Quando Guglielmo
Petroni diede alle stampe il suo romanzo-manifesto sulla Resistenza, Il mondo è una prigione, un attento
lettore lo ringraziò dicendo: “tu hai
scritto per tutti noi le parole che dovevano essere scritte su di noi”, ad
indicare che quel libro aveva avuto la capacità di raffigurare e di portare
alla luce la storia di una generazione di intellettuali, la cui giovinezza era
stata segnata dall’esperienza della dittatura e da quella partigiana. Credo che
questo giudizio, pur con le dovute differenze, si attagli perfettamente a Milano non esiste. Dante Maffia,
infatti, ha dato conto di una generazione di meridionali costretti nel secondo
Dopoguerra a lasciare i luoghi natali per raggiungere le città industriali del
Nord, dove trovare un apparente benessere a costo di diventare le piccole ruote
di un ingranaggio pauroso e alienante. Il libro dà voce a queste persone, ne
racconta sentimenti, frustrazioni e speranze; insomma, parafrasando il giudizio
che ho riportato più sopra, si può dire che Maffia ha scritto per gli emigranti
meridionali le parole che dovevano essere scritte su di loro.
Protagonista ed io
narrante del romanzo, in forma di monologo, è un operario calabrese giunto alle
soglie del tanto agognato pensionamento, che ha finalmente la possibilità di
coronare un sogno tenacemente perseguito: abbandonare Milano, la città che gli
ha dato il pane ma che lo ha sfruttato e spersonalizzato, e ritornare al paese
in cui è nato, fra le gente e le tradizioni che conosce e gli appartengono. Il
suo progetto, però, è più ambizioso di un semplice ritorno alle origini: con il
denaro duramente risparmiato negli anni, tra straordinari e un impiego in nero
in cantiere, è finalmente riuscito a costruire in Calabria la casa dei sogni,
bella, spaziosa e in riva al mare; qui vuole condurre tutta la famiglia – moglie
e sei figli, tutti nati all’ombra del Duomo – per salvarla dal grigiore e dalla
violenza della metropoli, equiparata a una prigione (“ho fatto quarant’anni di Milano”, arriverà a dire). Nel preparare
il suo progetto – in cui si combinano uno straordinario amore paterno e, al
contempo, una visione tradizionalista del capofamiglia, sovrano indiscusso legibus solutus – non ha però considerato
che i suoi ragazzi, nati e cresciuti a Milano, non hanno alcuna intenzione di
andarsene in una terra che, al più, considerano buona solamente per le vacanze
estive. E su questo conflitto, via via più drammatico, si innesta una
sofferenza che finisce per diventare tragedia esistenziale.
I temi forti del
romanzo sono soprattutto due: lo sradicamento e il desiderio del ritorno alle
origini, che potremmo riassumere nel “però
un paese ci vuole” di pavesiana memoria. “Non si può vivere senza le proprie radici, senza sentire il calore del
mondo”, dice l’umile operaio calabrese. E nonostante sia un uomo semplice,
spiega bene il fulcro del suo pensiero: la nostalgia – che porta a considerare
il paese come una sorta di paradiso perduto – non riguarda solo gli odori, i
colori, i suoni o la vista del mare. È anche questo, ma è soprattutto la voglia
di tornare ad essere liberi, padroni di se stessi, di riconquistare un’umanità
appannata dalla schiavitù delle apparenze della grande metropoli industriale. Tutto
il romanzo vive della contrapposizione Milano/Calabria, inferno/paradiso; a
Milano tutto è sporco, l’aria è pervasa da un grigiore che ottunde, persino la
pioggia è malevola. A Milano non c’è futuro, nonostante ci sia il lavoro e il
benessere; la stessa parola futuro
indispettisce il protagonista, che legge nel sostantivo la prospettiva di altri
lunghi anni di schiavitù. Per lui, il futuro ha il sapore di una sconfitta e
non la speranza di un miglioramento.
