Inserito nella
prestigiosa lista dei “100 film italiani da salvare”, che raccoglie le
pellicole che hanno saputo raccontare meglio la storia collettiva del Paese,
Il posto di Ermanno Olmi (1961) è un capolavoro nascosto, un lungometraggio
che brilla pur raccontando una vicenda minima.
Domenico è un ragazzo
di Meda, figlio di una campagna ormai snaturata, diventata estrema periferia
della metropoli che avanza. I genitori sognano per lui il posto fisso,
l’occupazione che dura una vita, garanzia di un’esistenza senza stenti e
preoccupazioni. Per loro, come per tutti quelli che ne vivono ai margini,
Milano significa soprattutto un impiego stabile, speranza di un futuro
migliore.
Una fredda mattina
d’inverno Domenico prende il treno diretto verso la città, per partecipare alle
selezioni di una grande azienda alla ricerca di diverse figure professionali. E
sebbene gli esami si risolvano in semplici esercizi di aritmetica e banali test
psico-attitudinali, sono comunque in grado di svelare la cruda spietatezza del
sistema. Uno dei candidati, padre di famiglia, non riesce a risolvere il
problema di calcolo, venendo così escluso. E sono proprio gli occhi disperati
di quest’uomo, inquadrati per pochi fotogrammi, a restituire tutto il dolore di
chi è posto ai margini della società, privato di un benessere di cui tutti gli
altri possono apparentemente godere.
Domenico, invece,
riuscirà senza sforzi ad essere assunto, sia pure come semplice
aiuto-fattorino. Entrato in azienda, avrà modo di conoscere lo squallore della
vita impiegatizia: la prepotenza dei capi, la strafottenza dei raccomandati,
la routine che piega gli anni, le
invidie e i rancori che stagnano nel profondo degli animi. Olmi è abilissimo
nel tratteggiare tutti questi aspetti, con scene fatte soprattutto di sguardi,
tic nervosi, gesti e poche, misurate parole.
Per il ruolo del
protagonista venne scelto un attore non professionista: il quindicenne Sandro
Panseri, uno dei volti più espressivi del cinema nostrano. Il suo sguardo
smarrito resta impresso nella mente dello spettatore, come nella celebre scena
dell’esame psicologico, dove il ragazzo risponde attonito ed esterrefatto alle incomprensibili
(per lui) domande che gli vengono fatte. Nei suoi occhi si legge la speranza di
ottenere l’impiego, ma al contempo un muto disincanto, una sorta di invincibile
nichilismo, la vaga consapevolezza che è inutile cercare di dominare le regole
del sistema, perché queste sono oscure e impenetrabili. Solo l’amore può
essere una via d’uscita dal vicolo cieco; ma per Domenico il miracolo non si
avvererà.
Altro “personaggio”
del film è la città industriale, che meraviglia e sovrasta i protagonisti, fino
ad inglobarli nei suoi ingranaggi. Tutto è mostruoso: i lavori della
metropolitana, la ressa delle pause caffè, lo sferragliare dei tram e il
traffico impazzito. Eppure, nessuna forza di ribellione si annida nel cuore di
Domenico, perché la resistenza è impossibile. Alla fine, entrerà a fare parte di
quel sistema che, in cambio dell’anima, offre un’anonima scrivania e l’agognato
posto fisso.
La felicità tanto
sperata, però, non arriverà. Nella scena finale, Domenico guarda avanti a sé la
schiera grigia delle schiene dei colleghi, con aria interrogativa. Forse non
capisce fino in fondo di essere diventato la rotella di un ingranaggio pauroso,
ma percepisce di non appartenere più a se stesso. Perché conquistare il “posto”
non ha il sapore glorioso del successo, ma porta con sé un marcescente sentore
di morte.
E la domanda che aleggia
nell’aria, quando scorrono i titoli di coda, è soltanto una: qual è il prezzo
che Domenico ha dovuto pagare per ottenere “il posto”?
Domenico (Sandro Panseri) alla sua scrivania
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