti, tutti funzionali ad un sound quadrato come pochi.
I Dr. Feelgood,
all’alba del loro esordio su vinile, erano già una celebrità, per via dei
concerti infuocati; però, quando entrarono in sala d’incisione, il dubbio era
più che legittimo: sarebbero stati in grado di riproporre anche su disco la
stessa atmosfera bollente? I quattro suonavano infatti un grezzo rhytm and
blues, contaminato dal rock and roll delle origini, da molti definito pub rock;
rifiutavano quindi le sonorità prog di moda in quegli anni, in favore di un
suono meno elaborato, furioso, fatto di una sezione ritmica martellante e di
potenti riff di chitarra, da precursori del punk.
I dubbi sono presto
fugati, già dai primi solchi di She does it right, che leggenda vuole sia stata
composta in una sola notte. E questo è un aspetto di cui tenere conto: a
differenza di molti gruppi rhytm and blues, i quattro di Canvey Island
proponevano anche e soprattutto pezzi originali, oltre a qualche intramontabile
classico, interpretato con rinnovato vigore. Tra questi spiccano l’immancabile
Boom boom, la strumentale Oyeh! e, soprattutto, la struggente Cheque book, in
una versione impreziosita dall’ispirata voce di Brilleaux. La miscela è esplosiva
e viene riproposta senza cali sulle due facciate: rimarcabili sono in
particolare The more I give, Keep it out of sight, l’impetuosa All through the
city e Roxette, vero classico del gruppo, con un celebre assolo finale di
armonica.
Vi sono dischi che la
critica definisce “seminali”, a voler intendere che hanno avuto la capacità di
inventare o rinnovare un genere, oppure semplicemente di influenzare band
future. Credo che mai come in questo caso l’aggettivo possa essere utilizzato
senza paura di sbagliare: i Dr Feelgood, già a partire dal primo LP, sono stati
un gruppo innovativo, che ha saputo rimestare a piene mani nel patrimonio del
passato, arricchendolo di un furore nuovo, anche e soprattutto scenico,
destinato a far proseliti.
La copertina del disco
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