13 luglio 2017

"L'amico ebreo" di Gian Piero Bona: un miracoloso salvataggio dall'Olocausto

Il titolo di Giusto tra le nazioni spetta ai non ebrei che, privi di interesse personale e a rischio della propria incolumità, abbiano salvato anche un solo ebreo dallo sterminio nazista; l’onorificenza trae origine dal versetto del Talmud secondo cui «chi salva una vita, salva il mondo intero». Lo scrittore e poeta Gian Piero Bona, superata la soglia dei novant’anni, ha deciso di raccontare una vicenda autobiografica e familiare rimasta fino ad oggi ignota. È così venuto alla luce il romanzo L’amico ebreo (Ponte alle grazie, 2016), con dedica al padre, uno fra i Giusti. L’autore spiega nelle prime pagine le ragioni che l’hanno indotto a raccontare questa toccante storia.
«Alcuni esemplari di quei nazisti intenti a eliminare nei loro lager sei milioni di ebrei e due milioni tra zingari, cristiani, intellettuali, malati, omosessuali, ho avuto modo di vederli per tre anni dentro e fuori della mia casa. Fu così che un piccolo episodio di questa tragedia umana, vissuto per caso nel luogo dove allora abitavo con la mia famiglia, è rimasto ancora oggi come un marchio a fuoco sfrigolante nella carne della mia anima.»
Tra il 1942 e il 1945, nell’antica magione dei Bona di Carignano, si è infatti consumata una vicenda che ha dell’incredibile. Sotto lo stesso tetto, per quasi quattro anni, hanno vissuto a stretto contatto il ragazzino ebreo Sergej Yonov e l’odioso Richtel, capitano delle SS. Sia il carnefice che la potenziale vittima erano ospiti della famiglia dello scrittore, in una forzata e pericolosa convivenza che solo per miracolo non si è tramutata in tragedia. Sergej, ebreo di origine russa, era compagno di scuola e di conservatorio di Gian Piero Bona; fu il padre di quest’ultimo a salvarlo dall’olocausto, conducendolo in casa propria e facendolo passare come un lontano parente grazie ad un’accurata messinscena. Negli stessi anni in cui Sergej era ospite dei Bona, nella grande casa si era stabilito anche l’ignaro capitano Richtel, secondo l’usanza per cui gli ufficiali nazisti, anziché vivere nelle caserme, trovavano forzosa ospitalità nelle case dei maggiorenti. Sergej e Gian Piero erano due ragazzi diversissimi: il primo ebreo, razionalista e logico, il secondo cristiano, inquieto e affascinato dall’esoterismo.
«Il destino mi aveva mandato il grande amico e ciò fu la scoperta del vero male e del vero bene intorno a noi, della luce e delle tenebre. […] Avevamo opinioni radicalmente opposte, dovute alla nostra diversa educazione; eppure, lui ebreo e io cristiano, eravamo diventati fratelli di viaggio.»
Lo stretto contatto con Richtel rafforza l’amicizia tra i due ragazzi, che di fatto diventano come un’unica persona; anzi, è proprio la minaccia della deportazione a renderli più uniti, rinsaldando un legame che va al di là della semplice amicizia. La quotidiana visione del nazista Richtel assume i caratteri di una pericolosa vicinanza alla morte, perché il tedesco incarna gli aspetti negativi dell’esistenza, è il simbolo del male e del cuore di tenebra. Ambiguo e proprio per questo temibile, Richtel è in egual misura capace di slanci di affettività e di orribili crimini.
Gian Piero Bona, da poeta di razza qual è, riesce a raccontare una vicenda toccante senza forzosi patetismi, ma al tempo stesso con una strenua vis polemica nei confronti degli occupanti nazisti. Il libro non è semplicemente la memoria di una irripetibile stagione di vita, ma anche un commosso ricordo della propria famiglia, unita dal vincolo del sangue e dalla necessità di difendere un segreto che non poteva essere rivelato.
L’amico ebreo è un emozionante romanzo di formazione, una formidabile lezione di resistenza e solidarietà, nonché una vivida testimonianza del valore della diversità. Viviamo in tempi difficili e c’è chi vorrebbe rimettere in discussione alcuni principi fondanti della nostra democrazia; leggere L’amico ebreo diventa così un doveroso atto di coraggio, per non dimenticare e rischiare di ricadere negli errori del passato.

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