La lettura mi ha
portato alla mente una celebre lirica di Ungaretti, In memoria, che affronta proprio il tema dello sradicamento: “Si chiamava / Mohamed Sceab […] / suicida /
perché non aveva più / patria. […] / Amò la Francia / e mutò nome. / Fu Marcel
/ ma non era francese / e non sapeva più / vivere / nella tenda dei suoi / dove
si ascolta la cantilena / del Corano /gustando un caffè”. Anche il
protagonista del romanzo, come il Mohamed della poesia, sente il peso della
lontananza della terra dei padri; e proprio questa maledetta lontananza lo
trasforma inesorabilmente, rendendolo diverso dal fanciullo e dal ragazzo che
era stato. Per questo, quando sul treno Crotone-Milano lo scambiano per un
“altoitaliano”, lo smarrimento e una cieca rabbia si impadroniscono di lui,
portandolo a chiedersi chi sia veramente.
Una notazione va fatta
in ordine al paradossale titolo. Milano non esiste perché, come dice il
protagonista, “quella che ho fatto io non
è vita, è solo sacrificio in attesa di vivere”. Ha soggiornato quarant’anni
nella Capitale economica d’Italia, eppure tutto gli è apparso come un “abbandono al niente”. Milano non è mai
esistita perché “per tutti questi anni mi
sembra di non aver vissuto” se non nei brevi soggiorni estivi in Calabria, “di non essermi appartenuto, di essere stato
un altro per sopravvivere”. Ogni ricordo piacevole, ogni desiderio o
speranza, sono riconducibili alla terra natale; il resto è come se non ci fosse
mai stato, tutto il rimanente tempo si condensa in una grande nube grigia.
Ma Milano non esiste è anche un’opera di
denuncia sociale, che rinnova la tradizione italiana del romanzo (e del cinema)
operaio. Il protagonista è uno sfruttato, una pedina di quella società
industriale a cui ha sacrificato gli anni migliori della sua esistenza ed ogni
energia fisica e morale; in cambio, non ha ricevuto che una misera paga, appena
sufficiente per tirare avanti. Si è trascinato per quasi quarant’anni in una
città odiata, negandosi ogni svago, resistendo in silenzio ai soprusi
quotidiani, non esponendosi politicamente per paura di ritorsioni, abbassando
continuamente gli occhi anche davanti alle ingiustizie e camminando piano,
quasi per paura di schiacciare le formiche. Eppure, per un profondo orgoglio
personale, non ha mai ceduto alle lusinghe della grande città, non ha mai
negato le proprie origini, né le ha svendute pur di essere accettato. Di fatto,
si è comportato in maniera opposta all’emigrante in Svizzera del film Pane e cioccolata (interpretato da Nino
Manfredi), che, pur di sentirsi pari agli altri, non esita a tingersi di biondo
i baffi e i capelli, per apparire uno svizzero. Nelle note di copertina,
questo romanzo viene accostato a Vogliamo tutto di Nanni Balestrini, altro caposaldo della letteratura industriale
italiana. In verità, il paragone non mi sembra calzante. Il protagonista di Vogliamo tutto è un operaio meridionale
che, arrivato a Torino, scopre la lotta di classe e ne fa la ragione della
propria vita; egli combatte in prima fila e non si tira indietro negli scontri
con la polizia, perché è convinto che il sistema si possa e si debba cambiare.
Il protagonista di Milano non esiste, invece, sente il conflitto di classe,
ma non pensa che le gerarchie immutabili della società industriale possano
essere mutate; per questo, pur partecipando agli scioperi e manifestando
solidarietà verso gli altri operai, cerca di farsi vedere il meno possibile, si
nasconde quasi, non vuole rogne. I figli lo chiamano “pavido”, ma questa
apparente rassegnazione è l’unica arma che gli consente di andare avanti e di
realizzare il progetto di costruirsi una comoda casa in paese.
Inoltre, il libro è
una profonda riflessione sul tema – di dirompente attualità –
dell’immigrazione. L’essere meridionale è un timbro, un marchio, addirittura
una macchia che non si può lavare; è l’impronta della diversità, impressa oggi
sulla pelle dei tanti extracomunitari che cercano una vita più dignitosa
approdando sulle nostre coste, fuggendo da condizioni drammatiche. E forse
portando con sé il sogno di tornare al Paese di origine, dove costruire una
casa più grande, spaziosa, per tutta la famiglia.
In conclusione,
Milano non esiste è un’opera complessa, romanzo sociale e psicologico,
racconto appassionato e crudo monologo interiore, resoconto di una vana
ribellione alle convenzioni e cronaca di una drammatica sconfitta umana.
Dal libro è stato
tratto un fortunato spettacolo teatrale, per la regia di Roberto D’Alessandro.
La copertina del romanzo
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