Sul blog Parole tra pagine ingiallite è
apparsa una lunga recensione de Le rovine in attesa, a firma di Remigio Montestella. La riporto di
seguito, ringraziando l'autore.
Alfonso Cernelli è un giovane scrittore
emergente, nato a Roma ma fiero delle sue origini meridionali. Anzi cilentane,
per essere più precisi. E’ da poco uscito il suo secondo romanzo intitolato “Le rovine in attesa” pubblicato da
Alter Ego Edizioni, a cinque anni di distanza dal suo primo libro “Percezione dell’inverno” con cui si
aggiudicò - nel 2010 - il premio letterario nazionale “Nicola Zingarelli”,
patrocinato tra l’altro dalla Presidenza della Repubblica.
Penso che oggi sia davvero arduo pensare
di scrivere un libro: basta entrare in una grande libreria per capire
immediatamente che il mondo non ha bisogno di un testo in più. Di fronte agli
oltre 50.000 volumi che vengono stampati ogni anno nel nostro paese ed in
considerazione del fatto che siamo un popolo che al massimo legge la lista
della spesa, avere il coraggio di scriverne uno significa davvero sfidare
l’impossibile: il mondo dell’editoria e delle vendite. A meno che l’autore non
sia già uno scrittore affermato o un personaggio noto al grande pubblico:
allora le porte dell’editoria si spalancano e le vendite sono ampiamente
assicurate. Comunque, nonostante tutte le difficoltà del settore, i giovani
talenti nel nostro paese non mancano anche se, nella maggior parte dei casi,
vengono stritolati dal sistema che impedisce loro di emergere e di essere
premiati per quello che valgono. Mi viene da pensare, dopo aver letto Le rovine in attesa (con tutto il dovuto rispetto per i Grandi della letteratura
italiana, che restano irraggiungibili per chi si accinge a scrivere un libro),
che lo stile letterario del giovane autore si ispiri più agli scrittori del
Novecento italiano che non agli scribacchini odierni, i quali in virtù della
loro notorietà televisiva, piuttosto che di una effettiva abilità nella
scrittura, occupano i primi posti nelle classifiche di vendita in Italia.
Mi spingo a dire che con questo libro
Alfonso Cernelli suggella la sua piena maturità letteraria, svela appieno le
sue notevoli doti di costruttore di
storie e merita – a parer mio - la giusta attenzione. La storia del suo primo
romanzo si fonda sull’amicizia e sulle scorribande di due adolescenti alle
soglie della maturità; in questa sua seconda opera letteraria assistiamo,
invece, all’incontro di due uomini che, pur nella loro diversità anagrafica e
culturale, si ritrovano ad affrontare un breve ed intenso percorso di vita
comune, che li porterà a condividere un velleitario progetto di redenzione
collettiva. La vicenda, che è ambientata in un decadente palazzo nobiliare di una non meglio
specificata località del mezzogiorno d’Italia, “circondata dai monti eppure così vicina al mare”, si dipana
attraverso le aspirazioni, i sogni di grandezza e le farneticazioni del
marchese Alberico Priviano, un nobile meridionale che vive arroccato nella sua
antica dimora; egli, al fine di portare a compimento il suo temerario disegno
di rivalsa sociale, convoca nel suo palazzo un giovane studioso di diritto
(Erminio Narri) “per un affare urgente e
segreto”. Costui, pur di lasciare l’ insoddisfacente e frustrante lavoro
che svolge in una biblioteca di testi religiosi – attività che non gli consente
di esprimere le sue competenze giuridiche – accetta con molto entusiasmo
l’invito del nobiluomo, nonostante sia all’oscuro dell’incarico per cui è stato
chiamato.
Il progetto rivoluzionario - tanto
utopistico quanto vanaglorioso - non poteva non scontrarsi, prima ancora che
con la realtà dei fatti, con i sentimenti e gli interessi materiali delle
persone. Assistiamo quindi ad un duplice gioco di intenti e di attese: da una
parte un uomo (il marchese Priviano, assistito dal giovane giurista Narri) che
nella sua lucida follia insegue un sogno di gloria, e dall’altra, una donna (la
sua giovane moglie, Viola, spalleggiata da un avido amministratore) che aspira
ad altri interessi. Intorno a questi due personaggi che costituiscono l’anima
della narrazione, ruotano altre figure che, seppure si affaccino e poi
scompaiano dopo poche pagine, servono tuttavia a delineare sapientemente il
contesto narrativo in cui si dipana la storia.
Tra tutti, spicca la figura di uno strano monaco francescano (fra
Ruggero) il quale, pur vivendo in un eremo “era
scappato via dal consorzio umano proprio per sfuggire da quella società terrena
che gli appariva così meschina e povera”, non disdegna le cose terrene e
sostiene di buon grado il piano del suo amico marchese.
L’autore del romanzo - attraverso luoghi
e tempi non ben definiti - preferisce non ingabbiare il lettore in rigide e
precise coordinate spazio-temporali, che possano in qualche maniera
circoscrivere e limitare il racconto, lasciando così ampio spazio
all’immaginazione e all’intuizione di chi legge. Lo sguardo, comunque, è
rivolto sempre verso quel Mezzogiorno d’Italia, presumibilmente prima del boom
economico degli anni ‘60, verso quel Sud che per l’autore rappresenta un luogo
dell’anima, oltre che la metafora delle insanabili contraddizioni della storia.
Direi inoltre che il romanzo, seppure tramite una vicenda del tutto visionaria,
intenda fare a margine anche una riflessione critica sugli eventi dell’Unità
d’Italia, su quello che gli italiani venuti dal Nord fecero agli italiani del
Sud, su quelle verità forse un po’ scomode che non sono mai state riportate nei libri di storia. “L’unità avrebbe dovuto portarci ad essere
uguali e fratelli” sostiene il marchese Priviano, “invece ci ha divisi in carnefici e vittime, vincitori e vinti...questo
è sbagliato, non l’unificazione in quanto tale...da quando la mia terra è stata
conquistata in nome dell’unità nazionale, è stata abbandonata come mai era
successo prima”.
La forza di
questo romanzo risiede - a mio avviso – non tanto nella rappresentazione degli
eventi narrati, quanto nella magnifica descrizione degli ambienti e dei
paesaggi che di volta in volta vengono delineati, nonché nella sorprendente
raffigurazione psicologica ed intimistica dei vari protagonisti. A volte la
scrittura può apparire ridondante, oserei dire barocca, sempre tesa alla
ricerca della bellezza della “parola” e dello stile; tuttavia l’indagine
introspettiva, congiuntamente alla ricercatezza della forma stilistica,
conferiscono al libro una dimensione molto interessante, certamente in antitesi
alle scialbe mode letterarie dei nostri
tempi. C’è da dire, infine, che i personaggi di questo romanzo – così come
quelli del libro d’esordio, sebbene in una fase diversa della loro esistenza –
sembrano rincorrere traguardi illusori ed ingannevoli (una tesi evidentemente
molto sentita dall’autore), i quali pur di portare a compimento le loro
utopiche e visionarie realizzazioni, i loro sogni custoditi nel cassetto
dell’animo, direi quelle false aspirazioni di grandezza, non esitano a
sacrificare certezze e verità, valori e amicizie, tempo e risorse.
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