Dante Maffia, nato a Roseto Capo Spulico (Cs)
nel 1946, è uno dei più importanti scrittori e poeti contemporanei. Non è
possibile riassumere in poche righe la sua vasta produzione letteraria, che comprende
opere di narrativa, poesia e saggistica; per questo, mi limito a rinviare alla
pagina della biografia presente sul suo sito e su Wikipedia.
Mi ha concesso, e per questo lo ringrazio
tantissimo, una lunga e appassionata intervista, che, partendo da un’analisi
del romanzo Milano non esiste, affronta altri interessanti temi, quali il
meridionalismo, l’emigrazione, la civiltà letteraria, il ruolo della poesia, la
globalizzazione.
Domanda. Milano non esiste è, a
mio avviso, un tassello fondamentale della letteratura italiana degli ultimi
cinquanta anni, il libro che ogni emigrante dovrebbe leggere e conservare come
una cara reliquia, per ritrovarvi una parte di sé. Qual era il suo intento
nella stesura del romanzo?
Risposta. Quando ho cominciato a scrivere Milano non esiste non avevo intenti d’altro genere che quello di
raccontare una storia molto nota soprattutto a me stesso che ho visto vuotarsi
il mio paese di nascita. Una storia però che fosse di tutti gli emigranti, e
senza la retorica piagnona del distacco e della nostalgia. Il protagonista
doveva essere un simbolo, innanzi tutto (ecco perché non ha nome), focalizzare
la contraddizione del suo essere a Milano senza esserci veramente (la moglie
milanese, i figli nati a Milano) fino a considerare i figli calabresi e la
moglie ormai anch’ella calabrese.
No, non vorrei che il mio romanzo fosse letto e conservato come una reliquia, ma come valore della diversità,
nella certezza che niente e nessuno deve (o dovrebbe) mai farsi cancellare le
radici, quali che siano, ma confrontarsi e riconoscere l’altro da sé.
Sull’emigrazione i romanzi abbondano, a cominciare da quello di Francesco
Perri (per documentarsi accuratamente basta sfogliare un ricchissimo testo di
Rocco Paternostro) e sarebbe stato sciocco puntare al sapore e agli effetti
antropologici ed etnologici. Il mio intento era quello di guardare a far
guardare dentro una realtà che non appare mai, che però spacca le famiglie, le
rende estranee a se stesse. Non nascondo che era anche quello di sfidare un
luogo comune. Lo faccio spesso, ultimamente per esempio, ho pubblicato un libro
di versi di oltre cinquecento pagine intitolato Il poeta e la farfalla, rigorosamente poesie d’amore, cercando di
distruggere icone e abitudini per rinnovarne lo spirito e la sostanza. In
qualche modo l’intento, scrivendo Milano
non esiste, è stato il medesimo.
D. “Però un paese ci vuole”,
diceva Pavese. “Non si può vivere senza
le proprie radici”, afferma l’operaio di Milano non esiste. L’origine geografica è un marchio che non si può
cancellare, eppure la globalizzazione mette in crisi questa certezza. Qual è la
sua opinione in merito alla crescente massificazione del pensiero, che vuole
annullare ogni differenza e renderci tutti uguali?
R. Il giorno in cui dovesse accadere che gli uomini diventano tutti
uguali, hanno tutti la stessa maniera di esprimersi e di muoversi, hanno tutti
gli stessi gusti e le stesse abitudini, sarebbe una catastrofe irreversibile e
di conseguenza la cancellazione della vita stessa. La vita, di per sé, è diversità,
altrimenti è orrore impastato nello zero della ripetizione. E’ un tema a me molto
caro, che ho trattato anche in una mia poesia. Le cito parte della composizione
che conclude la sezione di Sbarco
clandestino, un libro uscito nel 2011: “Mi
domando che cosa sarà la vita / quando tutti saremo tali e quali / e tutti
indosseremo la stessa divisa / e tutti mangeremo lo stesso cibo / e tutti
ameremo lo stesso Dio. // … La pace non è un mare incolore / che racconta nenie
per addormentare. / Oh, ecco i bambini tutti uguali / andare a scuola in fila
ordinata / inchinarsi e sorridere. Un’indecenza / l’uniformità gioconda e
statuaria. // La vita si ribellerà, / si nasconderà nei tubi dei cessi, / nei
fondali marini / per conservare una briciola / del canto universale / che è la
negazione della serie, / … Che mai si parli una lingua soltanto, / che mai gli
uomini siano tutti / d’un solo colore, / che mai i cuori siano allineati / in
una sola direzione”.
