29 novembre 2024

L'amore al tempo dei Cult

Difficile trovare un disco che sia al contempo figlio della sua epoca e ancora attuale, soprattutto quando si parla degli anni Ottanta. Il sound di quel decennio, prima amato, poi odiato e infine (parzialmente) riabilitato, da sempre divide gli appassionati. A mio avviso, ciò dipende dal fatto che molte rockband di successo degli anni '60 e '70 tentarono di reinventarsi nella decade successiva con risultati discutibili, cedendo senza troppa convinzione alle lusinghe dell'elettronica e dando alle stampe lavori con un suono artefatto. Forse è questa la ragione per cui molti album di quel periodo hanno resistito poco alle ingiurie del tempo, apparendo oggi datati. Motivo per cui le eccezioni sono ancora più sorprendenti.
Love, il secondo album dei britannici The Cult, è una di queste eccezioni. Pubblicato esattamente a cavallo dei due lustri, nel 1985, suona dannatamente eighties senza che ciò debba intendersi come un difetto. È un lavoro figlio del suo tempo, come l'orecchio più allenato noterà già dai primi solchi di Nirvana, eppure in quasi quarant'anni non ha perso il suo smalto. Con questo LP il gruppo dimostrò di essere una solida realtà che sapeva parlare un linguaggio universale, non impastoiato dalle ristrettezze di un sottogenere. Love smaschera infatti l'erronea convinzione che i Cult fossero un gruppo dark o gothic.
Probabilmente il più amato della loro produzione, è un anello di congiunzione tra i suoni cupi di Dreamtime e il nuovo corso segnato da Electric del 1987. Forse per queste ragioni è considerato il loro migliore, anche da parte di chi critica Astbury & soci, accusandoli di essere poco originali e di aver inseguito le mode del momento. Di certo Love appariva più rétro alla sua uscita che non oggi, per via degli evidenti richiami ai mostri sacri del rock anni Settanta, Led Zeppelin su tutti. Bandite le tastiere, sono le chitarre di William "Billy" Duffy a dominare la scena, oltre ovviamente al basso possente di Jamie Stewart. Dietro le pelli si alternarono Mark Brzezicki e Nigel Preston, sebbene i due non compaiano nelle foto interne. The Cult era però soprattutto la straordinaria presenza scenica di Ian Astbury, qui all'apice della forma. Ombroso come Jim Morrison, glam come il primo Bowie, con uno stile a metà strada tra un pirata e un nativo d'America, Astbury sfoggia le sue indubbie qualità canore, sia nei pezzi più dilatati come Brother wolf, sister moon, che in quelli più grintosi come nell'immortale She sells sanctuary. Accattivante anche la grafica del disco: in copertina e nel libretto interno abbondano simboli esoterici, ripresi sia dalla tradizione degli Indiani d'America che dai geroglifici egizi, elementi riportati anche nelle fotografie che ritraggono i tre musicisti.
Come ho già detto, l'attacco di Nirvana fionda immediatamente l'ascoltatore in atmosfere ottantiane, ma già la successiva Big neon glitter è un pezzo senza tempo di solido rock che, pur non essendo derivativo, attinge a piene mani da band come Stooges o, si potrebbe persino azzardare, New York Dolls. Brother wolf, sister moon, invece, è l'unica traccia gotica o dark-wave; qui la voce di Astbury si eleva incontrastata sul tappeto di basso e chitarra, regalando una delle migliori performance della sua carriera, almeno in studio. Di Rain e She sells sanctuary c'è poco da dire, tanto sono celebri e da sempre osannate dal pubblico. A me piace molto anche Hollow man, che vola a livelli altissimi grazie a un azzeccato riff di chitarra di Duffy, oltre a fornirci, se mai ce ne fosse bisogno, l'ennesima prova della voce camaleontica di Astbury, capace di passare da un registro all'altro nella stessa canzone. Ad ogni modo non voglio diffondermi in un'analisi traccia per traccia che avrebbe poco senso per un LP compiuto e coerente come questo.
Come noto, il disco fu baciato dal successo, di vendite più che di critica, raggiungendo alte posizioni in classifica. Poi col tempo è stato dimenticato, forse in ragione dei grandi cambiamenti che il rock ha visto tra la fine degli anni Ottanta e la prima metà dei Novanta: il britpop, il grunge, in misura minore lo shoegaze. Di colpo i Cult passarono di moda, considerati quasi un retaggio di un'epoca finta, vuota d'ideali, legata solo all'apparenza. L'oblio che ha coperto a lungo una parte della produzione rock degli anni Ottanta ha colpito ingiustamente anche Astbury & soci, sebbene Love, l'apice della loro carriera, sia semplicemente un grande disco rock, niente di più ma niente di meno.
La celebre copertina dell'album

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