14 aprile 2018

La Medaglia d’Onore per gli Internati Militari Italiani: il valore di seicentomila "no!"

Vengono chiamati I.M.I. dalla storiografia ufficiale i soldati italiani catturati dagli invasori tedeschi e deportati in Germania nei campi di prigionia e internamento, subito dopo l’armistizio dell’otto settembre 1943. I.M.I. è l’acronimo di Internati Militari Italiani, una formula senza significato secondo le norme del diritto internazionale; il Governo tedesco, infatti, privò i soldati italiani catturati dello status di prigioniero di guerra, che avrebbe loro garantito la tutela della Croce Rossa e del diritto internazionale. Questi ragazzi, spesso appena arruolati, vennero posti di fronte ad una scelta: combattere accanto a nazisti e fascisti, oppure subire la dura prigionia e il lavoro coatto. In seicentomila, la grandissima maggioranza, non ebbero dubbi e scelsero la schiavitù piuttosto che difendere un’ideologia aberrante. Diventarono così gli “schiavi di Hitler”, lavoratori coatti per dodici ore al giorno nei campi di internamento.
La motivazione della Medaglia al Valor Militare all’Internato Ignoto rende bene l’idea delle condizioni in cui vissero gli I.M.I., «internati in campi di concentramento in condizioni di vita inumane, sottoposti a torture di ogni sorta, a lusinghe per convincerli a collaborare con il nemico, non cedettero mai, non ebbero incertezze, non scesero a compromesso alcuno; per rimanere fedeli all’onore di militari e di uomini, scelsero eroicamente la terribile lenta agonia di fame, di stenti, di inenarrabili sofferenze fisiche e soprattutto morali. Mai vinti e sempre coraggiosamente determinati, non vennero meno ai loro doveri nella consapevolezza che solo così la Patria un giorno avrebbe riacquistato la propria dignità di nazione libera».
Per troppi anni un velo di colpevole dimenticanza ha circondato la vicenda dei cosiddetti I.M.I., che non hanno ricevuto il riconoscimento che avrebbero meritato. Un po’ alla volta questo velo è stato squarciato ed è stato finalmente riconosciuto il valore di quel “no”, equivalente ad un vero e proprio atto di Resistenza. La Liberazione non è dunque merito soltanto dei partigiani e degli Alleati, ma anche di altri seicentomila uomini che, astenendosi dal combattere al fianco dei tedeschi, e subendo per questo la fame, la schiavitù e finanche la morte, hanno contribuito a redimere il Paese.
La legge n. 296/2006, sia pure tardivamente, ha riconosciuto un’onorificenza ai seicentomila: la Medaglia d’Onore ai cittadini italiani deportati e internati nei lager nazisti. Coniata in bronzo dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato per conto della Presidenza del Consiglio dei Ministri, riporta sul rovescio un cerchio di filo spinato spezzato nella parte superiore, che racchiude il nominativo dell’insignito. Gli I.M.I. ancora in vita, ma anche i loro congiunti, possono richiederla seguendo la procedura disponibile cliccando qui.
Mio nonno era uno di quei seicentomila e mercoledì 11 aprile, nel corso di una toccante cerimonia in Prefettura a Roma, ha ottenuto il riconoscimento che l’avrebbe riempito di orgoglio se fosse stato ancora in vita. La sua storia è simile a quella di tanti altri: venne catturato dopo l’otto settembre in una caserma del Nord Italia e, per essersi rifiutato di combattere assieme ai tedeschi, fu internato nel campo di prigionia di Neubrandenburg, in cui rimase fino alla liberazione da parte dei Sovietici. Raccontava con dolore delle baracche in cui sopravviveva al gelo assieme ad altri internati, delle bucce di patate che spesso costituivano il misero pasto della giornata, delle umiliazioni subite, delle malattie, della morte dilagante di tanti amici e commilitoni, delle durissime giornate di lavoro forzato. Tutto questo per un "no", che è stato un vero atto di resistenza non armata. A lui e agli altri seicentomila I.M.I. è dedicato questo mio modesto contributo.
Dritto e rovescio della Medaglia d'Onore I.M.I. conferita a mio nonno

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