D. L’io narrante di Milano non
esiste sa di essere una pedina del sistema, una rotella di un ingranaggio
violento e complesso; eppure, nonostante tutto, riesce con cieca determinazione
a non farsi abbagliare dal miraggio della ricchezza e del benessere, fino a
trovare una via di fuga a lungo vagheggiata. Egli non vuole distruggere il
sistema, ma solo eluderlo scappando. Come si colloca il suo romanzo nella
tradizione del “romanzo operaio” della letteratura italiana? Può essere visto
come un libro di rottura, perché sostituisce alla lotta collettiva una guerra
privata?
R. Certo, non pensavo minimamente di diventare l’appendice di una cordata
che comunque non ha dato risultati eccellenti, se non visti in chiave
sociologica e politica. A me ha sempre interessato l’umanità che ognuno si
porta dentro, l’esperienza, il vissuto che è e sarà sempre individuale. Il mio
operaio si rifiuta istintivamente di diventare un numero, ha dentro gli umori e
i sapori del paese, la luce e il sale di parole vive che lo accompagnano, ma
non si pone neppure il problema di volere o non volere distruggere il sistema
in cui è stato catapultato. Ha dentro di sé princìpi e carezze dell’infanzia
che vuole riconquistare tornando, ed è talmente tanto convinto che sia nel
giusto, che disinvoltamente organizza anche la vita dei figli e della moglie
nella direzione del ritorno.
D. Il protagonista di Milano non
esiste è un umile operaio calabrese che considera la città che lo ha
sfamato come una prigione, e non vede l’ora di fuggire per sempre. Lei è un
intellettuale calabrese che da molti anni vive a Roma. Com’è il suo rapporto
con la Città eterna?
R. Quando nel 1967 sono arrivato a Roma per iscrivermi all’Università,
c’era ancora una civiltà letteraria ben articolata e di altissimo livello. Non
fu difficile fare amicizia con Alberto Moravia, Elsa Morante, Livia De Stefani,
Alfonso Gatto, Leonardo Sinisgalli, Elsa De Giorgi, Giacinto Spagnoletti, Laura
Di Falco, Giorgio Bassani, Dario Bellezza, Giorgio Caproni, Attilio Bertolucci,
Enzo Siciliano, Franco Cordelli, Stefano D’Arrigo, Cesare Vivaldi, Renato
Guttuso, Ennio Calabria, Eugen Dragutescu, Pier Paolo Pasolini, Aldo Turchiaro,
Maria Luisa Spaziani, Alberto Bevilacqua, Sergio Zavoli, Aldo Palazzeschi e
potrei continuare l’elenco con nomi eccellenti del mondo del cinema, del
teatro, della musica, della poesia, della critica, del giornalismo e della
narrativa… Avevano in comune una cosa, questi signori, non sopportavano la
mediocrità e perciò o avevi qualcosa da dire
sul serio o eri abbandonato nel tuo brodo.
