Ugo Pirro, nato a
Battipaglia nel 1920 e morto a Roma nel 2008, è stato uno dei più importanti autori
del nostro cinema. Sue le sceneggiature di alcuni straordinari lungometraggi di
impegno civile, come Indagine su un
cittadino al di sopra di ogni sospetto, La
classe operaia va in paradiso (entrambi con Gian Maria Volonté, per la
regia di Elio Petri) e La proprietà
privata non è più un furto (sempre di Petri, con Flavio Bucci). Nonostante
l’attività di scrittore per il cinema sia quella che gli ha garantito successo
e imperitura memoria, Pirro è stato anche un prolifico narratore, dalla prosa
semplice e lineare, potremmo dire molto cinematografica.
Figli di ferroviere è una sorta di diario, il racconto autobiografico della vita
e dei continui trasferimenti da una città all’altra della famiglia dell’autore,
in un lasso di tempo che va dal 1920 alla metà degli anni Cinquanta, passando
per il Fascismo e la guerra. Eppure, sarebbe riduttivo limitarne la valentia al
mero dato personale, alla rievocazione sull’onda del ricordo. Il libro è
soprattutto la storia minima dell’Italia che fu, il racconto collettivo dei
ferrovieri, che più di tutti hanno contribuito ad unire il Paese. Si può
parlare di un’accurata e nostalgica narrazione di una ferrovia che ora non c’è
più; non una semplice storia del treno, ma qualcosa di più profondo e umano:
la storia delle Ferrovie dello Stato e dei suoi uomini del personale viaggiante.
Figure che sembrano appartenere all’era del mito: i casellanti che conducevano
un’esistenza rurale al bordo della massicciata, i macchinisti che sporgevano dal
finestrino la testa annerita dal fumo, i frenatori che trascorrevano
interminabili giornate nei desolati vagoni merci, i capigestione addetti alla
formazione dei convogli, gli accelerati, le vecchie locomotive sbuffanti. E
soprattutto i capistazione, con il loro acuto fischietto, le bandiere di
segnalazione e il berretto rosso orlato d’oro, simile a quello degli ufficiali
dell’esercito. Ma l’aspetto che l’autore vuole evidenziare è soprattutto un
altro: la ferrovia da lui raccontata è una grande famiglia, dove il vincolo che
unisce non è dato dal sangue, ma dalla comunanza di condizione, da un senso di
appartenenza che non ha eguali nella storia industriale italiana.
Un paragone, in particolare,
ricorre nel libro: quello tra le famiglie dei ferrovieri e quelle degli zingari
e dei circensi; le prime, come le seconde, assai numerose e sempre in viaggio. Scrive
infatti l’autore:
«La vita nostra sembrava esistere soltanto tra treni, stazioni, locomotive, telegrafi, orari ferroviari, trasferimenti da una stazione all’altra. Viaggiavamo anche quando ci affacciavamo alla finestra della nostra casa nella stazione. I treni visti dalle nostre finestre erano così familiari che sembravano nostri, come se vivessimo sui treni, alla pari dei nomadi. E chissà se questo nomadismo ferroviario alla fine non abbia fatto viaggiare liberamente i pensieri, l’immaginazione.»
Scorrere le pagine è
come fare un viaggio nei vecchi scompartimenti di terza classe, alla scoperta
di un tempo in cui il capostazione era una figura amata e rispettata al pari di
un’autorità, un tempo in cui i figli dei ferrovieri godevano di una libertà per
altri ragazzi sconosciuta, perché il loro campo di giochi era un mondo
meraviglioso, fatto di vagoni fermi sui binari morti, immensi piazzali, scali
merci, locomotive su cui montare con sprezzo del pericolo. Ma non bisogna
pensare che la narrazione sia semplicisticamente edulcorata; Pirro nulla
nasconde di quegli anni, parla della fame, delle lotte sindacali, delle paghe
misere, della povertà, della Napoli bombardata durante la guerra, degli scontri
tra fascismo e massoneria. La sua analisi sa essere spietata, senza risparmiare
nessuno, persino l’amato padre.
A chi è destinato
questo libro? Come ho detto, lo stile è semplice, asciutto, non indulge in
coloriture letterarie. Lo apprezzeranno i vecchi ferrovieri, i figli di ferroviere, ma anche tutti quelli che hanno voglia di leggere una testimonianza
storica, il resoconto sentito di un mondo che non esiste più. Perché anche la
ferrovia è cambiata e forse per questo non esercita più il suo incanto.
D’altronde, quanto a bellezza e fascino, avrebbe senso paragonare una E.636 con
un attuale locomotore dell’alta velocità? La prima, sia pure meno “moderna” (ma
siamo sicuri che questo sia un difetto?), vincerebbe sotto tutti i punti di
vista.
Quasi quasi lo regalo a un mio amico, figlio di ferroviere.
RispondiEliminaGrazie mille per la visita e per il commento. Anche io sono "figlio di ferroviere"; credo che il tuo amico apprezzerà. Purtroppo è un po' difficile reperirlo, dato che esiste un'unica edizione del 1999. Un saluto.
RispondiEliminaOk!
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