Bisognerebbe rileggere Carlo Alianello
(1901-1981), specie in questi tempi in cui il Meridionalismo, un tempo elitaria
corrente di pensiero, viene ripreso a tutti i livelli, spesso con
superficialità e senza piena cognizione di causa. E bisognerebbe riprendere in
mano i suoi libri non solo per l’indiscussa qualità letteraria, ma perché ci
raccontano quello che il Meridione è stato e continua ad essere, tratteggiando
con precisione le peculiarità sempiterne di questo popolo.
Alianello aveva un grande talento
narrativo, che per consapevole scelta politica decise di mettere al servizio
dei vinti, di quelle genti “conquistate” (per dirla proprio con le sue parole)
nel 1860. Il trittico di opere dedicato alla vicenda risorgimentale è composto
da una raccolta di racconti, Soldati del re (1952), e da due romanzi corali,
L’alfiere (1942) e L’eredità della Priora (1963), da cui furono tratti
fortunati sceneggiati televisivi.
Ne L’alfiere vengono rievocati i
convulsi giorni che precedettero la caduta del Regno delle Due Sicilie. Pino
Lancia, il protagonista, è un soldato leale, che combatte in Sicilia ed a Gaeta,
passando per Napoli. Il racconto, che inizia con l’arrivo dei garibaldini e si
conclude con la resa della Cittadella assediata, ricostruisce in maniera
precisa e vivida gli eventi principali di una guerra civile fatta di tradimenti
e di viltà, più che di atti di eroismo. E il merito dell’autore sta proprio nel
dare un volto e umanissimi sentimenti agli sconfitti, ricondotti alla
primigenia dignità di uomini e donne. Eppure, nella sua ansia di raccontare il
vero e non tacere nulla, Alianello non si rinchiude nella visione idilliaca di
un Sud tradito, di una sorta di Eden violentato da un invasore selvaggio.
L’autore è spietato nell’affermare che le responsabilità della conquista vanno
ricercate, in primo luogo, nel modo d’essere dei meridionali. Dice in proposito
un suo personaggio, il padre dell’alfiere Lancia:
«Brutta cosa, figlio mio, nascere napoletani. Perché siamo vecchi, figlio. Questo è un popolo vecchio: e perciò scettico, indulgente, pronto a transigere. Le grandi cose, le grandi virtù, gli ideali gli si sono logorati tra le mani in tanti secoli e han perduto quel lustro, quel brillio, quella certezza che attrae e fa smuovere la gente giovane. […] Questo popolo va in sfacelo per eccesso d’intelligenza. Tu gli dici patria, e lui vede il gendarme borioso, il magistrato venale, il funzionario traffichino, il generale traditore o vile e il Re beffato e truffato. Tutte facce dello stesso Pulcinella, tutta gente come lui, della sua pasta, che rispettare non può, ma a cui finge d’obbedire, per evitare guai. E ad un’idea astratta non ci crede: ad una patria, che non sia fatta d’uomini, non ci può nemmeno pensare. […] E lo Stato agli occhi suoi così si manifesta: un gran rubare, un gran mangiare, un immenso imbroglio, un traffico gigantesco di vergogne che va dal Garigliano alla punta del Faro.»
L’eredità della Priora è invece un’opera
sul brigantaggio, che ci presenta il punto di vista degli irregolari, dei
legittimisti datisi alla macchia. La brutalità del nascente Regno d’Italia è
mostrata in tutti i suoi aspetti, senza nulla nascondere: ci sono le
fucilazioni di massa, le condanne per un semplice sospetto, i corpi seviziati e
lasciati in strada come monito, le tasse che stritolano i braccianti. L’unificazione
ha tradito i suoi stessi ideali, trasformandosi in uno sfruttamento ancora più
feroce e ingiusto, nella nascita di una colonia. E così uno dei personaggi del
libro, acceso liberale, arriva amaramente ad affermare:
«Il fatto è che sotto i Borboni noi vi credevamo davvero fratelli. E per questa fratellanza abbiamo rischiato la forca, l’ergastolo, le galere. Non vi sapevamo ancora e non potevamo supporre, neanche io lo pensavo, che una monarchia ne valesse un’altra… Poesia, poesia. ‘A verità, l’Italia unita l’hanno voluta i letterati. Libertà, eguaglianza, fraternità. Guardatevi attorno e ditemi dove stanno. Voi siete venuti qua come dentro l’Africa selvaggia senza sapere niente e ancora v’ostinate a non voler sapere niente. E avete stabilito che siamo inferiori a voi soltanto perché siamo differenti. […] Avreste dovuto venire qua a portarci lavoro, istruzione, progresso… Non siete quelli che ci hanno redenti dalla barbarie borbonica? Almeno aveste portato la giustizia! E invece ve la siete sbrigata con quattro gendarmi e quattro avventurieri. […] Ma, se si potesse tornare indietro e ricominciare da capo… patti chiari, amicizia lunga… Altrimenti non entrereste più con tanta facilità nel Regno di Napoli.»
Eppure, ancora una volta, Alianello non si
cela dietro un dito, non intende nascondere le colpe dei vinti. La società
meridionale, già prima dell’Unità, era arretrata, stritolata da una borghesia
miope e priva di slanci, da una burocrazia inefficace e corrotta, con larghi
strati della popolazione che boccheggiavano appena al di sopra del limite della
sopravvivenza. Mali oscuri, mali antichi, mai del tutto superati.
Si potrebbe iniziare proprio da questi
testi per costruire finalmente un Meridionalismo intelligente, slegato da prese
di posizione aprioristiche di stampo “leghista”, capace di leggere oltre i dati
statistici, in grado di affrontare un discorso più complesso e avvincente.
Carlo Alianello (foto tratta da Wikipedia)
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