Dopo la laurea ho fatto il professore in Calabria ma poi ho chiesto il
trasferimento. Avrei potuto sfamarmi anche al mio paese, perciò la mia non era
una condizione identica a quella del mio operaio. Dopo avere scandagliato
Milano per viverci, (Milano è un inferno balordo convinto di non esserlo),
scelsi Roma, di cui avevo intravisto i difetti, ma che sentivo carica di
umanità. Non sbagliai, fui accolto dai signori citati e da altri. Ma adesso
anche Roma è diventata una specie di deserto culturale, una corsa al
presenzialismo e alle cariche e perciò il mio rapporto è diventato quello che
si può avere con una vecchia amante che ormai è incapace di donarsi e di capire
che cosa è essenziale. Soprattutto che cosa è essenziale per un poeta che non
ha mai rincorso la “carriera”. Io ho sempre desiderato che le mie pagine
facciano breccia e trovino accoglienza, non io, io sono appena uno strumento, è
quel che scrivo che vorrei arrivasse, anche in maniera anonima.
D. Chi è, a suo avviso, lo scrittore che ha saputo descrivere il Sud
meglio di tutti, evidenziandone bellezze e contraddizioni?
R. Io, naturalmente… Questa è una di quelle domande a cui non è facile
rispondere in sintesi, dovrei ripercorrere un lungo cammino di testi e indicare
alcune pagine, dei capitoli… Se poi devo fare per forza dei nomi dico Vitaliano
Brancati, R. M. de Angelis e Marotta.
D. Assistiamo negli ultimi anni ad una reviviscenza del pensiero
meridionalista, al risvegliarsi della consapevolezza della nostra storia e del
nostro passato. Al contempo, però, c’è chi assume atteggiamenti di “stampo
leghista”, esagerando forse un po’ nell’idea di un Sud preunitario quale età
dell’oro. Qual è il suo pensiero in proposito?
R. Non era età dell’oro il Sud preunitario, certamente, ma non era
nemmeno ciò che diventò immediatamente dopo l’annessione. I libri di Carlo
Alianello e di Salvatore Scarpino spiegano qualcosa di molto importante in
proposito. Ma le polemiche ormai non servono, anche se non dobbiamo dimenticare
che a Mongiana (Calabria) esisteva la più grande acciaieria d’Europa e a San
Leucio (Campania) una signora seteria da fare invidia a tutte quelle inglesi.
Certo, fu una beffa farsi annettere da una popolazione di un milione e
settecentomila abitanti sparsi fin nella Sardegna essendo il Sud di circa
tredici milioni di abitanti, e non tutti analfabeti o privi di valore, come
hanno voluto farci intendere. La storia ha svenimenti e incoerenze, vertiginose
sconcezze, nessuno mai ne comprenderà il corso. Io credo, comunque, che sia ora
di fare sentire la propria voce e di mettersi alla pari, in ogni senso. Non
potrò mai dimenticare, avevo sedici anni, se non ricordo male, un gruppo di
ragazze bergamasche e friulane in vacanza al mare del mio paese, lo Jonio,
culla della civiltà più straordinaria che si sia mai avuta. Facemmo amicizia e
si scandalizzavano se mi scappava una frase in dialetto, chiamandomi baluba,
barbaro, africano. Invece il loro dialetto, incomprensibile, era giusto,
civile, necessario, poetico.
D. Mafia capitale, scandalo Expo e Mose, “Lega ladrona”: c’è ancora
spazio per un pregiudizio antimeridionale in un Paese che sembra aver elevato
la corruzione a regola di sistema, da Nord a Sud?
R. I pregiudizi è sempre difficile sradicarli, anche quando non hanno un
fondamento. Basta che sorgano e poi si radicano e diventano vangelo. E’ una
storia antica. Una volta a Milano fu debellata una banda di quattro poveri
cristi meridionali guidata da un avvocato milanese, che aveva finalità
politiche e voleva creare tensione. Tutti i giornali titolarono a lettere
cubitali "Banda meridionale" facendo appena un cenno, se pure, della mente che
organizzava furti e rapine e terrorizzava i quartieri alti della città
lombarda. Il pregiudizio continuò e non accadde nulla di diverso neppure quando
si insistette sulla matrice lombarda. Sono certo che continuerà anche adesso, è
una questione di antropologia, di cultura il sentirsi portatori di valori e
attribuire agli altri le miserie dei comportamenti. Ne sono convinti al Nord e
la convinzione è un’arma micidiale che non si debella coi fatti, ma con una
rivoluzione delle coscienze che tutti si guarderanno bene da mettere in atto.
