Il colonialismo ha rappresentato una delle pagine più
vergognose della storia europea, al punto da essere, come sostenuto da molti,
una delle concause del sottosviluppo economico del continente africano. A
partire dagli anni Cinquanta del Novecento ha inizio la lunga stagione dell’indipendenza
politica, sebbene le potenze europee non abbiano mai rinunciato del tutto ad un
controllo delle ex colonie, specialmente per finalità di sfruttamento economico.
Uno dei Paesi che più pervicacemente ha difeso quel che restava del suo impero
è stato il Portogallo salazarista, impegnato dal 1961 al 1974 in un’estenuante e
sanguinosa guerra in Angola, per molti versi simile a quella combattuta dagli
Americani in Vietnam.
Del conflitto di liberazione angolana si è parlato
poco, per lo meno al di fuori del Portogallo, forse per la marginalità del
Paese lusitano nel contesto continentale. Eppure In culo al mondo, dello
scrittore-medico Antonio Lobo Antunes, è un’opera di somma importanza, che
andrebbe letta per la sua valenza universale, che trascende le vicende storiche
contingenti, e per la capacità di elevarsi a simbolo di un’epoca nefasta, a
paradigma del dolore e della crudeltà umana.
Si tratta di un romanzo di forte impronta
autobiografica. Protagonista è un ex ufficiale medico dell’esercito portoghese,
che narra la sua spaventosa esperienza al fronte ad una donna conosciuta in un
bar di Lisbona, senza nasconderle dettagli scabrosi e particolari ripugnanti. Spedito
in Angola subito dopo la laurea, egli in poco tempo comprende come la retorica
patriottica inculcata all’accademia non abbia nulla a che vedere con la realtà.
Pochi giorni sono sufficienti per abbandonare gli agi e gli usi della vita
civile, per trovarsi catapultato in un inferno che non ha alcunché di eroico o di
letterario. Il libro è un lungo, avvolgente monologo, scandito da un linguaggio
duro e senza sconti, in cui le descrizioni crude si alternano alle riflessioni
sulla politica, sulla vita militare, sull’insensatezza delle regole della
catena di comando e sulla vacuità della vita umana. Le parole del reduce
crepitano sulle pagine come scariche di un mitra, lasciando il lettore attonito
eppure irresistibilmente attratto ad andare avanti.
Il punto di forza del romanzo sta nella capacità
dell’autore di descrivere la metamorfosi che la guerra produce negli uomini,
alterandone i tratti somatici, i sentimenti e la psiche.
«Noi non eravamo cani rabbiosi quando arrivammo […],
non eravamo cani rabbiosi prima delle lettere censurate, delle offensive, delle
imboscate, delle mine, della mancanza di cibo, della mancanza di tabacco, di
bibite, di fiammiferi, di acqua, di bare, prima che una camionetta valesse più
di un uomo e prima che un uomo valesse una notizia di tre righe sul giornale.»
Non c’è pietà nelle dense pagine di questo libro, né
eroismo; c’è spazio solo per una muta compassione e per gesti insignificanti e meschini.
E forse è proprio questa la guerra, così diversa da quella raccontata dai megafoni della propaganda.