La letteratura mondiale abbonda di romanzi che hanno come titolo il nome
del protagonista: mi vengono in mente Agostino
di Moravia, Jacob von Gunten di
Walser e Demetrio Pianelli di De
Marchi. Non so dire quanto sia felice una tale scelta, eppure spesso il nome
possiede già in nuce le
caratteristiche del personaggio, servendo da guida al lettore. E se il romanzo
racconta le vicende di un giovane rampollo dell’alta borghesia catanese di
inizio Novecento, che trascorre le giornate nell’ozio e nell’agio scansando con
fermezza il lavoro, esiste forse un nome più adatto di Giovannino? Patti lo sapeva bene e tanto più azzeccata appare la
scelta del titolo di questo piacevole e fortunato romanzo di formazione del
1954.
Giovannino è l’unico figlio del ricco notaio Calì, che desidera per il
discendente una sistemazione adeguata con una sua pari. Seguiamo la sua
parabola di vita dall’adolescenza fino alla «senescenza
precoce», come correttamente riportato nella quarta di copertina dell’edizione
Bompiani. Giovannino ci appare come l’emblema dello scansafatiche: trascorre
intere giornate nelle campagne o nei caffè coi suoi amici sfaccendati, alla
ricerca di avventure galanti e non disdegnando l’uso di droghe. A mio avviso, sarebbe tuttavia
riduttivo bollarlo quale l’ennesima figura di inetto della letteratura italiana.
Egli è più che altro un opportunista, per educazione familiare prima ancora che
per indole. Il matrimonio di interesse finisce così per essere il degno e ovvio epilogo di un’esistenza votata all’amore “per la roba” di verghiana
memoria. La critica di Patti assume pertanto una portata più ampia: vengono lanciati
strali contro una borghesia e una nobiltà inconcludenti, i cui rampolli, da scapigliati
senza ribellione, finiscono per sacrificare una possibile esistenza da esteti
all’affanno per accumulare denaro. Questo è in fondo anche il triste percorso
di Giovannino, la cui precoce vecchiaia coincide di fatto con il raggiungimento
di un benessere abulico e fine a se stesso. Non a caso, le pagine più ariose
del romanzo sono quelle che raccontano la breve esperienza romana del
protagonista: lontano da Catania e dall’assillo parentale, egli vive sei mesi
di deliquio, nonostante un misero stipendio da impiegato ministeriale e la quotidianità
grama di una camera ammobiliata in affitto.
Mai come in questo
caso, poi, si può affermare che la città non costituisca il semplice fondale
entro cui si muovono i personaggi, ma sia essa stessa un personaggio. Anzi,
sarebbe più corretto parlare al plurale, perché la vicenda si snoda tra Catania
e Roma. La città siciliana, in particolare, è descritta magistralmente in tutte
le sue sfumature di colori, profumi e suoni. Catania è l’emblema di una vita
molle e agiata, per chi se lo può permettere, che addormenta lo
spirito e le membra con il suo «veleno
dolcissimo», fatto di lunghe passeggiate per l’affollata Via Etnea, di circoli
e pasticcerie (anzi, dolcerie) che
sono il luogo di ritrovo preferito di una folla numerosissima di nobili,
possidenti, ricche dame, avvocati e assicuratori che vivono solo per ostentare
ciò che hanno o vorrebbero possedere. E anche Giovannino, come i suoi
scapestrati amici, non riesce a sfuggire al destino di «una vita che scorre così liscia, così piana, così dolce che si può
invecchiare senza accorgersene e ritrovarsi ad averla vissuta tutta senza
averne avuto coscienza, rimanendo sempre figli di famiglia».
La scrittura di Patti
è ricercata senza essere sofistica, tanto che Montale l’ha descritta con un
ossimoro, la “facilità difficile”. Lo scrittore siciliano alterna diversi
registri, passando agilmente dal lirico all’umoristico; lo stile diventa uno
dei punti di forza del romanzo, che scorre via docilmente pagina dopo pagina, inoculando
nel lettore quel dolce veleno che era poi l’intima essenza della vita di
Giovannino.
Ottima Analisi.
RispondiEliminaBravo.
Grazie mille per i complimenti.
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