Neppure di tentare. Del resto credo che faccia comodo, e non è una
provocazione, anche ai meridionali stessi.
D. Lei è un apprezzato poeta. Oggi quasi tutti scrivono “poesia” e
pochissimi ne leggono; crede che questa forma di espressione possa avere ancora
uno spazio nella letteratura contemporanea?
R. Il fatto che molti scrivano poesia la dice lunga su questa esigenza,
probabilmente perché ormai è assegnato al poeta il ruolo dell’uomo sensibile. E
poiché la sensibilità non si può misurare con nessuno strumento, ecco che si
arroccano nel diritto di essere poeti. Ed è vero che chi scrive poesia non la
legge, strano fenomeno che a me fa ridere, che trovo buffo, e così cretino da
farmi pensare che la velleità è una malattia peggiore del cancro.
Al di là di questa osservazione ormai consacrata e riscontrabile ovunque
(sette milioni circa di libri di versi vengono editi ogni anno) chi scrive
poesia vera sono cinque, al massimo dieci persone che distillano vita, amori,
rancori, illusioni, tensioni, ideali, storia, cultura, religione, cadute
morali, esaltazioni e tanto altro per arrivare a significare, come diceva
l’Alighieri, e a insegnare “ad ora ad ora
come l’uom s’eterna” dopo averlo imparato. Scrivere versi è una moda, ma i
più non sanno neanche che cosa sia un vero verso. Comunque una ragione, vanno
sempre dicendo, ci deve essere se quando vogliamo porre in risalto la grandezza
dell’Italia facciamo per prima i nomi di Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso,
Leopardi e Foscolo.
Sì, ci sarà sempre spazio per la forma espressiva della poesia, vera o
falsa, stupida o intelligente. E’ un’esigenza dell’uomo tentare di esprimere al
meglio ciò che prova. Certo, i danni fatti da alcune cordate di finti poeti
sono stati feroci e sanguinanti, ma la poesia sa rimarginare le ferite e sa
rinnovare il suo lievito umano e culturale puntando alla bellezza e alla luce e
abbandonando alle scorie e all’immondizia il marginale. Ma dobbiamo digerire il
veleno che una masnada purtroppo di finti poeti ha sparso ovunque togliendo
alla poesia il mistero, il fascino e l’altezza spirituale e poiché in genere
questi finti poeti sono stati o sono impiegati o funzionari della editoria che
conta, siamo stati inondati da miseria e da caccole di ragni e di topi. Balestrini,
Giuliani, Cucchi, Majorino, D’Elia, Insana, De Signoribus, De Angelis, per fare
qualche nome, hanno autorizzato nei fatti la banalità, il semplicismo becero,
l’oscurità del dettato, la bruttezza e il gioco fine a se stesso. Ma la
confusione passerà presto. Come si dice? Alla squagliata della neve si vedono
tutte le malefatte e anche altro…
D. Gli editori, specie i grandi gruppi editoriali, incentivano la
pubblicazione di opere scritte da attori, presentatori televisivi, sportivi,
presenzialisti del tubo catodico, volti più o meno noti, a danno della
letteratura di qualità e degli “emergenti”, che trovano sempre meno spazio. Il
fine ultimo degli editori sembra essere solo il profitto. È stato sempre così,
oppure si sta assistendo ad uno scadimento letterario, che è poi lo specchio
della decadenza del Paese e della società?
