“Siamo figli delle
stelle, pronipoti di Sua Maestà il Denaro”, cantava qualche lustro fa Franco
Battiato. Se Gordon Comstock, il protagonista del romanzo di Orwell, avesse
conosciuto i versi di questa canzone, probabilmente li avrebbe eletti a proprio
inno.
Gordon è un trentenne
londinese, rampollo di una famiglia della media borghesia caduta in disgrazia.
I pochi parenti superstiti, e soprattutto la sorella Julia, sognano per lui un
buon posto di lavoro, convinti che potrà ridare lustro all’annacquato casato.
Ma Gordon, più di ogni altra cosa, odia la vita piccolo-borghese che gli viene
prospettata, disprezza le abitudini dei benpensanti, abiura la misera esistenza
dell’uomo medio. Per lui, ciò che conta non è fare bene nella vita, perché
questo inevitabilmente comporta la schiavitù, l’asservirsi alle regole di un
sistema che detesta. Non vuole “fare bene”, ma sopravvivere nella sottile terra
di nessuno tra l’apparente benessere e la nera miseria, cercando di avere
successo nella poesia, sua grande passione e sincera aspirazione.
Tutto il suo odio si
concentra su due simboli: il denaro e le aspidistre. Il primo è un bieco
tiranno, elevato dagli uomini a vera è propria divinità; per i moderni, “è ciò
che dio soleva essere” per gli antichi. Gordon ha un atteggiamento ambiguo
verso il denaro, che chiama Dio Quattrino. Da un lato, vorrebbe affrancarsene,
per essere libero come un anacoreta; dall’altro, però, ne ha un maledetto
bisogno per le semplici necessità quotidiane. Dovrà perciò constatare che anche
una vita al limite della indigenza ha un costo, e non può prescindere dal
possesso di una somma, sia pur irrisoria, di denaro. L’altro nemico giurato è
l’aspidistra, una pianta dalle foglie a forma di scudo, che decora le case
della piccola borghesia inglese. Nell’aspidistra il protagonista identifica la
summa del mondo che odia, il concentrato di tutte le perversioni umane. Perché,
in fin dei conti, l’uomo medio altro non sogna che “sistemarsi, far bene, vendersi
l’anima per una villetta o un’aspidistra”. Tutte le case londinesi hanno una di
queste piante, così diffuse per la longevità e la straordinaria capacità di
adattarsi ad ogni clima, di sopravvivere all’incuria umana, di crescere dove
neppure il più esile filo d’erba riuscirebbe ad andare avanti. L’aspidistra,
nella sua semplicità di pianta comune, è la quintessenza delle aspirazioni e
del fallimento della classe media: il desiderio di una vita agiata che si
scontra con l’amara constatazione della realtà, fatta di biechi agenti di
commercio, operai pagati meno di una sterlina la settimana, modiste zitelle,
procaci bariste di sordidi pubs, mariti annoiati che si trastullano con
prostitute. Più che il simbolo del benessere borghese, l’aspidistra è il simulacro
di un’esistenza solo apparentemente agiata, il fallace segno di chi crede di
“avercela fatta” e la espone alle finestre come una bandiera.
Il credo di Gordon,
professato con somma intransigenza, è tanto semplice quanto impossibile da
realizzare: “unica religione è tenersi lontani dal sudicio denaro”. Eppure, per
quanto fermo nei suoi propositi, Gordon non riuscirà a portare fino in fondo la
sua ribellione, sarà costretto a soccombere alla malia del denaro (e delle
aspidistre). E si troverà così a dover scegliere, a malincuore, tra una vita
rispettabile e l’ostinata guerra ai quattrini, che conduce inevitabilmente al
carcere, alla fogna, al cimitero.
In questo
straordinario romanzo, Orwell ha compiuto una precisa scelta ideologica. La
graduale soccombenza del protagonista, che da scapestrato diventa un borghese
modello, con tanto di cravatta e aspidistra, non è altro che la vittoria del
profitto sul puro ideale, la sconfitta dell’individualismo anarchico a tutto
vantaggio di una visione utilitaristica dell’essere umano, semplice pedina di
una scacchiera che non può dominare. Eppure, forse proprio per questa precisa
scelta politica, il romanzo appare non solo realistico, ma addirittura vero, di
una illuminante concretezza.
I personaggi si
muovono in una Londra paurosa e tetra, abitata da esseri che hanno una
consistenza poco più reale di quella di un fantasma; “in una città come Londra,
ogni vita che si vive deve essere intollerabile e senza significato”, arriva a
dire il giovane Comstock. Eppure, anche in questa cloaca dolorante e purulenta
ci sono degli spiriti eletti, il cui contributo sarà essenziale per il
rinsavimento di Gordon. Il primo è Ravelston, direttore della rivista Anticristo,
cui Gordon occasionalmente collabora con delle poesie. Di famiglia agiata, Ravelston
è una sorta di mecenate, che cerca di mettere in pratica i principi del
socialismo: la sua casa è un andirivieni di artisti falliti, che aiuta con
laute sovvenzioni. Poi c’è Rosemary, la devota fidanzata di Gordon, una delle
più intense figure di donna che la letteratura del Novecento ci ha regalato. È
una ragazza del popolo, dotata di solido buonsenso e di un temperamento mite ma
non remissivo. Accetta le stranezze del fidanzato, anche se non riesce a capire
fino in fondo la sua ossessione per il denaro; eppure, sarà proprio il suo
amore devoto e incondizionato a ricondurlo sui solidi binari di un’esistenza
borghese.
Sono tante e profonde
le suggestioni di quest’opera, che con cocciuta superficialità viene definita
“minore”. In verità, in essa c’è tanto della vita e del pensiero di Orwell, che
alla lotta contro la tirannide – sia questa politica o finanziaria – dedicò la
miglior parte della sua produzione letteraria.
La copertina di una vecchia edizione Mondadori
Bellissimo articolo complimenti! La disarmante attualità e concretezza del romanzo lo rendono, a mio parere, superiore agli altri due, molto più conosciuti. Dovrebbe avere maggiore riconoscimento.
RispondiEliminaGentile e anonimo commentatore, ti ringrazio per i complimenti e sono perfettamente d'accordo con te. Questo libro ha un'intensità, una rabbia, un ritmo, davvero straordinari. A mio avviso è il migliore di Orwell e sono contento di non essere l'unico a pensarla così. Grazie per avermi letto.
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