R. Non è stato sempre così. Prima le case editrici, fino a qualche
decennio addietro, erano in qualche modo i santuari della cultura, intesa in
tutte le sue irradiazioni e le sue ragioni, e lavoravano con una equipe di
studiosi che badavano a scegliere le opere senza stare a preoccuparsi della
eventuale vendita. Un libro veniva valutato per quel che valeva e non per
altro. Poi sono cambiati i parametri, morti Bazlen, Pavese, Vittorini, Sereni,
Spagnoletti, Ravegnani, Calvino non si sono avuti più lettori per scegliere le opere
da pubblicare. Ed ecco l’ondata dei giornalisti, degli attori, degli sportivi,
dei televisivi, che però non lasciano traccia, si sostituiscono ai giornali, ai
rotocalchi e non so nemmeno esattamente se fanno profitto, visto che gli
editori chiedono contributi allo stato. Sono sospettoso nell’instaurare una
equazione tra ciò e la decadenza del Paese e della società, ho l’impressione
che ci possa essere qualcosa di peggio, di più losco, di più scandaloso.
D. Quali sono i libri che considera fondamentali per la sua formazione
culturale? Preferisce leggere opere che trattano argomenti di stretta
attualità, oppure classici che approfondiscono tematiche universali, legate
alla natura immutabile dell’essere umano?
R. Sono onnivoro, leggo di tutto, e con una fame di pagine che più consumo
e più ne voglio. Dopo il pasto ho più fame di pria, come dice il poeta. Ma col
passare degli anni ho messo in uno scaffale i cento volumi che ho riletto e che
rileggerò. Per lo più classici, da Omero a Orazio, da Lucrezio ad Aristofane,
da Platone a Rabelais, da Tasso a Sterne, a Gogol, a Tolstoi, ma amo molto e li
ritengo fondamentali per la mia crescita o per i miei scontri, anche autori più
vicini nel tempo, come Manuel Scorza, Juan Rulfo, Saramago, Hamsun, Bunin,
Hilton, Broch, Celine, Steinbeck, Canetti. Quest’ultimo più di tutti, è quello
che meglio ha capito il senso del vivere e del morire, e forse anche il senso
del nostro passaggio sulla terra.
D. In un’intervista rilasciata nel 2013 alla rivista letteraria
L’EstroVerso, lei afferma di essere “anarchico
in ogni direzione, soprattutto letteraria” e di “non accettare le graduatorie imposte dall’alto, i suggerimenti dei
recensori ufficiali”. Questo atteggiamento anticonformista le ha consentito
di costruire un percorso di tutto rispetto, ma lontano dal pensiero unico delle
certezze acquisite. Quali difficoltà ha incontrato per affermarsi nel panorama
letterario?
R. Nessuna. Sarebbe bastato che mi fossi genuflesso e avessi accettato il
diktat di alcuni mediocri per essere subito dentro il panorama dei presenti. Io
non amo essere presente, l’ho già detto, mi piacerebbe che fossero le mie opere
ad essere presenti. Agli occhi esterni il mio atteggiamento è risultato
anticonformista, lo comprendo, in realtà io ho seguito soltanto e semplicemente
il mio modo di essere e di vivere, la mia inclinazione alla semplicità e al
saper dire pane al pane e vino al vino. Con sviste clamorose, ci mancherebbe
altro! Ma non so fingere, fare l’ipocrita o tradire. Non so essere salottiero (ci vorrebbe poco a
fare le smorfie delle scimmie e a tessere lodi e salamelecchi).
Le certezze acquisite! Io credo che chi scrive non debba mai partire da
certezze, ma da possibilità, da probabilità. Neanche la morte è una certezza
vista da un certo punto di vista. Dunque, mi domanda quali difficoltà ho
incontrato per affermarmi nel panorama letterario. Una sola: quella di
convincere a leggermi. Ecco che ritorniamo al cambiamento, ai letterati di un
tempo, a quando dicevo di ”civiltà letteraria”. Palazzeschi o Moravia, la Morante
o Spagnoletti, prima di prenderti a calci o di rifiutarsi a darti retta,
spiavano, spulciavano, si sporgevano verso i giovani…verso le loro opere.
D. Se dovesse definire la sua produzione letteraria con un aggettivo,
quale userebbe?
R. Scelga lei tra questi: umana, autentica, vera, palpitante,
germogliante, lievitante. Sì, molto, molto maffiana.
Lo scrittore e poeta Dante Maffia
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